24 settembre 2009

La paura di insegnare dei nuovi professori

Temono il rapporto con gli alunni stranieri e con i genitori. Elementari, il 66,9% dei maestri non è laureato
di Gabriela Jacomella
Hanno appena firmato un con­tratto di assunzione a tempo indeterminato, il che — so­prattutto di questi tempi — dovreb­be aiutare a mettere da parte una buo­na dose di pensieri e preoccupazioni. Hanno detto definitivamente addio agli anni di precariato, all’ansia da graduatorie, ai contratti che scadono con il suono dell’ultima campanella.
Eppure, gli insegnanti italiani non sono tranquilli. Li mette in ansia la difficoltà nel gestire classi dove è in aumento la presenza di bimbi e ragaz­zi stranieri, sfida affascinante ma complicata da gestire senza un’ade­guata preparazione. Li destabilizza la comunicazione sempre più zoppican­te con le famiglie, e non va granché meglio nel match con le nuove tecno­logie: alle scuole superiori, addirittu­ra il 49% riconosce di avere un rap­porto non facile con computer e Web.
E più di 2 su 5, tra le new entries che ce l’hanno (finalmente) fatta, non possiedono un titolo di laurea.
Ritratto di insegnanti in un inter­no, quello della scuola italiana ai tem­pi delle riforme che si accavallano e dei fondi che non bastano mai. Ritrat­to accurato, perché le pennellate so­no davvero molte, e fittissime: 15.071, per la precisione, pari al nu­mero dei maestri e prof che hanno (volontariamente) risposto al que­stionario di 223 domande diffuso dal­la Fondazione Agnelli in otto regioni italiane. Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia (che avevano già preso parte a una prima indagine, nel 2008); e an­cora, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche e Campania. Otto gli Uffici scolastici regionali coinvolti. Com­plessivamente, 16.000 insegnanti ne­oassunti nell’anno scolastico 2008-2009 (il 64% del totale italiano). E quasi tutti, appunto, hanno voluto contribuire con il proprio personalis­simo tocco di pennello.
Le indagini precedenti, per dare l’idea, si aggiravano di norma intor­no alle cinquemila interviste. «Aver superato i 15 mila questionari compi­lati — ammette con un certo orgo­glio Stefano Molina, dirigente di ricer­ca della Fondazione e tra i coordinato­ri del lavoro — significa di gran lun­ga ottenere la più ampia analisi sugli insegnanti mai realizzata in Italia». Non solo: «In questi anni di vacche magre, di assunzioni a tempo indeter­minato se ne sentono poche. Qui, in­vece, parliamo di 50 mila ingressi in ruolo nel 2008, 25 mila nel 2009: stia­mo parlando del più grande fenome­no italiano di immissione a tempo in­determinato nel mondo del lavoro. E il paradosso è che finora non si sape­va bene chi fossero, queste persone: il meccanismo di reclutamento è un po’ opaco, lo stesso ministero ne co­nosce la classe di abilitazione, non i titoli di studio...».
I titoli di studio, ecco. Quella lau­rea che manca, ancora, al 40,7% degli intervistati. I picchi sono, ovviamen­te, nei primi ordini di scuola: nessun «pezzo di carta» per il 75,6% dei «nuo­vi » maestri d’asilo e per il 66,9% degli insegnanti delle primarie. Il motivo? Presto detto: «Si sta raschiando il fon­do del barile delle graduatorie — è la sintesi efficace di Molina —. I neoas­sunti arrivano, per la metà, dalle gra­duatorie di concorso: ma l’ultimo è del 1999, e queste sono persone che si trovavano in una posizione così bassa da vedersi passare davanti, ne­gli anni, moltissimi altri colleghi. L’al­tra metà, invece, viene dalle gradua­torie ad esaurimento, in questo mo­mento chiuse: supplenti che hanno avuto l’abilitazione in stagioni diver­se, con regolamenti diversi». Inse­gnanti del futuro, ma già da rottama­re? Certo che no, anzi: «Stiamo par­lando di professionisti che in media hanno superato i 40 anni di età, di cui quasi 11 di precariato. E se i titoli non sono sempre brillantissimi, han­no una buona esperienza e un’anzia­nità di servizio che sopperiscono in parte alla formazione iniziale inade­guata ».
Perché poi, in questo quadro a for­ti chiaroscuri che ritrae l’ultimo batta­glione schierato nelle aule italiane, spiccano dei dati incontestabilmente positivi. «Nel corso degli anni — con­ferma Laura Gianferrari, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e coordinatrice in­sieme a Molina — abbiamo avuto la sorpresa di trovare sempre più la rap­presentazione di un lavoro che ha un’attrattività forte, che dà soddisfa­zione agli insegnanti. Nonostante al­cuni aspetti ben noti: la retribuzione bassa, il riconoscimento sociale che non viene avvertito, gli anni di preca­riato ».
E in effetti, se l’80% dei neoassunti ribadisce di aver fatto una scelta «per passione», ben il 95% — un dato in crescita rispetto al 2008 — rifarebbe la stessa scelta. I motivi di soddisfa­zione: il lavoro con i ragazzi (93%), l’interesse per la disciplina (89%), la consapevolezza della propria utilità sociale (84%). Il livello retributivo, per contro, è ritenuto soddisfacente solo nell’11,7% dei casi, mentre il rico­noscimento sociale si ferma al 31,1% — con picchi positivi al Sud: oltre il 40% in Campania, poco sotto in Pu­glia.
Il problema vero, però, è un altro.

Le nuove tecnologie
Nelle superiori il 49% dei docenti appena assunti ammette di non conoscere a sufficienza computer e Web Il giudizio «Per la prima volta chi sta in cattedra si sente fortemente inadeguato, soprattutto nel rapporto con gli allievi»
E va sotto il nome di «difficoltà nel­l’insegnare ». Una sensazione «in au­mento » e «fortemente trasversale», commenta l’economista Andrea Ga­vosto, direttore della Fondazione Agnelli. «L’impressione è che forse per la prima volta gli insegnanti italia­ni inizino a sentirsi fortemente inade­guati, soprattutto nel rapporto con gli allievi: c’è la percezione di un diva­rio generazionale, tecnologico, di vi­ta e di apprendimento, e loro non sen­tono di avere tutti gli strumenti per affrontarlo». Soprattutto, dati (nuova­mente) alla mano, nelle scuole supe­riori: il 63% degli intervistati confes­sa problemi nel gestire la multicultu­ralità in classe, il 55% non sa interagi­re come vorrebbe con i genitori. Per­sino lavorare in équipe, per il 48% dei neodocenti, è complesso.
«Il punto — prosegue Gavosto — è che il meccanismo di formazione produce una tipologia di insegnante sempre uguale a se stessa, che però inizia a rendersi conto di non essere più quello che serve ai ragazzi di og­gi ». E in questo senso, la programma­zione diventa fondamentale: «Più che annunciare tante riforme, l’obiet­tivo per il Paese dovrebbe essere inve­stire in una scuola di qualità. Sulla formazione iniziale, ad esempio: la bozza di regolamento del ministero punta molto su una preparazione di tipo disciplinare, mentre quella peda­gogica è ritenuta sovradimensionata. Bene, gli insegnanti ci stanno dicen­do esattamente l’opposto». Sarebbe il caso di prenderne atto.
«Corriere della sera» del 24 settembre 2009

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