27 novembre 2009

Genitori «elicottero» per figli iperprotetti

Gli adolescenti delle società occidentali vivono troppo nella bambagia e non sono più in grado di affrontare le difficoltà dell’esistenza: il j’accuse dello psicologo canadese Michael Ungar. «Incontro frotte di ragazzi, insicuri, incapaci di gestirsi. E totalmente ego-riferiti»
di Stefano Gulmanelli
Al riparo da ogni vera difficoltà della vita, al punto di non sa­perla affrontare quand’è il momento. È così che alleva le sue ge­nerazioni di giovani il mondo occi­dentale, con l’illusione di fare il loro bene. A lanciare l’allarme é lo psico­logo canadese Michael Ungar, auto­re di un saggio, tradotto in varie lin­gue, che sta destando parecchio in­teresse fra educatori e genitori, Too safe for their own good ( « Troppo pro­tetti per il loro bene » , McClelland & Stewart).
L’imputato principe del libro- studio sui giovani iperprotetti è il cosiddet­to ' genitore elicottero', che tutto de­ve controllare nella vita dei figli, in modo da poter far loro da scudo con­tro le esperienze dolorose, arrivando a combattere le battaglie della vita al posto loro: « Ai nostri bambini fornia­mo costantemente copertine emoti­ve ed elmetti psicologici che li po­tranno anche riparare da qualche smacco ma che tolgono loro l’oppor­tunità d’imparare ad affrontare le sfi­de e le situazioni di disagio » . Di fatto, limitando la loro crescita. Perché, ri­corda Ungar, non c’è crescita senza sofferenza; una verità che lo psicolo­go e terapeuta canadese riscontra puntualmente nella sua attività di di­rettore del Resilience Research Cen­tre (www.resilienceproject.org), un network con punti di osservazione in Asia, Medio Oriente, Sudamerica, che studia come le comunità reagiscono alle avversità. « È in posti come la Pa­lestina, il Sudafrica, il Tibet, la Co­lombia, che ho visto come ragazzini in condizioni svantaggiate riescono a superare ostacoli enormi; e ho capi­to che quello che oggi manca ai ' no­stri' ragazzi è proprio la resilienza, la capacità e la determinazione a supe­rare le difficoltà, piccole o grandi che siano » . Il divario gli appare evidente ogni volta che Ungar torna da una del­le sue trasferte e rientra nella sua tran­quilla cittadina di Halifax, in Canada, dove la gente gode di benessere e al­ta qualità di vita: «Nelle nostre società dove tutto è facile e a portata di ma­no stiamo creando individui che da adulti si troveranno svantaggiati, so­prattutto quando si troveranno a competere con chi, a causa di un background ben diverso dal loro, è cresciuto sviluppando enormi capa­cità di adattamento e di resistenza al­le condizioni avverse » . La presa d’at­to di Ungar passa per i suoi stessi fi­gli: « Mi rendo conto che i miei due ra­gazzi ( una figlia di 13 anni e un ra­gazzo di 16) sono cresciuti senza mai incontrare una vera difficoltà. E quan­do vado ' sul campo' vedo che chi ha dovuto affrontare percorsi più im­pervi ha sviluppato tutta una serie di abilità che ai miei ragazzi mancano » . Una situazione che nasce anche dal fatto che ormai abbiamo rovesciato le priorità circa quello che va garan­tito ai ragazzi: « In Paesi molto meno ricchi dei nostri ai bambini e ai ra­gazzi viene dato molto di ciò di cui ' hanno bisogno' ( affetto, esempi di compassione, di cura, di responsabi­lità nei confronti degli altri) e poco di ciò che ' vogliono'. Nelle nostre so­cietà purtroppo noi facciamo esatta­mente il contrario » . Come correre allora ai ripari per i fi­gli dell’Occidente ricco e viziato? Per quei bambini che comunque hanno l’enorme fortuna di non doversi pro­cacciare ogni giorno il cibo, di non vi­vere in zone di guerra o in favelas con­trollate dal crimine si può se non al­tro cominciare da cose piccole ma simbolicamente rilevanti: « Per esem­pio, esigere che si facciano il letto, ap­parecchino la tavola, facciano le la­vatrici - e perché no, cucinino: alme­no una volta la settimana dovrebbe­ro essere in grado di preparare un pa­sto per l’intera famiglia, già all’età di 9- 10 anni » .
Tutte cose per le quali può essere u­tile dar vita ad un vero e proprio pro­cesso di negoziazione: « Quando arri­vano in vista dei 10/ 11 anni, i ragaz­zi tendono a sfilarsi dalle incomben­ze e non hanno più voglia di aiutare ( prima lo fanno per sentirsi gran­di) » dice Ungar.
L’espediente - con valenza educativa ­è quello di propor­re un vero e pro­prio baratto: io fac­cio questo per te se tu fai quello per me. « Così iniziano a pensare in termi­ni di reciprocità e fuori dal contesto del loro piccolo mondo di bambini » , dice Ungar, « e, contemporaneamen­te, fissiamo dei limiti alle pretese e delle regole cui conformarsi » .
Chiedere a chi sta affacciandosi alla vita sociale un contributo alla comu­nità di appartenenza è decisivo, sot­tolinea Ungar, perché lo obbliga ad assumersi una responsabilità di cui deve render conto. Il che - agli occhi dello stesso giovane - giustifica la sua stessa appartenenza alla collettività: « I ragazzi che si comportano in mo­do pericoloso ( guidando a pazza ve­locità, ubriacandosi, stordendosi con le droghe) e agiscono con scellera­tezza ( bullismo, delinquenza), sono in realtà alla ricerca disperata di re­sponsabilità » , spiega Ungar, che già che c’è vuole eliminare un malinteso assai diffuso: « Non è vero che i bulli hanno un basso senso di autostima. Al contrario, hanno grande conside­razione di sé, ma completamente mal indirizzata » . A questi, ma anche a quanti si comportano in modo rude e maleducato «bisogna far pesare l’in­giustizia delle loro azioni » , dice Un­gar, attaccando un altro mito moder­no: la condiscen­denza a qualsiasi costo per evitare ' traumi'. « Mo­striamoci irritati, feriti, prendiamo le distanze. Certo, creeremo disagio, ma li aiuteremo a crescere » . L’evi­denza invece è quella di frotte di ra­gazzi che arrivano in età post- adole­scenziale «assolutamente 'disfunzio­nali', insicuri, incapaci di gestirsi. E totalmente ego-riferiti». D’altronde si raccoglie quello che seminiamo, con­clude Ungar: « In Nord America, le di­mensioni medie di una casa sono pas­sate da 120 a 200 metri quadrati. O­gni bambino ha la sua tv, il proprio gameboy, il proprio computer. Quand’è che questi bambini impara­no a condividere il telecomando? Quand’è che verrà loro di pensare in termini di ' noi' invece che di ' me'? »,
«Avvenire» del 26 novembre 2009

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