01 ottobre 2009

L’officina dell’uomo-robot

Il filosofo Jean-Michel Besnier dipinge in questa intervista un affresco della società tecnologica dove le macchine «entrano» nel corpo umano e lo mutano in una realtà ibrida
di Corinne Soulay
Nel suo ultimo libro, Demain les posthumains (edito in Francia da Hachette), il filo­sofo Jean-Michel Besnier, speciali­sta in nuove tecnologie, sostiene che le utopie narrate dalla letteratura di fantascienza sono oggi ipotizzabili, e alcune già attuali. La realizzazione di protesi e stimolatori, la manipo­lazione del Dna, i progressi nell’am­bito delle biotecnologie spingono sempre più avanti i limiti dell’uma­no, rendendo possibili i fantasmi di un uomo 'aggiustato', e persino 'aumentato'. Besnier evoca questo sconvolgimento che ci spinge a ri­definire l’umano e a mettere in cam­po nuovi valori.
Secondo lei starebbe nascendo una nuova specie di uomo. Che cosa glielo fa pensare?
«Il caso di Oscar Pistorius, a mio pa­rere, è rivelatore. Quest’atleta suda­fricano, amputato sopra il ginocchio, ha conquistato la medaglia d’oro nei 400 metri ai giochi Paraolimpici di A­tene del 2004. Nel 2008 voleva ga­reggiare con gli atleti 'normali'. Il comitato olimpico, imbarazzato, in un primo momento ha respinto la sua richiesta. Motivo: con le protesi in fibra di carbonio, Oscar Pistorius sarebbe stato favorito. La tecnica a­veva trasformato un uomo 'svan­taggiato' in uno 'aumentato'! Le scoperte scientifiche degli ultimi an­ni ci offrono prospettive straordina­rie. Ormai possiamo intervenire di­rettamente sul funzionamento del cervello. Giocando su neurotra­smettitori come la serotonina – usa­ta nella cura della depressione – si riesce a modificare l’umore. Un pa­raplegico oggi è in grado di mano­vrare la sua sedia a rotelle unica­mente con il pensiero. E in un futu­ro prossimo, grazie a innesti elettro­nici, avremo gli strumenti per ripa­rare un cervello leso dal morbo di Alzheimer o di Parkinson».
Restiamo però lontani dai cyborg della fantascienza, metà uomo e metà macchina…
«Non tanto. Il pace-maker è stato il primo elemento visibile di tale tra­sformazione. Ma, in seguito, sono stati realizzati dispositivi miniatu­rizzati sempre più performanti e di­versificati. Per il momento tali in­venzioni sono destinate ad 'aggiu­stare' l’umano, ma è immaginabile che in futuro verranno utilizzate per dopare le prestazioni. Dal momen­to che disponiamo di tecniche per correggere le debolezze del cervello, perché non usarle per ingigantire la memoria, ad esempio, o restituire la vista ai ciechi? Sappiamo farlo at­traverso manipolazioni sulla retina. Non è insensato pensare che riusci­remo a dare all’uomo la capacità di vedere di notte. L’industria militare è molto interessata a questo tipo di ricerche… Ebbene, se ci dotiamo di protesi all’infinito, quale parte d’u­manità ci resterà?».
La morte sarà destinata a sparire?
«In qualche modo. Per la precisione, stiamo sviluppando tecnologie rite­nute in grado di farci smettere di sof­frire e di morire. E persino di nasce­re! Siamo alla vigilia di poter tecni­camente 'fabbricare' l’uomo senza l’intervento di un atto sessuale, gra­zie alla clonazione. Presto, con la messa a punto dell’utero artificiale, saremo persino in grado di conside­rare l’ipotesi di fare a meno della gra­vidanza. Verremo inoltre a capo del­le malattie, grazie a migliaia di na­norobot che percorreranno il nostro organismo segnalando gli agenti pa­togeni, aggiustando e curando i tu­mori in situ, correggendo gli errori del Dna o eliminando le tossine… Infine, sarà indubbiamente possibi­le tradurre in forma elettronica la no­stra architettura neuronale, ossia il contenuto del cervello. Tali infor­mazioni potranno essere telecarica­te su materiali incorruttibili – pulci di silicio – o trasferite in un robot… o in un altro corpo! Se si ritiene che la vita si limiti alla sopravvivenza di tale contenuto, la morte potrebbe sparire».
Vuol dire che si riduce pericolosa­mente la differenza tra uomo e ro­bot?
«Reagiamo già come robot. Sempli­fichiamo i nostri comportamenti, i nostri modi di pensare e il linguag­gio per interagire con le macchine. Quando voglio contattare telefoni­camente un’azienda di servizi e una voce mi ordina di 'premere asteri­sco', di 'dire sì o no', non ho scelta. Se reagisco da umano, dando prova di umorismo o di poesia, non acce­do al servizio! Lo stesso quando riti­ro i biglietti del treno alla macchi­netta self-service…».
Le tecnologie ci spingono a perde­re le nostre competenze?
«Noi 'esternalizziamo' sempre di più la nostra memoria. A forza di re­gistrare i numeri di telefono sul cel­lulare, non sappiamo più memoriz­zarli. E sempre più spesso rinuncia­mo alla scrittura per il computer. Ma i supporti virtuali sono caduchi: la versione di un programma di scrit­tura viene sostituita quasi ogni an­no. Se non aggiorniamo, non pos­siamo più leggere i vecchi dati ar­chiviati. Si pone il problema della perennità della memoria umana, che viene così resa particolarmente fragile. Lo stesso vale per le nostre mani. Grazie a tecnologie sempre più performanti, le usiamo sempre meno. Eppure è stato l’atto di presa a permetterci, migliaia di anni fa, di fabbricare utensili. Altra specificità umana che tende a sparire».
Da parte loro, le macchine divente­rebbero sempre più umane?
«Per far fronte all’invecchiamento della popolazione e prendersi cura degli anziani, giapponesi e coreani costruiscono robot androidi, dotati di corpo e rivestiti in silicone per i­mitare la pelle. Gli scienziati sono al lavoro anche su macchine in grado di imitare alla perfezione i compor­tamenti umani: possono parlare, ri­conoscere una voce e manifestare un’emozione in risposta agli stimo­li ».
L’uomo non resta comunque pa­drone della situazione, dal mo­mento che è lui a comandare la macchina?
«Non è più così semplice, poiché og­gi costruiamo robot capaci di reagi­re in maniera autonoma. È il caso di Spirit, inviato su Marte, che sa adat­tarsi alle ostilità ambientali. Incre­dibilmente, da qualche tempo, sem­bra dare segni di disobbedienza e non risponde più agli ordini della Nasa: è possibile che abbia svilup­pato un comportamento che ci sfug­ge. Quanto ai nanorobot – che sa­ranno presto utilizzati in microchi­rurgia – finora avevano bisogno di energia fornita dall’esterno per 'so­pravvivere' nell’organismo. Ma si è scoperto che è possibile ricaricarli grazie ai movimento del colon. Ri­sultato: questi minuscoli dispositivi imbottiti di ricettori diventerebbe­ro completamente autonomi e, in definitiva, incontrollabili».
L’evoluzione verso un essere 'post­umano' è inevitabile?
«No, tranquillizziamoci. Ma è ne­cessaria una massiccia presa di co­scienza da parte della popolazione. Il fascino per le tecniche è il rovescio della medaglia di una disistima di sé e dell’umanità. Non si sopportano più la vecchiaia, la malattia e la mor­te, e tantomeno la casualità della na­scita. Riconciliarci con la nostra fi­nitudine, accettare le nostre debo­lezze… è il prerequisito per salvare l’umanità. In questo, le odierne filo­sofie, le spiritualità e le religioni han­no un ruolo da svolgere».
Concretamente, quali soluzioni ab­biamo?
«Bisogna dare importanza ai pareri dei nostri comitati etici. Sono im­prescindibili se vogliamo riuscire a posizionare abilmente il cursore tra quanto rientra nell’'aggiustare' l’u­mano' e quanto invece nell’'au­mentarlo'. Anche sul piano indivi­duale, si tratta di coltivare quei com­portamenti che fanno di noi degli esseri umani. L’umorismo, la creati­vità, l’ironia. Tutte cose bandite dal 'politicamente corretto' e dalla standardizzazione. Mozart o Proust non possono essere ridotti a sem­plici sistemi di neuroni! Seguiamo il loro esempio. Possiamo inoltre ri­fiutare la robotizzazione che ci cir­conda, costringendoci a fare la fila al­lo sportello della banca invece di preferire il bancomat. Il problema è che, in certe agenzie, l’impiegato al­lo sportello non c’è più. Alla fine, la decisione di regolare meglio il mo­vimento verso il post-umano deve essere conseguenza di una vera scel­ta di società, di una volontà politica forte».
(traduzione di Anna Maria Brogi)
«Avvenire» del 1 ottobre 2009

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