03 ottobre 2009

Ecco perché gli italiani non amano lo Stato

Il banco di prova? Una onlus dona a 3.000 bambini delle elementari un tavolo personalizzato. Per insegnare loro che la cosa pubblica è nostra e va difesa. Lezione per un Paese dove chi rispetta le istituzioni è ritenuto un «fesso»
di Giordano Bruno Guerri
Prendiamo, come esempio, un bambino di sei anni. Il suo primo rapporto - profondo e continuativo - con lo Stato avviene proprio allora, con l’ingresso a scuola. Quel bambino, che chiameremo Filippo, viene da sei anni di educazione casalinga uguale in tutte le famiglie: se danneggia un mobile o un utensile di casa di certo i genitori lo sgridano, lo puniscono o addirittura (diononvoglia) gli danno uno scapaccione. Lo stesso se si azzarda a disegnare sulle pareti bianche dell’appartamento: sentirà subito l’urlo istintivo del padre o della madre: «No, Filippo, non si fa!».
Poi Filippo va a scuola e una delle prime cose che impara è che il muro dell’aula non è affatto intangibile; che gli allievi degli anni scorsi l’hanno abbondantemente decorato con ogni tipo di graffiti, e che si può osare senza grandi rischi. Lo stesso avviene con i banchi. Ai tempi delle mie elementari erano di legno massiccio quanto tenero, si poteva scavarli, inciderli, decorarli, sfregiarli a piacimento. Ogni banco era un accumulo di vandalismi, per noia e per incuria, un piccolo monumento al disprezzo della cosa pubblica. Oggi che i banchi sono di metallo e formica, l’azione sfregiatrice di Filippo troverà maggiore opposizione nella materia prima, ma non nel concetto. E il concetto afferma: quel che è di tutti, è di nessuno.
Filippo non sa ancora che anche i suoi genitori, così attenti a difendere pareti e suppellettili di casa, con ogni probabilità hanno un atteggiamento molto simile al suo verso i beni comuni. Non sa neppure, e forse non glielo insegneranno mai, che il suo rapporto con la proprietà pubblica - ovvero con il banco, ovvero con lo Stato - ha origini antiche.
Molti secoli fa, mentre in Europa si formavano i grandi regni nazionali, l’Italia era divisa, e lo rimarrà fino al 1861. Su intere regioni hanno dominato a lungo potenze straniere, con tutte le conseguenze che ciò comporta: sfruttamento economico, leggi lontane dal sentire comune e interessate più al bene della potenza occupante che a quello degli abitanti. Per di più, in Italia, quasi tutte le popolazioni hanno subito contemporaneamente tre poteri: quello del Signore, o del Comune, locale; quello della potenza straniera che lo sovrastava; quello della Chiesa. Tre poteri spesso in contrasto fra loro, ma sempre solidali nell’imporre ai sudditi degli obblighi, più che portare loro dei benefici.
È naturale che gli italiani si siano addestrati, nei secoli, a considerare «lo Stato» un padrone ingombrante e malvagio, che chiede il massimo dando in cambio il minimo: un padrone scomodo cui sottostare cercando però - sempre - di fregarlo. La parola «furbo» viene dal francese fourbe (ladro), fourbir (ripulire le tasche). Ci siamo impadroniti di questo insulto, che gli invasori francesi ci rivolgevano in tutte le epoche, e ci siamo attribuiti volentieri l’astuzia e la malizia del ladro: prima verso gli occupanti, poi nella nostra stessa comunità. È dunque «furbo» chi non paga le tasse e salta le file, mentre - secondo la celebre definizione di Giuseppe Prezzolini - sono considerati «fessi» gli onesti, i rispettosi dei diritti altrui e del bene comune.
Lo Stato unitario, dopo il 1861, sottopose gli italiani a un corso accelerato e intensivo di amor di patria, riuscendo anche a far correre le lacrime alla vista di una bandiera tricolore (Cuore e De Amicis insegnano), ma lo Stato rimase un’entità sempre più ostile e diversa dalla patria: un padrone invadente e vessatore con il quale era più giusto e logico fare i furbi, piuttosto che i fessi. Il regime fascista, poi, ci aggiunse del suo sacralizzando se stesso e lo Stato: la formula «Tutto per lo Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato» ha condotto gli italiani - visti gli esiti finali del regime - alla convinzione opposta: «Niente per lo Stato». E comunque è meglio starne il più possibile lontani, se non per «fregarlo». Una convinzione che si è vieppiù rafforzata nella Repubblica democratica, che al cittadino ha dato molto, ma che ha esibito oltre misura sprechi, inefficienze e una sostanziale indifferenza a instaurare un buon rapporto fra pubblico e privato.
Ecco, in rapidissima sintesi, perché Filippo e i suoi compagni di classe fanno a scuola (e ai loro banchi) quello che non farebbero a casa. Mica per cattiveria, ma perché così si fa. Il loro rapporto con lo Stato verrà di conseguenza, anche da adulti.
Come porre un freno, o addirittura un inizio di rimedio a tutto ciò? I corsi di Educazione civica, che il ministro Gelmini pensa giustamente di reintrodurre nelle scuole, hanno un’efficacia parziale e che comporta anche qualche rischio formativo. Efficacia parziale perché, come tutti gli insegnamenti astratti, l’ora di Educazione civica rischia di essere capita - sì -, ma prontamente espulsa dal bagaglio formativo dei ragazzi, i quali fuori e dentro la scuola verificano ogni giorno pratiche diverse da quelle apprese in aula. Rischio formativo perché ogni corso di Educazione civica finisce sempre per proporre la Costituzione come un testo sacro, quasi una Parola rivelata, con tutti gli azzardi che ciò comporta anche nelle religioni monoteiste e basate su un Libro: nella maggior parte dei casi, un conformarsi parziale e utilitaristico alle leggi; nei casi peggiori, o un fanatismo quasi talebano oppure la ripulsa di tutto ciò che viene proposto come Verità. Del resto non dev’essere facile insegnare alle elementari o alle medie che la Costituzione è la nostra legge fondamentale, ma che come tutte le cose umane è piena di aspirazioni irraggiungibili e teorie astratte; che, come tutte le cose umane, risente dell’età e che avrebbe bisogno di un rinnovamento radicale: meno astrazioni, più concretezza.
Mi sembra magnifica e concreta, piuttosto, l’iniziativa dell’onlus «ioSiamo», che verrà presentata oggi a Todi. Ispirata alla convinzione che «il bene del nostro Paese sia il bene di tutti noi», ioSiamo vuole accrescere nei giovani e giovanissimi la cultura dell’educazione civica, della responsabilità civile e della solidarietà. Non partendo da un testo, più o meno maiuscolo, ma da un banco di prima elementare.
Così torniamo al nostro Filippo. Lui e circa altri 3.000 bambini di cento classi, in tutta Italia, riceveranno da ioSiamo un banco nuovo di zecca, con una particolarità extraordinaria: i banchi rimarranno di proprietà della scuola, ma ognuno avrà una targhetta con nome e cognome dell’alunno. Filippo saprà, dunque, che quel banco è una proprietà pubblica, ma che è affidato a lui. «Nella difesa, tutela, pulizia di quel pezzo di legno e formica - scrive Luca Josi, ideatore e promotore dell’iniziativa - nasce il suo rapporto con lo Stato, il rispetto dell’oggetto ricevuto in cambio di quello che un giorno capirà essere stato frutto di un’altra alleanza. Quel banco era in parte suo. Lo avevano acquistato i suoi genitori con le tasse versate alla nazione». Anche dalle condizioni finali di quel banco deriveranno il voto di Filippo in Educazione civica e in condotta: meglio dell’apprendimento pedissequo di un testo e di una disciplina solo formale.
Non solo. Alla fine dell’anno Filippo e i suoi compagni di classe onoreranno un secondo patto: dotati di guanti, pennelli e vernice, riconsegneranno la classe - il bene collettivo - nelle condizioni migliori, perché sia goduto al meglio da altri. Altri cittadini.
«Il Giornale» del 3 ottobre 2009

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