03 ottobre 2009

Sospetto è chi non querela, il Cav. l’ha fatto. Di che vi lamentate?

di Umberto Silva
Franco Cordero, autore di sapientissimi libri sulla calunnia e la persecuzione; Stefano Rodotà, stimato professore e apprezzato garante della privacy; Gustavo Zagrebelsky, acuto filosofo e presidente della Corte costituzionale, vero che non è facile rispondere a certe domande? Eppure non vi avevo accusati di pedofilia o di spionaggio, semplicemente vi avevo chiesto di fornirmi alcune delucidazioni sul fatto che patrocinate, chiamandole “domande”, quelle che a me e ad altri sembrano polpette avvelenate. Forse un giorno chiameremo le pallottole “lettere di convocazione per il tribunale divino”.
Siete stati prudenti ad astenervi. Non mi conoscete e diffidate dal parlare con uno sconosciuto; non si sa mai, potrebbe adescarvi con inquietanti quesiti del tipo: un uomo aggredito da un’insinuazione infamante che lo scolpisce in un’immagine insopportabile ai propri occhi e a quelli dei propri cari, per difendersi cosa deve fare se non rivolgersi alle istituzioni a ciò preposte? Deve farsi giustizia da solo, forando gomme e sparando per strada? Non basterebbe; la riparazione di un’immagine sfregiata richiede un’autorevole parola di verità: la sentenza del tribunale. Neppure quella basta. Di questi tempi, illustri giuristi, tutto pare un’interminabile allucinazione, e vogliate perdonarmi fin d’ora dei miei errori e lapsus: sto muovendomi al lume di una fioca candela e tanta è la tenebra. La qualità del male sta migliorando, difficile individuarlo e combatterlo; il diritto è cancellato, imperversa un nuovo gioco di società, le jeu de massacre: si può dire tutto di tutti senza preoccuparsi di fornire prove. Né le prove servono in un’epoca in cui la stessa evidenza è travolta dal pregiudizio.
Scusate se approfitto della vostra disponibilità, ho tante altre cose da chiedervi. Ecco subito una seconda domanda. Un individuo che, offeso gravemente, non querela, è sospetto? Per me sì. Sarò all’antica, ma io penso che nel caso d’insinuazioni velenose al punto d’insozzare irreparabilmente il proprio progetto di esistenza e sconvolgere i figli, querelare non solo sia un diritto ma anche un dovere irrinunciabile. Finché faceva lo gnorri, condannavo Berlusconi; anche se tutti sappiamo quanto il Cavaliere sia trascurato nelle sue vendette. Tempo fa un giovanotto gli tirò in testa un cavalletto e la stampa accolse con entusiasmo tante dichiarazioni favorevoli all’aggressore, che non passò un giorno in carcere. Il premier gli perdonò un crimine che in altri paesi prevede la fucilazione, il taglio delle mani e dei piedi e, nel nostro mite ordinamento giuridico, la condanna fino a sette anni. Virtuali, naturalmente, come tutto ciò che in Italia concerne la giustizia.
Mal gliene incolse al Cavaliere buonista: il famigerato cavalletto non gli ruppe la testa ma sgretolò l’ultima diga; se uno si prende senza batter ciglio un chilo di acciaio in faccia, quanti pesci poi e quanta merda? Ora che Berlusconi ha querelato o qualcosa di simile, saluto come un capovolgimento epocale il fatto che, dopo esser stato l’imputato di tanti processi, egli si esponga nella parte ben più arrischiata di accusatore. Esce dalla tana, con effetti incalcolabili. Se le dieci domande che sponsorizzate, illustri giuristi, hanno avuto un merito, è proprio questo. Ridicolo ora lamentarsi e sfilare per ricacciare il Cav. dentro il bunker. Il tribunale dirà chi tra i contendenti è il più degno. Non sarà il giudizio di Dio, ma è il migliore che al momento noi umani siamo riusciti a metter su. Il giudizio divino avviene comunque nel cuore di ciascuno: viltà e truffa condannano alla malinconia, al disprezzo di sé.
Terza domanda. Pensate voi, illustri giuristi, che Berlusconi sia una creatura umana, un figlio di Dio come tutti noi? Se anche fosse l’evoluzione di un raptosauro o, peggio ancora, l’estrema involuzione di Dio, il giorno che riuscissimo a scalzarlo con i suoi metodi, saremmo solo dei suoi alter ego, caricature ancora più spregevoli. Quando illeciti, i mezzi giustiziano il fine. Chi vince con carte truccate in realtà perde, la sua anima innanzitutto. Colui che perde senza commettere scorrettezze vince, in ogni caso, anche il più tragico: se il chicco di grano muore produce molto frutto. E’ il loglio che ha fretta.
Davvero pensate che libertà significhi la possibilità di scrivere quel che si vuole, nel possibilismo che Dostoevskij chiama la morte di Dio? Libertà: obbedire a quel desiderio che, scintilla divina, è di vita, ben lontano dalle voglie, sempre sanguinarie. Il giornalista è il testimone e il narratore della quotidianità, il lettore primo degli enigmi che incessantemente politica e società presentano. Un lavoro difficile, al limite dell’impossibile, un rischio che non lascia scampo: o la gloria o la meschinità. Non ci sono zone grigie, quel che è grigio mai è onesto. Libertà, certo, diritti, ma soprattutto il diritto, vale a dire il dovere di non imbrogliare le già imbrogliatissime carte. C’è libertà solo nella legge, fuori di essa anarchia, ribellismo, compulsione omicida.
Ovviamente, ma nulla più è ovvio, c’è differenza tra lo sberleffo del comico e il ghigno dello stupratore. Vignettisti, cabarettisti… La forzatura, l’esagerazione fino alla falsità, sono la cifra stessa del loro codice, tutti lo sanno o, almeno, lo avvertono. Tranne il tiranno o l’aspirante tale. Il tiranno non sopporta che si possa ridere di lui, solo lui può ridere di tutti. Teme la satira più del colpo di pistola. Se Berlusconi, o D’Alema, censurassero Fazio e Littizzetto, mi arrabbierei davvero; con tenera ferocia parlano dell’intimità sessuale del Cavaliere e dei cardinali, per farci ridere e non per incitarci a tagliar loro i coglioni. Purtroppo, illustri giuristi, non c’è niente di umoristico o appassionante in quei dieci comandamenti che sbandierate al vento africano di questi mesi paludosi, sono contorti come un nido di vipere. Non sarebbe meglio un bel “j’accuse”, diretto e violento, piuttosto che un perverso raggirarsi tra i genitali del Padre? Se un pm recitasse quella roba in un tribunale americano il giudice gli darebbe una martellata sul cranio.
Quarta domanda. Perché chiamate a raccolta chierici e neofiti? E’ invito al tradimento, ad abdicare al proprio pensiero per adagiarsi sull’altrui, inseguendo quel tornaconto identitario che altro non è che il red carpet per l’inferno. Si crede di approdare in un porto sicuro, una patria ove riconoscersi fratelli in una bella causa, ma a un certo punto ci si accorge che nemmeno più ci si può guardare negli occhi. Continuiamo a farci male con garruli girotondi! Non vi assale inoltre, illustri giuristi, il sospetto che mettersi a frignare perché il Cattivone non si lascia insultare a piacimento, inviperiti additandolo al mondo, sia il colmo del ridicolo? Volete impietosirlo? Il Cavaliere è esterrefatto; immagino stia pensando a come darvi un contentino. Gli appelli firmati sono trappole peggiori degli abiti firmati, di cui tanto hanno bisogno coloro che si sentono orfani. Ci si pavoneggia, si ostenta la griffe, ma… Dio, dov’è Dio? Un miliardo di firme non sostituisce il Padre!
La carne è debole, rapido come il morso di una serpe il sangue si scalda. Ma con luminose immagini questa domenica, citando il profeta Isaia, Benedetto XVI ha ricordato che quando il Signore è presente si riaprono gli occhi del cieco, si schiudono le orecchie del sordo, lo zoppo salta come un cervo. Vi ringrazio illustri giuristi, siete stati squisiti interlocutori; avete propiziato la mia elaborazione, oso sperare anch’io la vostra.
«Il Foglio» dell'8 settembre 2009

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