25 ottobre 2009

Scrittori, siate inventori non arredatori

di Alessandro Zaccuri
Ci sono almeno due modi per essere autori del Don Chisciotte: uno è scrivere il romanzo, come fece Cervantes, l’altro è trascriverlo, secondo il metodo attribuito da Borges all’ineffabile Pierre Menard. Il quale, copiando parola per parola le avventure dell’Ingegnoso Hidalgo, sarebbe riuscito a comprenderne il mistero meglio di Cervantes stesso. Ma c’è anche una terza via, quella che Ferruccio Parazzoli raccomanda nel suo Inventare il mondo, un non­manuale di scrittura ( «Teoria e pratica del racconto» , suggerisce il sottotitolo) costruito con il ritmo e l’imprevedibilità di un apologo zen. Volete diventare narratori?, sembra chiedere Parazzoli. Bene, allora dovete mirare in alto partendo dal basso.
Pensate che La mite di Dostoevskij sia un capolavoro? E allora ricopiatelo a mano, prestando attenzione alle ripetizioni, alle sospensioni, ai dettagli apparentemente superflui. Iniziate a trascrivere, perché solo così imparerete a scrivere.
Parazzoli dà il buon esempio, dimostrandosi una volta di più narratore appassionato ed esperto. Affronta la sua analisi citando brani abbastanza estesi del testo di Dostoevskij e dopo colleziona campionature minime, riferimenti scorciati, allusioni. Eppure, se anche non si conoscesse la trama, si riuscirebbe a decifrare ugualmente la traiettoria narrativa della Mite. È un esempio, uno dei molti che affiorano da questo libro sorprendente, che non teme di dissuadere in modo anche ruvido l’aspirante autore di best seller.
Inutile sperare di ottenere il successo ispirandosi alla lista dei romanzi più venduti, mette sull’avviso Parazzoli, forte anche della sua lunga militanza nell’industria culturale. Gli editori non cercano affatto copie conformi, ma novità e la novità non si può programmare. Meglio riconoscere nell’intreccio un orizzonte e non una gabbia e, meglio ancora, prepararsi all’inevitabilità del fallimento, che costituisce il vero banco di prova per la grandezza di uno scrittore.
Si tratta appunto di 'inventare' un mondo, non di 'arredarlo', come fa invece molta della narrativa contemporanea, nei confronti della quale Parazzoli sfodera un’ironia fredda e tuttavia illuminante. Lo scrittore, infatti, è in primo luogo un lettore liberato, uno che non si vergogna ad ammettere che Walden di Thoreau sarà pure un libro noioso, ma rimane decisivo per capire che cos’è l’autobiografia, né a sostenere che ai romanzi di Burroughs, tutto sommato, si possono preferire le riflessioni di Burroughs stesso sul romanzo … L’importante, sostiene a più riprese Parazzoli, è che il narratore non proceda per schemi, quanto piuttosto per linee di forza. Il tempo e lo spazio, anzitutto, e poi le 'botole' che possono aprirsi verso l’alto e verso il basso, trascinando nell’abisso o trasportando sulla vetta. Tutto è lecito, purché la narrazione non si accontenti di una prospettiva orizzontale e accetti invece il rischio dell’azzardo e, di nuovo, l’eventualità del fallimento. Come nel caso di Moby Dick, che ai tempi della sua pubblicazione fu un clamoroso insuccesso e oggi ci appare invece con tutta la potenza dell’archetipo.
Il romanziere autentico, spiega Parazzoli, avanza a tentoni, non di rado si contraddice come il Pasolini di Petrolio e spesso si corregge come il Céline di Casse-pipe. Di sicuro sa soltanto che la sua arte è uno strumento imperfetto, penultimo rispetto all’inesplicabile manifestarsi della grazia. Nei romanzi c’è la vita, con l’intera sua ferocia. La salvezza sta altrove.
Forse non lontano, ma altrove.

Ferruccio Parazzoli, Inventare il mondo, Garzanti; pp. 140, € 14,00
«Avvenire» del 24 ottobre 2009

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