20 novembre 2009

Il rito stanco dell'onda

Scuola: le occupazioni contestate
di Pierluigi Battista
Forse qualcosa sta cambiando, nella liturgia d’autun­no che ogni anno si inscena nelle scuole ita­liane. Gli studenti sembra­no disamorati (al momen­to) di cortei e «okkupazio­ni ». Un gruppo di profes­sori si barrica in un liceo romano dopo aver appre­so da un tam tam di Face­book che un gruppo di studenti si stava preparan­do a occupare l’istituto. Si profila persino la minac­cia del 5 in condotta: ar­ma spuntata se ad esser­ne colpiti fossero i grandi numeri; un deterrente mi­naccioso se il movimento dovesse trascinare solo gruppi sparuti.
Qualcuno sostiene che l’Onda è rifluita. Si avver­te una stanchezza, una sa­turazione per forme di mobilitazione sempre uguali, sempre scritte sul­lo stesso copione, sem­pre più rituali, stucchevo­li, ripetitive. Un anno fa il gesto di fierezza dei pro­fessori romani sarebbe stato inimmaginabile. C’erano certo le proposte del ministro Gelmini a ca­talizzare malcontento e spirito di protesta. Ma già allora, dopo la fiammata che sembrò incendiare le scuole di tutta Italia, si era insinuato il dubbio che l’Onda fosse, a parte marginali ritocchi di im­magine, la riproposizione delle stesse dinamiche (stagionali, preferibilmen­te autunnali) coniate nel ’68 e dintorni e poi rical­cate con forme di lotta, coreografie, slogan e tic linguistici come se nel frattempo non fossero tra­scorsi oramai tanti lustri. Vale la pena di mobilitar­si con obiettivi vaghi e confusi, sapendo che tan­to alla fine, passata l’eb­brezza del movimento, il colore delle manifestazio­ni, il calore della comuni­tà, tutto resterà esatta­mente come prima?
Perché, poi, ragioni per protestare ce ne sareb­bero.
Ci sarebbe il furto del futuro che avvilisce le nuove generazioni. Ci sa­rebbe la frustrazione di una scuola che non regge gli standard qualitativi de­gli altri paesi europei. Ci sarebbe una generale mancanza di senso e di si­gnificato che mortifica la scuola e chi ci lavora, a co­minciare dagli insegnan­ti, e chi si sta formando in condizioni quasi sem­pre drammaticamente sfavorevoli. Ma è il rito che appare esausto. È l’usura degli slogan che frena ogni passione. Su­bentra il disincanto, che è cosa diversa (e peggio­re) della pace. La rasse­gnazione. La rinuncia. La successione di cortei e «okkupazioni» appare quasi una vacanza ma­scherata, un modo per sentirsi presenti e parteci­pi. Ma la mancanza di obiettivi credibili genera frustrazione, scontento, apatia.
La cosa peggiore sareb­be che la politica e gli in­segnanti si abbandonasse­ro a un rancore contro un movimento oramai debo­le e sfibrato, a un appello all’ordine destinato a spe­gnere ogni residuo barlu­me di «movimento». È proprio quando molti stu­denti si accorgono del vi­colo cieco in cui sono fini­ti a causa degli stanchi ri­ti degli anni passati che ci sarebbe bisogno di una politica saggia, che non alimenti il senso di scon­fitta e non appaia ritorsi­va verso chi comunque esprime un disagio da non sottovalutare. Le on­de studentesche rifluisco­no, le vecchie liturgie si appannano. Ma resta da ricostruire un senso della scuola in cui gli studenti possano sentirsi parte de­cisiva e centrale. Non sarà facile, ma non avrà il sa­pore di antico di mobilita­zioni oramai trite. Che ca­dono ogni autunno, co­me le foglie.
«Corriere della sera» del 20 novembre 2009

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