19 novembre 2009

La doppia vita del terrorista

La fuga dalla Francia al Sud America
di Marco Neirotti
«E’ una vergogna. E per oggi non parlo». Otto parole. Le disse in francese a La Stampa il 30 giugno 2004 quando il presidente della prima Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello diede parere favorevole alla sua estradizione. Cesare Battisti era un terrorista latitante da vent’anni, con due condanne all’ergastolo, l’accusa di quattro omicidi. E si indignava sprezzante del fatto che magistrati di un Paese come la Francia, che l’aveva accolto, coccolato, trattato al contrario dei suoi colleghi locali (per altro con meno sangue alle spalle) lo restituisse allo Stato che voleva finire di regolare i conti con la sua «rivoluzione». A Parigi si sentiva un intellettuale, dal rosso delle sparatorie era passato al giallo dei libri. Uno scrittore per il quale si era speso perfino Daniel Pennac: «Penso che occorra un’amnistia per voltare finalmente la pagina degli anni di piombo». Ma le toghe la pensarono diversamente dagli intellettuali. Così se ne andò anche da lì. Brasile. Ma nemmeno lì i suoi conti tornano.
Da Sermoneta, provincia di Latina, dove nasce e cresce, nel 1976 si trasferisce a Milano: qui partecipa ai gruppi dell’antagonismo e poi alla fondazione dei Pac, i Proletari Armati per il Comunismo. Incomincia la stagione del sangue. L’accusa è per quattro omicidi: Udine, 6 giugno 1978, vittima Antonio Santoro, agente di polizia penitenziaria. Mestre, 16 febbraio 1979, vittima Lino Sabbadin, professione macellaio, militante del Movimento Sociale Italiano. Milano, 16 febbraio 1979, vittima Pierluigi Torreggiani, gioielliere. Milano ancora, 19 aprile 1979, vittima Andrea Campagna, agente della Digos.
Due mesi dopo, il 26 giugno 1979, in un’operazione contro i Proletari Armati viene arrestato e portato in carcere. Si assume le «responsabilità politiche e militari del movimento». Cominciano i processi, che finiranno con due ergastoli confermati in Cassazione nel ‘91 e nel ‘93 per due omicidi compiuti personalmente e altri due in complicità. Il 4 ottobre 1981 un gruppo terroristico assalta il carcere di Frosinone, dove è detenuto, e Battisti fugge in una compagnia mista, dove figura anche un camorrista. Ripara a Puerto Escondido, da lì torna in Europa e sceglie Parigi. Ma si allontana un’altra volta, destinazione Messico. E’ lì quando fioccano le condanne definitive. Nell’ottobre 1990 torna a Parigi. Pochi mesi e lo arrestano su richiesta italiana. Lo dichiarano non estradabile e lo rilasciano. Ed ecco lo scrittore, il giallista, pubblicato senza successo anche da noi. Lo protegge una corte di personaggi in vena d’apparire, come la giallista Fred Vargas.
Quando esce dal carcere, una tra i suoi legali, Irene Terrel, non è ancora soddisfatta: «Giustizia è fatta, ma non è finita qui». Infatti non è finita proprio. Il 30 giugno 2004 la Corte d’Appello, presidente Gurtner, ribalta la decisione: Battisti Cesare deve essere estradato. Lui, pallido, sbarra gli occhi. E’ incredulo. Ma non perde tempo. E’ in libertà provvisoria, in attesa delle pratiche. Sabato 14 agosto firma per l’ultima volta il registro in commissariato. Lo ritrovano in Brasile il 18 marzo 2007: è a Copacabana. Lo hanno scovato i Ros dei carabinieri, collaborando con i colleghi francesi. Lo arrestano. E Battisti chiede asilo politico: il 14 gennaio di quest’anno la conferma: status di rifugiato, concesso dal ministro della Giustizia Tarso Genro, che lascia stupefatti tutti, dalla gente che guarda la tv fino al presidente del Senato Alves Finho.
Fra pochi mesi saranno trascorsi trent’anni dalla prima vittima. Una parte di intellettuali francesi continua a spiegarci che non sappiamo voltare pagina. Chissà perché nessuno si è mosso per Ben Salem, ladro tunisino, condannato da noi a quattro anni e mezzo, catturato in Francia dove lavorava, là incensurato, tenuto in carcere in attesa di estradizione, senza nemmeno la libertà vigilata.
«La Stampa» del 19 novembre 2009

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