05 settembre 2009

Sono in Sicilia le radici della nostra poesia

Le
di Maurizio Cucchi
Di fronte a certe opere si torna a un respiro largo, ritrovando con piacere la grandezza e la bellezza della letteratura. Mi riferisco ai tre volumi dedicati ai Poeti della scuola siciliana, tre Meridiani (Mondadori, edizione promossa dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani) che ci permettono di tornare alle origini della nostra poesia.
E ci permettono di farlo con una quantità di strumenti e di informazioni che ci portano ben all’interno di questo momento culturale e sociale, che nella corte di Federico II, all’inizio del secolo tredicesimo, prima dei grandi stilnovisti e di Dante, aveva saputo esprimere una civiltà della lingua e della letteratura, nella centralità della lirica d’arte, che ha davvero qualcosa di prodigioso che continua a sorprendere. Anzi, che forse ancora di più ci sorprende oggi, proprio per la raffinatezza estrema, per la sublime e moralissima cura che troviamo nell’opera, innanzi tutto, del Notaro, di Giacomo da Lentini, il caposcuola (a cui è dedicato l’intero primo volume, diretto da Roberto Antonelli), ma anche di altri poeti della scuola. Il secondo volume, con un importante saggio introduttivo di Costanzo Di Girolamo, che ne è anche il curatore, è appunto dedicato alle altre ventiquattro voci (più gli anonimi) riconosciute come appartenenti alla Scuola, mentre il terzo volume, diretto da Rosario Coluccia, comprende ventitré Poeti siculo toscani, che della Scuola confermano, come scrive lo stesso Coluccia, la «notevole capacità espansiva». Sono tutte edizioni critiche e ogni poeta è proposto da un diverso curatore. Un’opera, insomma, che è al tempo stesso un monumento e un gioiello.
Come sempre avviene, nelle tradizioni culturali importanti, i poeti della Scuola Siciliana mettono a frutto, innovando sensibilmente, gli esiti di esperienze precedenti e circolanti, quelle dei trovatori e dei provenzali, 'professionisti', per così dire, della poesia, in buona parte ancora ottimo genere di intrattenimento, legato alla musica. I siciliani, il Notaro su tutti, realizzano la prima lirica d’arte della nostra tradizione, iniziano la nostra tradizione, attuano, come scriveva Folena, «il fondamentale divorzio della poesia dalla musica». Questi signori, in prevalenza funzionari, uomini di legge, notai della corte federiciana, usano un volgare siciliano di livello elevato (per quanto potesse esserlo il volgare, e teniamo conto che non esistono documenti scritti in siciliano di quell’epoca), lavorano su un tema unico, l’amore. Ed è straordinario notare come alto sia l’esito espressivo di un canto che si svolge entro una gabbia tematica importante e decisiva, d’accordo, ma unica e dunque costrittiva come una norma inviolabile. Proprio nell’esercizio di immaginazione e scrittura, sostanzialmente rituale, su percorsi monotematici dati, si manifesta l’abilità di questi poeti (di alcuni più di altri, ovviamente), vissuta nel rigore artigianale e nella disciplina che ogni forma d’arte, necessariamente, deve avere come presupposti. Giacomo da Lentini è il grande che si impone, il poeta che inventa la forma sonetto, e che così introduce la struttura geometricamente , scientificamente più efficace per i secoli che verranno, e che attraverso il genio del Petrarca creerà la tradizione poetica occidentale.
Leggere le poesie del Notaro ci incanta: per la meraviglia musicale della parola, per l’infallibilità della pronuncia e l’esattezza del suono, per la minuziosa responsabilità che sa assumersi felicemente su ogni dettaglio e sillaba del testo. Come sempre, chi scrive, dovrebbe voler fare.
«Avvenire» del 10 luglio 2008

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