02 ottobre 2009

Ma la cultura in tv è sfida oltre lo «spazio»

Il compito del servizio pubblico
di Davide Rondoni
La si invoca spesso. La si reclama. La si auspica. Insomma, la si tira in ballo ogni volta che c’è da lamentarsi. Ogni volta che si parla di lei, dell’aggeggio più adulato e vituperato della nostra epoca: la televisione. E ogni volta che si accende il dibattito su di lei, come capita in questi giorni, si evoca la 'cultura' in televisione.
Ah, dicono sospirando in tanti, se almeno il servizio pubblico televisivo facesse più cultura…Il fatto è che poi non si capisce bene cosa si intenda per 'cultura in televisione'. Ecco che qui vorrei provare modestamente a proporre, e non a lamentarmi. Primo: forse proprio nell’inseguire il sogno della 'cultura in televisione' si tocca con mano il fatto che forse non è vero che in televisione si può fare tutto. Occorre rassegnarsi a un uso limitato della televisione, più rispettoso di lei, e anche di noi stessi. Di sicuro la televisione non è fatta per proporre, se non in piccole dosi, programmi di divulgazione di alto livello.
Programmi dove si parla che so di libri o di arte 'direttamente'. Per quanto coinvolgenti possono essere i conduttori e la regìa, resta il fatto che la mediazione di una persona viva, in carne e ossa, è un fattore fondamentale per la trasmissione della cultura. Nulla – nemmeno la più sofisticata trasmissione – può sostituire l’effetto e il valore di una bella lezione o di una conversazione in vivo. La cultura si trasmette da persona a persona. Pure con il corpo, il gesticolare vivo e il silenzio vivo.
Certo esistono esempi anche ben riusciti di programmi televisivi dedicati a letteratura, arte etc. Ed è auspicabile che siano valorizzati e aumentati. Il tanto criticato, nei salotti­bene della cultura chic, Gigi Marzullo, sta compiendo a suo modo un servizio di conversazione culturale libera e aperta nei suoi appuntamenti quasi notturni. Lo si può 'sgessare' e pettinare diversamente, e magari si possono introdurre variazioni nel menù, ma allontanarsi da quel modello per via di costi e praticità non è facile. Non è comunque amplificando questi format, o sperando di farli diventare programmi da prima serata che si allargherà lo spazio della 'cultura in tv'.
In secondo luogo, sperare che la cultura sia proposta solo attraverso ottimi documentari tipo quelli offerti da reti interamente dedicate, è altrettanto velleitario. Un grande poeta del passato, T.S.Eliot, autore di teatro, riflettendo in epoca pretelevisiva (1918) su come si sarebbe potuto realizzare un grande spettacolo popolare di cultura, concludeva azzardando che la cosa migliore sarebbe stato impiegare l’attore comico. In tal modo si rispettava il pubblico, che si accosta allo spettacolo (e alla televisione) con una domanda di svago, di divertimento, inducendola però a comprendere anche elementi di cultura. Di fatto, profetizzava il caso Benigni-Dante. Ma egli stesso avvertiva che non tutti gli attori comici potrebbero saper fare una cosa del genere.
E qui sta il punto, la 'cultura' in tv non è una questione di 'argomenti'. La cultura non è una faccenda principalmente di quadri o libri. Non si tratta di inserire la cultura come 'tema' esplicito di trasmissioni o di parti di trasmissioni. In un recente programma nazional-popolare hanno voluto creare una specie di angolo della poesia, ma è stata una pena.
Il problema, come aveva previsto il poeta americano, sta nella 'cultura' di chi fa la televisione. È su questo aspetto che è andata in crisi la cultura in televisione. Non si tratta di ritagliare più spazi, (oggi ce ne sono, o se ne possono ricavare in tanti programmi già in onda, ma sono perlopiù pigramente occupati dai soliti nomi e dalle solite facce) ma di scegliere meglio uomini e donne che fanno la televisione, dietro e davanti alla telecamera. E questo sì, è una vera forte sfida culturale.
«Avvenire» del 2 ottobre 2009

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