29 settembre 2009

Triste il mondo in cui non ci sono più comici

di Andrea Monda
Forse l’Italia resisterà meglio di altri Paesi alla crisi finanziaria, ma c’è un segnale che mi induce ad essere molto pessimista sul destino del nostro Paese: in Italia non si ride più. Si ride ancora, ma è il ghigno cattivo e cinico o il riso di scherno che hanno preso il posto di quella risata del cuore, che è libera e liberatoria e che spingeva Thomas Carlyle a dire che «chiunque abbia riso di cuore anche una sola volta nella vita non sarà mai irrimediabilmente cattivo». Per ridere ci vuole un comico che sappia dire una battuta di spirito che, come scrive Chesterton nella prefazione al «Circolo Pickwick», libro ricco di umorismo, «è una cosa assoluta, sacra, che non si può criticare. I nostri rapporti con una buona battuta di spirito sono immediati e addirittura divini». I santi conoscevano bene la virtù dell’umorismo, strettamente imparentata con l’umiltà. Il Roche, nel suo saggio sulla «Sublimità dei santi» ha osservato che «la storia di tante eresie è in molta misura una storia di perdita del senso dell’umorismo», e lo stesso si potrebbe dire con i regimi totalitari che ciclicamente l’uomo ha realizzato, epoche in cui lo spirito critico e l’ironia sembrano scomparire del tutto.
Insomma, non c’è da stare allegri, e a rincarare la dose ci pensa Jacques Maritain che avverte: «Se una società perde il senso dell’umorismo si prepara al suo funerale». Viene da ribaltare il detto «una risata vi seppellirà» e dire: «Solo una risata può disseppellire un Paese altrimenti morto». Forse sono stato troppo cupo. Però c’è un dato mio personale: da anni accendo la tv, ma non rido più.
Ricordo che circa trent’anni fa girava una trasmissione che si chiamava «Non Stop» e tra i tanti comici che si avvicendavano molti sono scomparsi nella memoria, ma due hanno superato l’usura del tempo: Verdone e Troisi. Poi, il diluvio. Qualche anno dopo ricordo un altro programma che si chiamava «Drive In»… Non ridevo più. Mi sembrava tutto finto: la comicità, le risate (erano registrate, un dettaglio che mi impressionò), il corpo di ballo (non sapevano muoversi simultaneamente), i corpi delle ballerine… tutto finto. Lascio agli esperti la questione su cosa è successo in quegli anni, anche se a me spesso è venuto di pensare che l’abbassamento di livello abbia in qualche modo anticipato (spesso l’arte – e la comicità è un’arte – precede la società) quel successivo «salto» che abbiamo avuto tra la cosiddetta Prima e la Seconda Repubblica. Sta di fatto che la comicità «finta» di «Drive In» è un controsenso, perché la battuta di un comico, invece, è la cosa più vera che esista, è un guizzo del puro genio, qualcosa che distorcendola ci restituisce la realtà in modo più profondo e autentico. La battuta è anche irripetibile, è in qualche modo un «evento» (perdonate la parola stra-abusata), al punto tale che non verrà mai come quando è stata detta la prima volta. Oggi invece gli spettacoli dei comici sembrano vivere solo di «tormentoni», cioè di ripetizioni. Non ricordo più di aver riso di cuore davanti alla tv dai tempi del primo Verdone e del primo Troisi, con l’unica eccezione di Corrado Guzzanti a cui riconosco quel gusto per il «non sense» e la capacità di far guizzare il suo genio versatile in ogni sua gag. Insomma, i comici non fanno più ridere; viene da citare, a mo’ di esortazione, il Vangelo: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini»...
«Avvenire» del 29 settembre 2009

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