11 ottobre 2009

Dai cattolici romanzi-non romanzi

di Alessando Zaccuri
Almeno su un punto Francesco Pacifico ha ragione: tra i cattolici e il romanzo la questione è aperta. Magari il problema non si pone nei termini – un po’ angusti – indicati dallo scrittore romano sull’ultimo numero di « Nuovi argomenti » , però esiste. E sì, per noi italiani risale a Manzoni, ai dubbi e agli scrupoli che accompagnano l’elaborazione dei Promessi sposi. Nella sua radicalità originaria il dilemma è questo: se la Storia è il luogo in cui si è attuata la salvezza, perché ricorrere all’invenzione? Perché affidarsi al verosimile, se il vero si è già manifestato? Premessa terribilmente antimoderna, che in letteratura porta a una crisi, a uno scontro con il genere moderno per eccellenza, che è appunto il romanzo. Una forma di racconto che è anche e strutturalmente spiegazione del mondo, specie quando si pretende di dimostrare come il mondo non abbia spiegazione alcuna. Presto o tardi, uno scrittore che sia credente si rende conto del possibile dissidio, un po’ come accadde a Girolamo nel celebre sogno in cui Gesù gli rimproverava di essere ciceroniano anziché cristiano.
È finita come sappiamo: Girolamo ha trasformato il marmoreo latino dei retori nella lingua impura e vitale della Vulgata. Allo stesso modo, molti cattolici che praticano la via del romanzo finiscono per produrre « oggetti narrativi non identificati » , secondo la la definizione suggerita qualche tempo fa dal dibattito sulla « nuova epica italiana » . Per tornare a Manzoni: I promessi sposi è un romanzo meno perfetto, poniamo il caso, di un qualunque capolavoro di Balzac, ma la sua importanza sta proprio nell’essere un libro meno romanzesco di quanto ci si potrebbe attendere. Per avvicinarci ai giorni nostri: il primo Testori, quello « avanti la conversione » , è in fondo un romanziere più disciplinato di quanto lo sia il narratore visionario e irrequieto di In Exitu o degli Angeli dello sterminio. E l’elenco potrebbe continuare, magari includendo il bernanosiano Diario di un curato di campagna di cui, al termine del suo intervento, Pacifico postula la sostanziale « vanità » . A colpire, però, nel saggio- testimonianza pubblicato da « Nuovi argomenti » è il principale obiettivo polemico scelto dal giovane narratore, e cioè l’Agostino delle Confessioni.
Un’opera che, secondo Pacifico, sottintenderebbe una temibile ideologia antiromanzesca, costruita attraverso reticenze e ipocrisie riguardo a quella che, d’abitudine, consideriamo la principale materia del romanzo: il ricordo dell’infanzia, per esempio, oppure il desiderio amoroso, la passione sensuale. Sarà anche una provocazione, d’accordo.
Ma resta il fatto che, all’epoca di Agostino, il romanzo esisteva già, come dimostra l’opera di Apuleio e tutta la tradizione ellenistica a cui Apuleio si ricollega. Agostino, dal canto suo, ha offerto offre ai romanzieri venuti dopo di lui lo strumento formidabile dell’introspezione, senza il quale il romanzo moderno semplicemente non esisterebbe. Va bene l’invenzione, ma anche quando si parla di romanzi un po’ di Storia non guasta mai.
«Avvenire» del 10 ottobre 2009

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