22 settembre 2009

Il Dio degli scrittori

Parla il teologo domenicano francese Jean-Pierre Jossua, ospite a Torino spiritualità: «La letteratura è anche luogo teologico»
di Daniele Zappalà
« Quando diventa ricer­ca dell’assoluto, la poesia ritrova spesso ancor oggi le forme del linguaggio proprie della misti­ca ». È una delle conclusioni princi­pali del teologo domenicano fran­cese Jean-Pierre Jossua, già noto come condirettore della rivista Concilium, ma al contempo con­centrato da decenni su ciò che ha definito egli stesso come 'teologia letteraria'. Ne parlerà domenica prossima alle 17.30 alla Biblioteca Nazionale nel corso di Torino spiri­tualità, al via domani. In Italia, Diabasis ha tradotto La letteratura: inquietudine dell’assoluto.
Cosa intende per teologia lettera­ria?
«Si tratta di leggere teologicamente la letteratura, la quale può talora essere un luogo teologico. Sia perché degli autori d’ispirazione cristia­na vi hanno riversato la loro fede, sia nel caso di scrittori a­gnostici ma in cerca di assoluto in un al­tro modo. È possibile ispirarsi anche a que­sti ultimi autori persino per rinno­vare il linguaggio religioso. Ma si può immaginare anche un altro senso, che consisterebbe nell’e­sprimere la meditazione della fede con gli strumenti della letteratura».
Søren Kierkegaard è molto pre­sente nei suoi scritti. Perché?
«Kierkegaard, col suo itinerario esi­stenziale e la sua percezione dia­lettica della fede, ha offerto molto alle mie analisi. Pur sedotto dall’e­stetica e dalle sue categorie, Kierkegaard comprende che essa si arresta sulla soglia della fede. C’è una nuova etica nella fede, ma non un’estetica della fede. Kierkegaard si oppone alla razionalità invaden­te e onnicomprensiva di Hegel. Per l’autore danese, le categorie razio­nali ereditate dal pensiero greco non sono più adeguate ad espri­mere l’uomo e la fede».
Fra le figure della letteratura mo­derna in cerca di assoluto, quali l’hanno colpita maggiormente?
«In Francia, Marcel Proust e dei poeti come Yves Bonnefoy o Pierre Reverdy. Citerei poi, fra tanti altri, Cechov, Melville, Leopardi o Höl­derlin. Ciascuno ha un percorso o­riginale. Vi sono ad esempio scrit­tori religiosi e non cristiani, o cri­stiani ma in un modo atipico, o a­gnostici alla ricerca dell’assoluto, o già pronti all’esperienza di Dio».
Questi autori ci parlano anche dei limiti dell’uomo?
«Spesso, essi confessano l’impossi­bilità per l’uomo di un raggiungi­mento pieno dell’assoluto. Ma ta­lora esprimendo il senso di quella massima di un sufista che dice: 'Sia benedetto Dio che non ci ha dato altri mezzi di raggiungere la sua conoscenza se non l’impossi­bilità di raggiungere la sua cono­scenza'. Anche quando si crede nella prossimità di Dio, è impossi­bile una piena conoscenza. A me­no di non considerare la cono­scenza attraverso la fede come una conoscenza autentica. L’Ottocento è attraversato da personaggi reli­giosi come Hugo, Novalis o Rilke, le cui esperienze possono essere de­finite religiose senza essere sempre esperienze di fede. Altri, come Saint-John Perse, provano l’espe­rienza del sacro, cioè della presen­za di Dio nel mondo».
L’esperienza del trascendere co­mincia con un interrogativo su se stessi?
«L’interrogativo socratico resta il cammino privilegiato per una sco­perta dell’assoluto, soprattutto da quando la scienza moderna tende a ridurre il cosmo a puro fenome­no ».
Mauriac si chiedeva se Dio ha bisogno de­gli scrittori. Cosa ri­sponderebbe?
«Non oserei dirlo. E basta, in questo senso, ritornare al Vangelo. Se Dio ha bisogno di testimoni, sono i po­veri e i semplici. La te­stimonianza di Dio si esprime attraverso ciò che indica la strada della carità. Dio, dun­que, non ha bisogno degli scrittori. Ma è vero che un certo numero di scrittori sono stati capaci d’irrorare l’immaginario della fede dei propri contempora­nei. Si può dunque parlare di una loro funzione nella vita culturale del Vangelo».
Fra gli autori ottocenteschi da lei citati, figurano tanti romanzieri. Fra quelli novecenteschi, preval­gono i poeti. Un caso?
«Non prediligo un genere rispetto a un altro. Ma mi pare che la ricer­ca dell’assoluto si sia sedimentata e affermata di recente più spesso nella lirica. Ciò deve certamente a­vere un senso, ma è estremamente difficile teorizzare che la natura stessa della poesia coincida mag­giormente con una ricerca dell’as­soluto ».
L’aspirazione verso l’assoluto della poesia ha origini lontane?
«Certamente. Si pensi a Dante e a tutta la tradizione della poesia cri­stiana. Ma c’è una chiara conti­nuità nel Novecento. Nel caso della poesia italiana, si possono citare Ungaretti, Montale, Luzi, Pasolini. Anche se naturalmente ciascuno ha seguito una strada molto perso­nale ».
Lei si mostra molto attento anche alla poesia italiana novecentesca al femminile…
«Grazie a Yves Bonnefoy, ho letto un’autrice come Maria Luisa Spa­ziani. Ed ho scoperto con gioia una notevole tensione verso l’assoluto anche in poetesse come Cristina Campo e Margherita Guidacci. Si è però trattato d’incontri quasi ca­suali, data la circolazione limitata della poesia contemporanea».
Quest’odierno carattere sommer­so e quasi clandestino della poesia è un segno dei tempi?
«È difficile dirlo. Probabilmente c’è stata una ricerca formale talora ec­cessiva e sterile che ha reso la poe­sia meno accessibile, anche se l’al­ta poesia è rimasta comunque sempre a distanza rispetto al lin­guaggio utilitario e a quello stretta­mente razionale. Si può dire forse qualcosa di simile per la musica di qualità. In Francia, gli ultimi poeti davvero popolari sono stati Aragon e Prévert. Non definirei la loro pro­duzione eccelsa, ma sono stati molto veicolati dalla canzone. E in proposito, è vero che certe canzoni contemporanee possiedono una qualità poetica indiscutibile».
«Avvenire» del 22 settembre 2009

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