29 ottobre 2009

Erri De Luca: vi racconto il mio Ieshu

In un librettino di poche pagine (ma di notevole successo) lo scrittore non credente eppure innamorato della Sacra Scrittura enuncia le «penultime notizie» pervenute sul Messia di Nazaret
di Alessandro Bottellli
Una «vita di Cristo» non definitiva perché da 2000 anni siamo ancora ai tempi supplementari
Sarà per l’aria che lassù si respira, per quel limpido impasto di luce e di cielo che affonda radici in radiose, non misurate lontananze, e in cui la vista, smarrita, a tratti acuisce nel pallido sforzo di intravederne i confini. Sarà per quella fraterna alleanza alle cime, alle vette, ai pinnacoli, sillabati unghia a unghia per grazia di chiodi e piccozza, che ancora una volta la prosa di Erri De Luca, scrittore­scalatore educato da strade in salita a risparmiare sui fiati, fa solchi e allunga ponti là dove più pensavamo aver accumulato il nostro piccolo fardello di sapienza quotidiana. Penultime notizie circa Ieshu/Gesù (Edizioni Messaggero Padova, pagine 96, euro 5) offre a chi lo attraversa il versante opposto d’orizzonte, dilagando con lo sguardo innamorato sopra estesi panorami di parole, rese eterne però dal fitto intrico d’echi e quiete risonanze, o, forse più semplicemente, dal dono azzurro delle nuvole.
Nel libro, dai alcune tornite definizioni dell’amore. Scrivi: «Chi dà tutto in amore non si ritrova sul lastrico, ma più fornito di prima». E all’inizio: «L’amore è questa incomprensibile energia per la quale più se ne spende, più se ne riproduce nelle fibre. Al contrario, chi lo risparmia lo spreca, se lo ritrova inutile e marcito». Tu hai fiducia nell’amore? E che idea ti sei fatto, attraverso lo studio della Bibbia, dell’amore divino?
«Personalmente ho fatto un uso improprio del verbo 'amare'. Ma quando ho trovato queste notizie nella scrittura sacra, ho capito che cos’era quel verbo, e come mai con la forza di quel verbo il monoteismo era riuscito a soppiantare le altre religioni precedenti. E a farlo dentro il Mediterraneo, cioè nel mare più politeista e più abbondante di divinità di tutta la storia dell’umanità. Quel mare veniva rigirato da questa notizia monoteista che si fondava sull’amore. Era una forza di impianto, perché si impiantava su un terreno di idoli che mai avevano chiesto niente di simile ai propri praticanti di culto, ma nello stesso tempo possedeva anche una forza di espianto, capace di sbaragliare, di estirpare dal suolo e dal cuore degli uomini gli idoli precedenti. Tutto ciò è avvenuto grazie a quella energia superiore fornita dal verbo 'amare'. Ecco, io le notizie sul verbo 'amare' le ho imparate nella scrittura sacra».
Un verbo indispensabile, che nutre e sostenta la pratica della fede: «Voi credete con la sovrabbondanza dell’amore, non con la carestia della sapienza», viene detto a Ioséf/Giuseppe, dopo che gli è stata annunciata la nascita di un figlio non suo. Credere dovrebbe essere, come per Abramo, «scatto di totale» e fiducioso «affidamento», in cui le inquietudini del dubbio non possono né devono avere alcun diritto di cittadinanza?
«La lingua italiana ha un unico verbo per indicare il credere. Sia se crediamo nella divinità o nella buona sorte o nella estrazione dei numeri del lotto, il verbo che usiamo è sempre uguale. In questo, è più preciso l’inglese, che adopera il verbo think per esprimere un’opinione, per dire 'io credo che', e il verbo trust quando vuole indicare 'io ho fede'. Sulle banconote americane c’è pure scritto 'In God we trust', 'Noi crediamo in un Dio'. Ma messa lì, quella frase occupa davvero un posto improprio.
Insomma, noi abbiamo una debolezza di vocabolario: usiamo un solo verbo per le opinioni e per la temperatura della fede. E il credere della scrittura sacra, il credere della fede comporta una elevata temperatura corporea».
In quest’ottica, quindi, l’intelligenza potrebbe essere un ostacolo per vivere con pienezza sia il dono dell’amore sia quello della fede?
«No, non è un ostacolo. Semplicemente non è richiesta. Nella scrittura sacra la divinità chiede di essere amata in tutto il cuore, in tutto il fiato e in tutte le forze. Se voleva metterci anche in tutta l’intelligenza lo poteva fare benissimo, non le mancava l’iniziativa né lo spazio. E invece sono quelle le caratteristiche dell’amore richiesto: il cuore, il fiato, le forze. Per credere non c’è bisogno di essere non dico intelligenti, ma nemmeno istruiti».
Quello di Gesù, pur essendo in sé qualcosa di estremamente nuovo e rivoluzionario, «era un annuncio che riscaldava il cuore senza armarlo d’ira e di rivolta». Tu che vieni anche dai giorni della rabbia e dello scontro, come giudichi il messaggio assolutamente non violento portato in mezzo agli uomini dal Redentore?
«Intanto bisogna immaginarsi il suo tempo, raffigurarselo. Gesù abitava in un paese occupato dalla più forte potenza militare straniera, quella romana. Prima e dopo di lui migliaia di giovani ebrei finivano impalati sulla croce, sullo strumento di tortura e di supplizio inventato ed esportato lì proprio dai Romani. Lui stesso era nato in un momento in cui gli invasori chiedevano un censimento e facevano spostare la popolazione ebraica per poterla meglio contare. E, di conseguenza, meglio spremere. Egli si trova dunque in una situazione di oppressione e di rivolte continue contro l’occupante romano, che, d’altronde, non ha trovato mai così tanta resistenza ostinata come da quelle parti. Questo si spiega col fatto, appunto, che gli abitanti della zona erano titolari del monoteismo, del Dio unico, e si trovavano invece il faccione di Giove Iuppiter piazzato sopra il tempio di Gerusalemme, sopra la casa di quella loro divinità che non voleva nemmeno essere raffigurata. Quindi non solo l’occupazione militare era un’ulcera per l’anima ebraica, ma altrettanto lo era quel politeismo imposto.
In questa situazione, nella Pasqua finale della vita di Gesù a Gerusalemme, quando tutto il popolo va lì e converge e manca quasi niente perché scoppi un’insurrezione contro l’occupante romano, lui non dice parole di pace, ma che smontano in un attimo la tensione e l’ostilità. Già prima però, con la frase: 'Date a Cesare quel che è di Cesare', aveva chiarito che il potere politico, il potere degli uomini sugli uomini è qualcosa di effimero, che sta bene sopra una moneta e che non decide né della libertà né della vita di un uomo. Lì Gesù disinnesca una miccia che contava anche su di lui per innescare la rivolta. A Gerusalemme, infatti, viene accolto in maniera trionfale. Entra come un re, in groppa a quella cavalcatura speciale che era l’asina. Senza dubbio c’è grande attesa nei suoi confronti. E lui disarma quell’attesa, la riporta al suo messaggio di salvezza indipendente dalla scelta delle armi».
Ieshu/Gesù «dimostrava senz’armi il sovvertimento delle gerarchie e delle potenze», attraverso la forza dirompente della sua predicazione. La parola, dunque, è capace, da sola, di modificare la realtà?
«La parola pronunciata da quella voce, e cioè dalla voce giusta e nel momento opportuno, certamente è molto più capace delle armi di fare breccia. Non tutte le parole hanno però un simile potere. Noi siamo adesso in un tempo ciarlatano, in cui le parole vengono pronunciate e smentite il giorno dopo. Queste parole qui contano esattamente lo sputo, il fiato che ci vuole a pronunciarle e scadono subito dopo».
Pensi che il messaggio di Gesù Cristo possa ancora farsi largo e attecchire nel cuore degli uomini del ventunesimo secolo?
«Evidentemente sì. Le sue parole non solo muovono, ma addirittura commuovono ancora le generazioni che le ascoltano e che le leggono. Specialmente il messaggio lanciato dalla montagna delle letizie, quello che io dico dei sovvertimenti dei valori e delle gerarchie, in cui lui fa sapere che gli ultimi sono i primi, beh, quel messaggio è fresco di stampa e di speranza in ogni generazione».
Ma il tempo che noi stiamo vivendo, affermi, è un prolungamento di ciò che in realtà si è compiuto con la morte e la risurrezione di Cristo. Che significato assume questa coda temporale, questo strascico di giorni lungo ormai duemila anni?
«Sì, questi tempi supplementari infiniti tra l’annuncio e la sua manifestazione finale durano da duemila anni. È un po’ quello che, in scala più grande, viene comandato a Noè, quando gli viene commissionata un’arca gigantesca, superiore per dimensioni a un campo di calcio, alta tre piani e piantata in mezzo alle montagne e ai boschi. Insomma, un lavoro enorme, portato poi a termine da solo. Un’opera visionaria, molto più della torre di Babele, che voleva costringere l’umanità sua contemporanea a interrogare Noè su quel manufatto. Serviva a far sapere agli uomini del tempo che c’era una possibilità di ravvedersi e di rendere inutile quell’arca. Tutto il lavoro di costruzione dell’arca è dunque un tempo supplementare concesso all’umanità contemporanea di Noè per ravvedersi. Cosa che però non avviene e allora il diluvio ha inizio – così è scritto nel libro Genesi/ Bereshìt. Ecco, questi tempi supplementari del cristianesimo sono i tempi della costruzione dell’arca di Noè».
In uno degli scritti contenuti nel libro dai nuova collocazione al Paradiso: non più sospeso ad altitudini incommensurabili, bensì ubicato in qualche luogo reale, qui, sulla terra, ripristinando quella che dici essere la sua sede originaria, etimologica, e cioè in un giardino di alberi da frutta. Ma oggi potrebbe ancora esistere sul pianeta un luogo degno di ospitare il Paradiso?
«Immaginata come una residenza non definitiva ma provvisoria, ci sono tanti piccoli giardini in cui improvvisamente è possibile realizzare quella concordia e quella unità che c’è nel paradiso. Insomma, è continuamente possibile, su piccola scala e in circostanze minime, in brevi momenti, anticipare quel luogo. Oggi lo possiamo trovare dentro a un ospedale di brava gente nostrana in certi posti dell’Africa, o magari nel comportamento eroico di qualche sacerdote in una parrocchia sgangherata».
Lì c’è un frammento di Paradiso…
«Sì, lì c’è la costituzione di un paradiso in terra».
«Avvenire» del 18 ottobre 2009

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