25 ottobre 2009

Per l’uomo «bionico» serve una nuova antropologia

Le opinioni di Aldo Schiavone e di Camillo Ruini a confronto

Anche il XXI secolo avrà la sua «somiglianza» con Dio
di Aldo Schiavone

Il punto d’arrivo cui ci conduce la nostra esplorazione riguarda una questione cruciale. Quella del rapporto fra l’accrescimento della potenza dell’umano – non solo tecnologica e materialmente trasformatrice, ma complessivamente culturale e mentale – e il superamento del limite della sua finitezza (l’immagine dei due alberi al centro dell’Eden, e la rassomiglianza fra Dio e l’uomo nel linguaggio della 'Genesi'). L’annuncio dello sfondamento di questa soglia riempie il nostro tempo, e ne determina il significato. D’ora in poi non potremo concepire il finito, in riferimento all’umano, se non come un vincolo sempre provvisorio, che non può essere fissato da alcuna misura 'naturale' in grado di contenerlo e di racchiuderlo per sempre dentro di sé: una frontiera mobile, e mai una definitiva invalicabilità. In altri termini, quel che viene in questione è l’installarsi dell’infinito entro la storicità e la limitatezza del finito: un grande tema hegeliano e, sebbene entro coordinate assai diverse, un aspetto decisivo dell’antropologia filosofica tedesca fra Marx e Nietzsche, che aveva già di fronte (ancor più di Hegel) la nuova realtà della Rivoluzione industriale e della prima organizzazione capitalistica del mondo.
Come sappiamo bene, non è stato facile per la nostra specie arrivare ad aprire questa strada: generare la forza creatrice dell’infinito come illimitata possibilità trasformatrice di noi stessi e del mondo entro la forma del nostro agire nella storia, come provvisori abitatori del tempo. Anche la storia degli uomini – come quella evolutiva della vita – ha dovuto procedere per tentativi, selezionando in modo diseguale e discontinuo attitudini e caratteri, combinando caso e necessità, alternando pause e accelerazioni, spesso scegliendo vie in apparenza inutilmente tortuose, e comunque includendo sempre la possibilità del fallimento, della regressione e della catastrofe. Aver determinato le condizioni materiali e intellettuali di questo salto, aver fatto emergere per la prima volta sul piano della storia l’infinita produttività del lavoro umano come creatore di trasformazione attraverso la tecnica, e dunque le sconfinate possibilità della specie, che mai più cercherà di rimanere 'qualcosa di divenuto', ma si identificherà sempre di più con il 'movimento assoluto del divenire', ha reso febbrile e consumato la modernità, e forse spiega molte delle sue tragedie. E dà forse una spiegazione del vertiginoso dilatarsi dei bisogni, dei desideri e delle soggettività – che hanno preso la forma provvisoria e rischiosa di uno sfrenato individualismo consumistico e acquisitivo – che se per un verso sta rappresentando un inaudito aumento delle nostre potenzialità di vita e di emancipazione, sta però anche schiacciando il pianeta e le sue risorse sotto un carico incontrollato di domande e di aspettative. Sono convinto che questa nuova condizione dell’umano, che sta vedendo cadere ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi – un umano proiettato sull’infinito – implichi, non possa che implicare, il formarsi di una nuova idea di Dio, e di conseguenza, lo stabilirsi di un nuovo rapporto con Lui.
Non ritengo che nessun credente debba considerare 'scandalosa' questa affermazione. Da sempre, ogni immagine umana di Dio è il risultato di un’elaborazione storica, è – per così dire – un riflesso di Dio nel tempo e nelle intelligenza degli uomini – e quindi muta, con il mutare delle condizioni storiche. Il Dio del Vecchio Testamento non è il Dio dei Vangeli, e la percezione di Dio come affiora nella Divina Commedia non è quella di un teologo del ventesimo secolo. La transizione rivoluzionaria che stiamo vivendo comporta la nascita di una nuova antropologia, e questa induce a sua volta una diversa costruzione del divino. Detto in maniera estremamente sintetica, come qui sono costretto a fare, credo che noi dobbiamo passare da un’esperienza di Dio in cui l’infinità era tutta dalla Sua parte, e l’umano di fronte a Lui non era che limitatezza e finitudine, a un’esperienza ben più straordinaria e matura, in cui l’umano e il divino 'coesistano' per così dire, nell’infinità, per quanto su diversi piani e con diversa pienezza e responsabilità. In questo senso, la 'rassomiglianza' fra l’uomo e Dio affermata all’inizio del racconto biblico indicherebbe un cammino, una potenzialità, e non un dato di fatto già acquisito: riguarderebbe il compimento del nostro futuro (che è – non dimentichiamolo – il presente di Dio, cui è concesso di conoscere il tempo come un blocco di ghiaccio, e non un fiume che scorre).
Somigliare a Dio sarebbe perciò non la nostra condizione di partenza, ma una possibile stazione d’arrivo, che sta a noi saper conquistare. Sarebbe la nostra prospettiva escatologica: non essere, ma 'poter diventare' simili a Dio, dopo che Dio stesso ha voluto farsi uomo. E non per aprire una competizione (l’ipotesi oscura che attraversa il racconto della 'Genesi'), ma per realizzare un ricongiungimento, finalmente fuori della storia (nella lingua delle Scritture vuol dir questo, attingere all’immortalità), all’interno di una legge universale d’amore e d’alleanza come etica assoluta del divino.


Ma l’umano non si riduce al binomio storia-natura
di Camillo Ruini
L’elemento più nuovo e specifico che ha dato origine all’attuale questione antropologica è costituito dai recenti sviluppi scientifici e tecnologici che hanno dato all’uomo un nuovo potere di intervento su se stesso.
Parafrasando la celebre XI tesi di Marx su Feuerbach, si può dire che non si tratta più soltanto di interpretare l’uomo, ma soprattutto di trasformarlo. Questa trasformazione però non avviene, come pensava Marx, modificando i rapporti sociali ed economici, bensì incidendo direttamente sulla realtà fisica e biologica del nostro essere, attraverso le tecnologie che stanno progressivamente appropriandosi dell’insieme del nostro corpo e in particolare dei processi della generazione umana, ma anche del funzionamento del nostro cervello: assai indicative sono, in questo ambito, le direzioni delle ricerche sui rapporti mente-cervello, sulle questioni della coscienza e dell’autocoscienza, come anche sul linguaggio umano, messo a confronto con i linguaggi attribuiti ad altri animali. È chiaro a tutti che in questi campi siamo solo all’inizio di sviluppi dei quali è assai difficile prevedere il limite. Sebbene agiscano su di un piano di per sé diverso, le straordinarie prestazioni delle cosiddette 'intelligenze artificiali' spingono a loro volta in una direzione convergente: quella cioè di fornire un nuovo e più efficace supporto e quasi una definitiva conferma, apparentemente 'scientifica', a filosofie della mente che, riprendendo in realtà ipotesi ormai antiche, ritengono di poter ricondurre integralmente la nostra intelligenza e la nostra libertà al funzionamento dell’organo cerebrale, come tale a sua volta uguagliabile, o anche superabile, attraverso i progressi delle intelligenze artificiali. Esiste però un altro aspetto, o tendenza, che sta emergendo in questi ultimi anni. Se guardiamo infatti non al passato ma al presente e al futuro, l’accento si sposta di nuovo su ciò che appartiene all’uomo in esclusiva, nel senso che le capacità scientifico-tecnologiche da lui acquisite sono giunte ormai ad una fase del loro sviluppo che parrebbe consentire un potenziamento radicale della nostra specie, il suo miglioramento e anche il suo superamento, in un processo evolutivo il cui propulsore non risiederebbe più nella natura ma nell’intelligenza umana, più precisamente nell’intelligenza scientifico-tecnologica, e i cui ritmi di sviluppo sarebbero per conseguenza non quelli lentissimi della natura ma quelli rapidissimi della tecnologia. Così proprio quell’intelligenza che viene considerata frutto dell’evoluzione cosmica e poi biologica si sostituirebbe in certo modo alla natura stessa, affermando un suo totale primato e dominio sull’evoluzione futura, il cui esito positivo e non distruttivo resta affidato, in ultima analisi, soltanto a un uso corretto e ragionevole della nostra libertà.
Aldo Schiavone, nel piccolo libro Storia e destino, pubblicato nel 2007 da Einaudi, ci ha offerto un quadro sintetico, ma molto informato e assai ben organizzato, di queste prospettive. In questo modo il soggetto umano riacquista, in forma nuova e profondamente diversa, un’assai concreta centralità, almeno in quella parte dell’universo che oggi possiamo osservare in maniera sufficientemente particolareggiata e in cui non si incontrano altri viventi dotati di intelligenza. Anche a prescindere dalle unilateralità già evidenziate di una spiegazione integralmente evolutiva del soggetto umano, a questo punto nascono però due ulteriori domande. La prima riguarda le capacità della razionalità scientifica e tecnologica di assumere la guida dei processi di trasformazione dell’uomo e di assicurarne esiti positivi e benefici, dimenticando che questa razionalità prescinde, per il suo stesso impianto metodologico, dai problemi del significato e dei fini della nostra esistenza.
Inoltre, e più concretamente, questa razionalità si incarna nell’insieme degli uomini e delle donne che fanno ricerca e interagisce sempre più intensamente con tutti gli enormi interessi economici, politici, e anche ideologici, che sono collegati con i grandi e rapidissimi sviluppi scientifico­tecnologici. Per assumere la guida di tali processi appare dunque necessaria 'un’etica forte', come lo stesso Schiavone afferma nettamente, riconoscendo anche indispensabile per essa 'il contributo cattolico'. È assai difficile però costruire una tale etica sulla premessa della totale riconduzione dell’uomo al macro-processo evolutivo.
Giungiamo così alla seconda domanda che, in dialogo con Schiavone, possiamo formulare così: si può davvero affermare che l’uomo, in fondo, sia soltanto storia? Alla base di questa tesi di Schiavone sta chiaramente la concezione evolutiva dell’universo, per la quale l’universo stesso non è un insieme di essenze o nature stabili, ma piuttosto un’unica macro-storia, prendendo evidentemente la parola 'storia' in un senso amplificato, che in ultima analisi significa soltanto realtà in continuo mutamento e non comprende le dimensioni di cultura e di libertà proprie della storia umana. Per di più, d’ora in poi la storia dell’universo assume in qualche modo, nella prospettiva di Schiavone, un significato più vicino a quello tradizionale della storia stessa, dato che l’uomo se ne fa protagonista in virtù delle nuove risorse messe nelle sue mani dalle scienze e dalle tecnologie. E’ proprio questa idea, però, che l’uomo sia soltanto storia, a rivelarsi, alla fine, non meno problematica e riduttiva dell’idea che l’uomo sia soltanto natura. Schiavone ha replicato che ricondurre integralmente l’uomo alla storia non significa ridurlo a pura materia, dato che la fisica stessa ci dice che la materia, modernamente intesa, «è solo una forma – e non certo l’unica – dell’essere» ( La Repubblica , 17 luglio 2008). Ma questa osservazione non è pertinente: la fisica contemporanea ci insegna certamente che la realtà dell’universo fisico assume molteplici configurazioni e denominazioni, che sembrano però riconducibili al binomio materia (in senso ampio)­ energia, e soprattutto che sono tutte 'interne' e consustanziali all’universo stesso. Realmente distinta da tutta questa realtà, e ad essa irriducibile, è anzitutto, per il credente, la realtà di Dio. Proprio dell’uomo è far parte dell’universo fisico e al contempo trascenderlo, partecipando alla realtà trascendente di Dio: questa è la ragione sostanziale ed ultima per la quale l’uomo non è totalmente riconducibile né alla natura né alla storia.
«Avvenire» del 25 ottobre 2009

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