29 settembre 2009

Lettere a Seneca, c’è la mano di Paolo: ecco le prove

di Ilaria Ramelli
Secondo Pascal e Harnack l’epistolario Seneca-Paolo fu composto in greco e poi tradotto maldestramente da un 'barbaro medioevale'. La convinzione che siano lettere scritte male, rendendo impensabile che fossero vergate da Seneca, indusse a ritenere l’epistolario non solo spurio, ma anche, in origine, greco. Come ho studiato su Aevum Antiquum 13 (2000), ne Il contributo delle scienze storiche alla interpretazione del Nuovo Testamento (Città del Vaticano 2005) e nel Novum Testamentum Patristicum, tracce di greco affiorano nel carteggio, ma colpisce che i grecismi siano solo nelle lettere di Paolo: tanto più significativo quanto inferiori esse sono, per numero ed estensione, a quelle di Seneca. Ad esempio, nell’epistola II Paolo chiama Seneca sophista, termine non sconosciuto al latino, ma con un significato diverso da quello di sapiens datogli da Paolo. Nell’epistola X Paolo usa aporia (impiegato talora in latino nel senso di 'dubbio') ma nel valore tutto greco di 'incoerenza'. Ho poi accennato a lex come 'norma d’uso', valore primario del greco nomos.
Simili indizi non sembrano prove di una primitiva stesura dell’epistolario in greco, essendo solo nelle lettere di Paolo, né l’esito di una cattiva traduzione medievale, ma tracce, in epistole latine, di una persona che pensava in greco perché lo conosceva meglio del latino: come Paolo. Anche le frasi oscure si concentrano tutte nelle pur brevi e scarse lettere di Paolo (ad esempio VIII e X). Nelle lettere di Seneca non compaiono palesi prestiti dal greco, né espressioni così dibattute. E nell’epistola VII Seneca, riferendosi alle lettere neotestamentarie di Paolo, parla di horror divinus: un falsario avrebbe detto timor Dei. Qui Seneca pare fraintendere il phobos theou paolino. Non solo i grecismi lessicali e la loro distribuzione mi sembrano significativi, ma anche quelli sintattici: quelli che sembrano costrutti di un latino tardo sono in realtà costrutti greci, trasposti in latino da uno che pensava in greco, e di nuovo colpisce che si concentrino tutti nelle lettere di Paolo. Ad esempio nell’epistola II, oltre al grecismo lessicale sophista, c’è si praesentiam iuvenis… habuissem. Ci si aspetterebbe si iuvenis adfuisset o simili; i commentatori parlano di costrutto tardivo. Ma è un grecismo sintattico: riproduce parousian echein, ben attestato nel greco classico ed ellenistico, compreso il giudaismo ellenistico, e quasi sempre seguito da genitivo. Paolo stesso nelle lettere neotestamentarie preferisce la formula parousia + genitivo di persona, ad esempio in Fil 2,12: la Vulgata rende in praesentia mei.
Nell’epistola IV Paolo usa l’identico sintagma: praesentiam tui. L’uso stesso del genitivo del pronome personale in luogo dell’aggettivo possessivo è un grecismo sintattico. E nelle lettere paoline del Nuovo Testamento ci sono molti esempi di parousia + genitivo di persona: tutte le occorrenze di questo sostantivo nelle lettere paoline assumono questa forma sintattica, la stessa che è trasposta in latino nelle lettere di Paolo dell’epistolario. È impossibile pensare che un falsario adottasse una tale sottigliezza mimetica.
Nell’epistola VI, di Paolo, anche l’espressione quibus si patientiam demus è ritenuta goffa e tarda. Ma anche questo in realtà è un grecismo: hypomonen (o anochen e makrothymian) didomi è molto ben attestato, spesso con dativo, proprio dalla prima età imperiale. Inoltre, l’analisi linguistica delle epistole di Seneca qui e delle Epistulae ad Lucilium, che essendo degli ultimi anni di Seneca risulterebbero contemporanee a queste, fa emergere congruenze stilistiche. Soprattutto l’ordine delle parole è spesso simile a quello delle lettere autentiche. Tutte queste coincidenze difficilmente possono essere attribuite a un falsario. Ma, data la loro quantità e profondità, difficilmente possono essere attribuite al caso.
«Avvenire» del 29 settembre 2009

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