01 ottobre 2009

Come sono conformisti gli artisti della trasgressione

Irridono i simboli del cristianesimo, cercano di scioccare con sesso e violenza. Risultato: sono tutti simili. E banali
di Redazione (?)
Provocare, scandalizzare, se possibile offendere. Sembrerebbe questo il destino dell’arte contemporanea, o almeno quella che vogliono imporci come moda. Oggetti e installazioni che costano un sacco di soldi - è questo davvero l’unico oltraggio - e più si pagano più i nuovi ricchi ci godono, convinti di aver fatto l’affare della loro vita.
L’ennesima mostra choc si apre oggi alla Tate Modern di Londra. «Pop Life. Art in a material world», quasi una citazione dalla cantante Madonna, ovvero l’arte nell’età del sesso, del denaro, dello status symbol. Forse un po’ in ritardo, visti i tempi di crisi, in un periodo in cui molti reclamano comportamenti virtuosi e riduzione degli eccessi. Be’, almeno non è una mostra ipocrita.
Prudenzialmente vietata ai minori di anni diciotto, «Pop Life» ripropone opere molto conosciute delle superstar del contemporaneo. La serie d’annata Made in Heaven di Jeff Koons e Cicciolina, all’epoca (era il 1990) innamoratissimi e arrapatissimi, impegnati a mostrarci senza censure la loro idea di Kamasutra. Le gigantesche eroine manga di Takeshi Murakami che sprizzano latte dai seni. Il letto sfatto di Tracey Emin, prelevato da casa sua, con preservativi e assorbenti usati, pillole antidepressive, lenzuola sporche.
Non poteva mancare il rapporto con il denaro, dove l’americano Richard Prince e l’inglese Damien Hirst sono esperti assoluti, visto che la loro poetica implica la necessità di lauti guadagni a fronte di riproduzioni di immagini già esistenti, dunque neppure originali, o di elementi organici destinati al rapido disfacimento. Né va dimenticato il tedesco Martin Kippenberger, compianto paladino della blasfemia, protagonista della controversia sulla sua brutta «Rana crocefissa» esposta circa un anno fa al Museion di Bolzano, che provocò un autentico terremoto istituzionale.
Fulcro della mostra, almeno per noi italiani, è la nuova opera di Maurizio Cattelan, che in verità riprende un cliché già ampiamente collaudato: un cavallo imbalsamato disteso a terra e sovrastato da un cartello con la scritta «INRI». C’è da scommettere che nei prossimi giorni tornerà in auge il dibattito tra i suoi accaniti sostenitori, come la rivista Flash Art che esalta Cattelan anche quando va dal dentista, arci-convinti dell’ennesimo colpo di genio del padovano, e gli altrettanto numerosi detrattori, che davvero non ne possono più di essere presi per i fondelli.
Il salotto buono dell’arte internazionale si eccita per siffatto genere di provocazioni, e più sono idiote e gratuite più le rivestono di significati inesistenti. Facile, davvero facile, bestemmiare la religione cattolica e i suoi simboli. Noi siamo tolleranti, ironici, possiamo al limite provare fastidio ma non censuriamo, non minacciamo. Perché il signor Cattelan non riserva lo stesso trattamento ai seguaci di Allah? Se i fondamentalisti non ci pensano due volte a minacciare di morte gli innocenti vignettisti danesi, sarò mica così fesso da rischiare per una causa neppure troppo nobile? Meglio continuare a sputare su Cristo, che tanto non reagisce, dopo aver colpito Papa Wojtyla con un enorme meteorite. Il massimo che gli potrà capitare, è una reprimenda di qualche vescovo che segue l’arte contemporanea.
Dietro queste provocazioni in serie si nasconde il dramma di un artista che non ha nuove idee e spreme come un limone le ultime rimaste. A Punta della Dogana, il megamuseo del multimilionario François Pinault, uno che compra l’arte con la stessa logica del raccoglitore di figurine, campeggiano trionfanti i nove cadaveri in marmo coperti da altrettanti lenzuoli. È l’Italia di Gomorra, l’Italia del male, l’Italia assetata di crimini e violenze. L’Italia che trasforma il dolore in business, nell’ordine di sonanti diritti d’autore. L’Italia che si pasce nello scandalo e se qualcosa funziona bene, fa finta di non vedere, di non capire.
Cattelan ha avuto un solo colpo di genio, nel 1993, una vita fa. Invitato per la prima volta alla Biennale di Venezia, vendette il proprio spazio a una ditta di cosmetici. L’artista rinuncia all’occasione della sua vita per il denaro, gesto coraggioso e originale, quello di sottrarsi alle proprie responsabilità e fuggire via, sconfitto dalla personale inadeguatezza, ma con il portafogli rigonfio.
Dopo di che Cattelan ha offerto molto lavoro a tassidermisti e produttori di materiali plastici: una sfilza di animali imbalsamati, altrettanti personaggi della storia e della politica mummificati. L’intenzione, sempre la stessa: distogliere lo sguardo dall’opera e far parlare di sé. Sedotte da un Ego tanto smisurato, «cosa mai avrà fatto Cattelan stavolta», si chiedono le signore in tenuta da cocktail, dopo aver inginocchiato Hitler, impiccato tre bambini, riesumato il cadavere di Kennedy?
Alcuni anni fa, quando la celebre mostra di artisti inglesi «Sensation» fece tappa negli Stati Uniti, un nutrito gruppo di cattolici si ribellò all’idea che il pittore afro-britannico Chris Ofili potesse impunemente esporre una sua versione della Madonna negra appoggiata su merda d’elefante. Giuliani, allora sindaco di New York, raccolse le proteste obiettando che non è giusto offendere un simbolo così importante per milioni di persone. L’arte, se vuole confrontarsi con la realtà, non può poi ricorrere al comodo ombrello del contesto protetto. Le regole, se ci sono, valgono per tutti.
Il problema è che in Italia funziona in maniera diversa: se insegui la bellezza e l’armonia non ti fanno parlare, se insulti, infami, dici menzogne ti offrono la tv in prima serata. Oppure in alternativa, un museo.
Eppure lamentano di venire censurati e nel dubbio organizzano una marcia.
«Il Giornale» del 1 ottobre 2009

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