19 settembre 2009

Lettori in vendita?

Il semiologo Ugo Volli: «Troppa stampa italiana non serve il proprio pubblico, ma anzi lo usa per incidere sul gioco politico»
di Edoardo Castagna
«Invece di vendere infor­mazione ai propri lettori, i giornali italiani vendono i propri lettori alle forze politiche che li sostengono». Lo sguardo del semiologo Ugo Volli sul panorama dell’informazione nel nostro Paese è desolato: «In che stato versa? Versa in stato comatoso, veramente pessi­mo. Tra i tanti problemi che presen­ta, il principale è quello del ruolo che la stampa si attribuisce: non for­nire notizie a cittadini adulti in gra­do di decidere, ma essere un attore politico che, come tale, usa i conte­nuti da un lato per fare propaganda, e dall’altro per far pesare la propria forza all’interno del sistema politico. Come se non bastasse, il meccani­smo viene coltivato attraverso la mobilitazione della base sociale co­stituita dai lettori, dai collaboratori e da tutte le persone vicine ai vari or­gani di stampa, attraverso l’invito a sottoscrivere pubblici appelli».
Quello «per la libertà di stampa» lanciato da «La Repubblica» dopo essere stata querelata da Berlusconi non è forse comprensibile?
«Sono rimasto colpito assai negati­vamente dalla chiamata rivolta da Repubblica a tutti gli amici della te­stata, indicando con grande rilievo nomi e cognomi, affinché protesti­no contro la citazione in giudizio.
Come se libertà di stampa e l’inter­vento dei tribunali – il cui ruolo è proprio la tutela della libertà, oltre che la definizione dei suoi confini laddove inizia la libertà altrui – fos­sero in contrasto. Come se la libertà potesse andare al di là della verità e del diritto delle persone a difendere la propria sfera privata, al di là di qualunque possibile valutazione da parte della legge».
E tutto questo, a fini esclusivamen­te politici?
«Vedo giornali che si sono trasfor­mati in strumento di organizzazione politica della società italiana, come se fossero tutti quotidiani di partito.
La personalizzazione degli attacchi è l’ovvia conseguenza di questo profondo mutamento: la logica non è quella dell’informazione, ma quel­la dell’aggressione. Va sottolineato che né a Berlusconi né a Boffo, pur nella grande differenza delle due si­tuazioni, è stato contestato alcun e­lemento giuridico che potesse rap­presentare un impedimento al loro ruolo: a essere messa in discussione è stata la loro onorabilità individua­­le, e per farlo si sono usati argomen­ti relativi alla sfera estremamente personale della vita intima. Con due possibili significati: da un lato, è in­timidazione o ricatto; dall’altro, è propaganda politica radicata nella contumelia».
Sembra anche che si perso ogni confine di genere: i quotidiani d’informazione si confondono con la stampa scandalistica...
«Senza dubbio non è eccessivo par­lare di imbarbarimento, perché c’è stato un effettivo salto qualitativo della nostra stampa. Ci sono sempre stati, anche in passato, 'scandali' veri o presunti: però la loro eco giungeva solo di riflesso ai grandi organi informazione. Oggi, invece, ne sono diventati il fulcro e il gior­nalista di successo non è quello ca­pace di scoprire delle verità di inte­resse generale, ma quello in grado di insinuare 'verosimiglianze' più o meno legali, senza fonti che le so­stengano. Non è un caso che in que­sti tempi ci sia tanta confusione di ruoli tra politici, giornalisti e perso­naggi dello spettacolo, comici so­prattutto. Uno strano amalgama di persone che, invocando l’intoccabi­lità della libertà di stampa o del di­ritto di satira, pensano di non dove­re fornire le prove di quel che dico­no e, al tempo stesso, di essere auto­rizzati a frugare ogni aspetto della vita privata».
Vede, insomma, una tendenza ge­neralizzata?
«La deriva, a mio giudizio, investe in questo momento quasi tutto lo schieramento politico-mediatico: da La Repubblica a Il Giornale, sono tutti d’accordo nel sostituire il gior­nalismo con un atteggiamento di superiorità, da tutori della pubblica moralità. Il che per me non è solo mancanza di etica, ma anche di ca­pacità tecnica e di deontologia pro­fessionale ».
E i lettori?
«Smettono di acquistare il 'prodot­to' e si rivolgono altrove, magari al­l’informazione diffusa su internet.
Infatti negli ultimi anni i quotidiani hanno registrato un notevole calo di tiratura complessiva, ma questo non sembra preoccupare più di tan­to gli editori: tanto, i loro giornali servono non a vendere, ma a otte­nere vantaggi di altro tipo, trasversa­li, facendo leva proprio sul potere di cui dispongono».
Ma esistono davvero altri media, di­versi dalla stampa quotidiana, non piegati a questa logica?
«No: il problema del circuito media­tico nel suo complesso è che gran parte delle notizie è costituita da quanto detto o successo su un altro media. C’è un rimbalzo continuo, con i quotidiani che commentano quello che hanno visto in televisio­ne e viceversa, in un’ininterrotta amplificazione: come nelle vecchie botteghe dei barbieri, due specchi uno di fronte all’altro moltiplicano le stesse figure all’infinito».
Anche internet? «Certo, anzi: dalla Rete viene un ele­mento ulteriore, decisivo nell’evolu­zione subita negli ultimi anni dal si­stema dell’informazione nel suo complesso. La logica fondamentale del cosiddetto web 2.0, quello nel quale autori e fruitori si sovrappon­gono, consiste in un enorme abbas­samento delle barriere di accesso, fi­no a eliminare ogni distinzione tra competenza e incompetenza. In qualche modo infastidita dal sapere, la gente pensa che sia giusto, demo­cratico e opportuno dire la propria su qualunque cosa: s’impone la chiacchiera a ruota libera dove le contraddizioni non importano, le falsità non hanno peso, gli errori non si scontano».
«Avvenire» del 10 settembre 2009

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