03 ottobre 2009

Informazione: accesso diretto alle fonti passaggio obbligato per la libertà

Come rafforzare l'indipendenza
di Luigi Ferrarella
Nella cronaca giudiziaria sarebbe utile sbiancare la zona grigia anziché pompare ulteriori dosi di segreto
Meno segreti e più trasparen­za. Chi fa giornalismo ha da chiedere non immunità per sè, ma più accesso diretto, trasparente ed effettivo alle fonti (persone attraverso le domande, e do­cumenti attraverso la consultazione) dell’in­formazione sui vari settori. Un diritto da rivendicare non per utopia di anime belle, e neppure per pigra comodi­tà professionale. Ma per convenienza: dei lettori. Per interesse dei cittadini. Gli unici a perdere al «mercato nero» della notizia. La «Borsa» dove vince sempre e comunque il più scorretto: il politico più bugiardo, l’imprenditore più furbo con i soldi degli al­tri, il magistrato più carrierista sulla pelle altrui. E, naturalmente, il giornalista più spregiudicato. Perde solo la collettività, por­tata ad accettare o a rifiutare riforme, a esprimere opzioni politiche e ad ammini­strare il proprio salvadanaio sulla base non della realtà «vera» ma di quella «percepi­ta »: un po’ come accade nei bollettini me­teo dei Tg estivi, dove c'è la temperatura ve­ra ma tutti sudano per la temperatura «per­cepita », e ci sono 25 gradi «ma è come se ce ne fossero 35».
In una importante società municipalizza­ta milanese investita da uno scandalo, il consiglio di amministrazione ha votato qualche tempo fa un ordine del giorno per abolire la prassi di documentare, attraverso la registrazione, le sedute ufficiali del cda. Ovvio che, quando sono poi state deposita­te agli atti dell’inchiesta alcune intercetta­zioni che davano conto dei reali criteri di gestione della cosa pubblica da parte di con­siglieri e manager appaltati alle varie corda­te politiche, i giornali abbiano fatto a gara a pubblicarle: non per chissà quale prurigino­sa curiosità da buco della serratura, ma per­ché, di fronte allo svuotamento degli stru­menti ordinari di conoscenza della vita poli­tica e economica, il binocolo giudiziario, che per caso mette il naso là dove il giornali­sta (e quindi il cittadino) viene tenuto fuo­ri, finisce per essere vissuto e a tratti anche sopravvalutato dalla collettività come un momento di squarcio su una verità altri­menti difficile da intuire.
Non è dunque un caso che proprio sulle cronache giudiziarie prema sempre più il massiccio e indiscriminato ricorso a quere­le in sede penale e maxirichieste danni in sede civile, spesso talmente pretestuose da avere già in partenza nessun’altra finalità che la speranza di scoraggiare il giornalista dal rioccuparsi di una faccenda, e la certez­za di intimidire il portafoglio dell’editore. Portafoglio, guarda caso, per altra via già ammaccato dai pressanti consigli del pre­mier agli imprenditori su dove non indiriz­zare i loro investimenti pubblicitari; e mi­nacciato (in alcuni casi anche a colpi di 465 mila euro per ogni pubblicazione di atto pur vero, non più coperto da segreto inve­stigativo e riportato in maniera corretta) dal disegno di legge governativo che, con la scusa di voler riformare la disciplina delle intercettazioni, restringe in realtà i margini di pubblicabilità di tutti gli atti.
E se il presi­dente della Fnsi Franco Siddi comincia a pensare già a un «fondo nazionale di garan­zia » alimentato da «cauzioni» imposte ai maniaci della querela e incamerabili in ca­so di liti ultratemerarie, disarmante nella sua motivazione economica è la risposta che sempre su queste pagine Milena Gaba­nelli ha raccontato di aver ricevuto da un colosso assicurativo americano: tranquilla­mente disposto ad accollarsi l’alea di assicu­rarla in Italia dall’eventualità che sia con­dannata a risarcire davvero gli oltre 400 mi­lioni di euro di danni chiestile sinora, ma assolutamente indisponibile a sostenere il peso economico della certezza di dover af­frontare una massa di (pur campate per aria) azioni legali, tanto inutili quanto desti­nate comunque a protrarsi per 10 anni in un sistema giudiziario che non ha modo di limitarle facendone pagare cara la prete­stuosità.
Eppure è proprio a cominciare dal setto­re della cronaca giudiziaria che sarebbe uti­le somministrare quantità industriali di tra­sparenza, sbiancare la zona grigia anziché pompare ulteriori dosi di segreto. Come? Consentendo per legge al giornalista, alla luce del sole, di poter disporre degli stessi atti non più segreti alle parti processuali, al­lo scoccare delle varie scadenze procedura­li che sin dalle prime battute delle inchieste prevedono appunto un formale deposito a tutte le parti. In questa fase c’è oggi il culmine dell’opa­cità, il momento nel quale il giornalista è costretto a dosare il rapporto personale e in­formale con le fonti (senza il quale non tro­verebbe le notizie) badando però a non far­sene strumentalizzare: sempre in bilico sul­lo scivoloso crinale che separa di un non­nulla ciò che fa il bene del lettore (la riusci­ta di una plurima verifica della notizia forni­tagli) da ciò che fa la rovina del giornalista (il suo ridursi a «buca delle lettere»).
E’ comprensibile che forse un simile ri­medio possa di primo acchito spaventare chi teme che così si getti più benzina sul fuoco dell’attuale «Far West» giornalistico. E invece accadrebbe l’esatto contrario. La quantità di benzina sarebbe la stessa che già oggi ribolle in un stufa sprovvista di qua­lunque valvola di sicurezza che non siano la coscienza personale e lo scrupolo professio­nale del singolo giornalista; ma scorrereb­be in una caldaia di sicurezza, più trasparen­te, garantita anche nella «manutenzione». La manutenzione delle regole.
«Corriere della sera» del 3 ottobre 2009

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