18 settembre 2009

Se la stampa scende in guerra

La deriva dell’informazione italiana e l’imbarbarimento della polemica giornalistica: l’analisi del massmediologo Aldo Grasso
di Edoardo Castagna
«La stampa che vediamo in questi ultimi tempi è stampa da tempo di guerra: ogni conflitto è sempre an­che mediatico, e si confonde con la propaganda». Per Aldo Grasso, do­cente di Teoria e forme delle televi­sione alla Cattolica di Milano e cri­tico televisivo del Corriere della se­ra, la sconcertante escalation di at­tacchi personali sempre più vio­lenti apparsi negli ultimi mesi sulla stampa italiana e culminato nei giorni scorsi con l’ag­gressione mediatica a Dino Boffo è il risultato della somma comples­sa di più fattori. Ne vie­ne fuori uno scenario bellico, nel quale «di­venta molto difficile capire che cosa stia succedendo. Una volta, i buoni libri di comuni­cazione insegnavano che una delle possibilità di resi­stenza critica ai media consisteva nel mettere l’uno contro l’altro i messaggi che riceviamo, secondo l’aureo precetto del sentire sempre due campane. Ma nell’attuale si­tuazione di guerra anche questa semplice verifica è diventata im­possibile, perché si sa già che l’uno dirà sempre, pavlovianamente, bianco, e l’altro dirà sempre, pavlo­vianamente, nero».
Il pettegolezzo, il regno della stam­pa scandalistica, ha travalicato i confini e ha invaso ogni media? «È già da anni che i mezzi d’infor­mazione tendono a eliminare ogni differenza tra pubblico e privato. Il fenomeno coinvolge l’intera strut- tura dei media, dalla televisione generalista alle più moderne tec­nologie: i fatti di retroscena sono diventati altrettanto importanti di quelli sulla scena, per ragioni di audience – non serve fare gli ipocri­ti, sono proprio gli aspetti morbosi, 'proibiti', quelli che attraggono di più il pubblico. E il primo a essere colpito è stato un presidente del Consiglio che è al tempo stesso il più grande imprenditore mediati­co italiano. Ora, che i potenti ab­biano storie di letto non è certo u­na novità: ma era sempre esistita una sorta di convenzione per far sì che eventuali vizi privati non inter­ferissero con le pubbliche virtù, co­me mostra il caso esemplare dei Kennedy. Ma ora in Italia la situa­zione è andata fuori controllo: un settimanale come Chi diretto da Alfonso Signorini, che si è sempre occupato dei retroscena sulle attri­ci e del chi sta con chi, è improvvi­samente diventato un organo di informazione politica... Il metodo che si applicava alle veline è stato trasferito su persone che avrebbero dovuto avere tutto il diritto a essere giudicate per quello che fanno e per quello che scrivono in pubbli­co, e non certo per la loro vita pri­vata ».
Ma in Italia i quotidiani non sono sempre stati lontani da questo ge­nere, proprio dei settimanali? «E invece sono entrati nella stessa logica. Si tratta dell’infausto mo­dello proprio della televisione ge­neralista: con la scusa che ti stai ri­volgendo a tutti, hai l’alibi di poter­ti occupare di tutto. Della realtà co­me del pettegolezzo. In guerra è molto difficile tenersi equidistanti, perché da un momento all’altro può arrivarti una granata sulla te­sta e tu non sai neanche a chi dire grazie. Un po’ di silenzio farebbe bene a tutti noi: ma è molto difficile, almeno fino a quando non ci sarà una nuova stagione politica, con la voglia di occuparsi di fatti concreti. Una comunità so­ciale è fatta anche di sogni, quella cosa che serve per u­scire dalla contingenza in cui uno si trova e immagina­re un futuro; il dramma è che in Italia non si sogna più, e invece si cerca di sfregiare l’avversario».
Per questo l’obiettivo dei colpi non sono mai fatti, ma persone nella loro individualità? «Anche la personalizzazione è un retaggio della televisione, dove le i­dee non valgono nulla e contano soltanto coloro che le incarnano. Il primo errore, in questo senso, è stato l’ossessione berlusconiana, con la lotta ideologica e politica trasformata in lotta personale».
Ma i vari media – televisione, quo­tidiani, settimanali rosa, internet – non dovrebbero avere ognuno una propria specificità? «Negli ultimi anni abbiamo assisti­to a una grande rivoluzione. Un tempo l’informazione era verticale: nei giornali e nei telegiornali c’era sempre una gerarchia delle notizie, con un’agenda che assegnava a o­gni cosa più o meno rilievo. L’av­vento della Rete ha invece reso o­gni comunicazione di tipo orizzon­tale: siamo tutti sullo stesso piano, per cui il ponderato parere dell’il­lustre papirologo vale il giudizio del primo studentello che ce l’ha in antipatia».
Tuttavia, in Italia le battaglie sono state combattute sui quotidiani... «Da un punto di vista tecnico que­sto mostra due cose. Primo, che il nostro giornalismo conferma una tradizione storica molto lontana dall’indipendenza: come sempre, si mette la cavezza dove il padrone vuole. Secondo, nella stampa c’è molta autoreferenzialità, con lotte interne tra giornali e tra giornalisti, invidie, regolamenti di conti… D’altra parte, quando si è saputo che Feltri era stato richiamato a di­rigere Il Giornale con compensi straordinari, cifre totalmente fuori dal mercato italiano, tutti nel mon­do giornalistico si sono chiesti: che cosa sta per succedere?»
Non si vede nessuna via d’uscita? Magari la stanchezza del pubbli­co? «Io non sono molto ottimista. Quando si imboccano queste stra­de, quando la lotta viene persona­lizzata e si punta solo al discreto individuale, allora deve succedere qualcosa di davvero inaspettato per uscirne. Difficile invocare il fa­moso passo indietro, se tutti o qua­si scrivono con la bava alla bocca… ormai la belva è scatenata: e quan­do fiuta il sangue, tirarla via è im­possibile ».
«Avvenire» dell'9 settembre 2009

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