19 novembre 2009

Il nostro dovere davanti al paziente

di Ignazio Marino
Eluana è entrata nei pensieri di tutti noi, si è insinuata nelle nostre coscienze, ha scosso le nostre anime e ci ha posto di fronte a interrogativi che non hanno risposte definitive. Ricoprendo in questo momento un doppio ruolo, di uomo politico e di medico, non nascondo che è proprio la mia professione di chirurgo che mi porta a riflettere maggiormente. È compito del medico assistere una persona che chiede aiuto, qualunque sia il suo problema di salute. Il medico non può abbandonare un paziente, nemmeno nel caso in cui non vi sia più la possibilità di guarigione. Il dovere dell' assistenza vale sempre, nella gioia, impagabile, della guarigione e nel dramma delle situazioni che non hanno speranza. È scritto nel cuore di ogni buon medico ed è esattamente con questo spirito che, un giorno dopo l'altro, la maggior parte degli uomini e delle donne che hanno scelto questo particolare mestiere affrontano le loro giornate, in ospedale o in qualunque altra struttura sanitaria dove mettono le proprie conoscenze e capacità al servizio di chi soffre. Non è un lavoro facile, ma ogni medico sa che è questo il suo dovere e che non si può scegliere di curare solo chi guarirà, non si possono fare distinzioni, non è lecito tirarsi indietro quando le cose si complicano. A volte si ha la consapevolezza di correre dei rischi, e i medici hanno paura come tutti, perché sono esseri umani, e non eroi o martiri. Negli anni '80 quando l' Aids dilagava e sembrava non esistesse terapia, molti medici erano a disagio, avevano paura di infettarsi, di ammalarsi anche loro, eppure con mille difficoltà, e qualche defezione, i pazienti non furono abbandonati. Oggi in medicina le conoscenze tecniche e tecnologiche rappresentano una componente importante del lavoro: l'aggiornamento non finisce mai e con esso l'apprendimento di terapie sempre nuove. Ma quando si passa dallo studio degli esami e delle carte al rapporto con la persona ammalata, entrano in campo i sentimenti, le emozioni, il rapporto di empatia con un altro essere umano che vive un momento di paura e di difficoltà. Non può essere un caso che in tutti i paesi del mondo via sia un' abbondanza di medici che scelgono di specializzarsi in pediatria, per occuparsi della vita che cresce, mentre sono pochi coloro che scelgono di lavorare in una rianimazione, dove spesso la vita sfugge. Per certe specialità bisogna essere attrezzati anche psicologicamente. Servono nervi saldi, tenere a bada i sentimenti di onnipotenza e avere sempre in mente che si è al servizio di qualcuno.
Ricordo un episodio che segnò la mia vita professionale e che avvenne tanti anni fa negli Stati Uniti. Un paziente arrivò in ospedale per essere sottoposto ad un trapianto di fegato, prima di entrare in sala operatoria mi fece avere il testamento biologico che aveva preparato tempo prima e mi disse come voleva essere assistito nel caso in cui le cose non fossero andate nel verso giusto. In particolare, sottolineò che non voleva essere sottoposto alla dialisi e alla nutrizione artificiale se fosse rimasto in coma e mi fece promettere che lo avrei assistito solo con le terapie per il dolore. Entrai in sala operatoria lasciando fuori questi pensieri, il trapianto doveva servire a salvare quel paziente e tutto sarebbe andato bene. L'intervento infatti andò bene, ma purtroppo il paziente non si risvegliò subito, come talvolta può accadere in questa chirurgia. Avevo una ragionevole speranza che nonostante tutto ce l'avrebbe fatta, avevo l'esperienza per immaginare che con il tempo sarebbe migliorato. Ma mi ricordai delle sue volontà, avevo stretto un patto con quell'uomo e lo aveva stretto anche il suo unico fratello, che si sentiva altrettanto vincolato. In balia di sentimenti contrastanti e difficili da dominare chiesi aiuto al comitato etico dell' ospedale che non ebbe dubbi: la volontà del malato andava rispettata e io non potevo farci nulla, non potevo cambiare quelle volontà, il mio dovere era di accompagnare il paziente nella direzione da lui indicata. Ci vollero alcuni giorni perché io mi arrendessi, tentai di posticipare quella decisione che non volevo prendere, sperai che il paziente si risvegliasse come io desideravo. Ma non accadde nulla e, alla fine, dovetti arrendermi e lo accompagnai nel miglior modo possibile negli ultimi giorni.
Chi si assume l'arduo compito di assistere malati che, come Eluana, non hanno più una ragionevole speranza di recupero e non possono esprimere direttamente le proprie volontà, di fronte a interrogativi e dubbi quotidiani, immagino facciano prevalere il senso della missione: studiare, informarsi, valutare ogni possibile soluzione, consigliare e poi ascoltare, dialogare, capire e non imporre mai nulla. È proprio questo il difficilissimo esercizio di equilibrio che il medico è chiamato a fare: agire secondo scienza e secondo la propria coscienza ma senza mai trascurare le convinzioni di chi gli sta di fronte e la sua visione della vita, che non sempre corrisponde alla nostra. Nella maggior parte dei casi, fortunatamente, si crea tra i medici ed i pazienti o con i loro familiari, una comunione di intenti, ci si capisce, si converge insieme sulla soluzione migliore per il bene dell'ammalato. Se non fosse così, se non si stabilisse un sincero sentimento di rispetto e di alleanza reciproca, una forma che non esito a definire di amore verso un essere umano indifeso e da difendere, non vi sarebbe più la medicina, resterebbe solo la tecnica.

L'autore è parlamentare del Pd e presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale
«La Repubblica» del 5 febbraio 2009

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