15 settembre 2009

Così Ulisse fondò la giustizia

Al contrario dei personaggi dominati dal destino, il protagonista dell' «Odissea» apre a Itaca la strada alla morale e al diritto
di Eva Cantarella
La lezione dell' eroe omerico: è responsabile solo chi fa il male volontariamente
«Sopporta, cuore; più atroci pene hai subito / il giorno che l' indomabile, pazzo Ciclope mangiava / i tuoi compagni gagliardi» (Odissea, 20, 18-20). Tornato in veste di mendicante nella reggia di Itaca, Ulisse impone a se stesso di controllare lo sdegno che lo prende scoprendo che le sue ancelle lo tradiscono accoppiandosi spudoratamente con i Proci, gli arroganti pretendenti alla mano di sua moglie. Vorrebbe reagire, vorrebbe vendicare immediatamente il torto, ma si trattiene. Il suo cuore obbediva, dice Omero, anche se «dentro latrava» (Odissea, 20, 23-24). Oltre alle infinite astuzie, Ulisse possiede una capacità rara nel mondo omerico: l' autocontrollo. Una capacità già dimostrata quando, prigioniero di Polifemo, aveva trattenuto il desiderio di vendetta immediata, aspettando il momento opportuno per sopraffare la forza mostruosa del Ciclope. Anche in questo Ulisse è diverso dagli altri eroi, anche in questo è l'uomo nuovo individuato in lui da Max Horkheimer e Theodor Adorno (La Dialettica dell'Illuminismo). In un mondo in cui l'eroe è colui che riesce a imporre la sua volontà grazie alla forza fisica e sociale, l'autocontrollo non è virtù necessaria per meritare il riconoscimento dello statuto eroico. L'individuo omerico attribuisce la responsabilità delle sue azioni - sempre che si tratti di azioni riprovevoli - agli dei o ad altre forze soprannaturali (la Moira, ad esempio, il destino) alle quali non può opporsi. Non solo non è capace di autocontrollarsi: non sa neppure autodeterminarsi, non percepisce ancora se stesso come un soggetto capace di agire autonomamente e liberamente. Del suo comportamento, dunque, subisce le conseguenze e si sente responsabile per una sorta di responsabilità obiettiva: Elena ha seguito Paride a Troia per volere di Afrodite, ma soffre per i lutti causati, si definisce una «cagna» e parla della sua «vergogna» (Iliade, 3, 179 180; 3, 239 242.) Eppure, in Omero esiste già una distinzione tra l'atto volontario e l'atto involontario, e una casistica della involontarietà. Oltre all' azione compiuta per volere degli dei, è involontaria quella compiuta in obbedienza a un ordine superiore, a seguito di violenza fisica, costrizione psichica o in stato emotivo o passionale. Ma questo non è tutto: in alcuni casi, chi ha agito involontariamente non subisce le conseguenze delle sue azioni, in quanto non è colpevole, non è aitios. Un termine fondamentale per seguire la strada che portò i greci alla scoperta del soggetto e del concetto di responsabilità morale e successivamente giuridica. Aitios infatti, in Omero, ha due significati: quello più diffuso di «causa» in senso oggettivo, esclusivamente legato al rapporto causa-effetto tra azione ed evento, e quello meno diffuso di «responsabile», in quanto «colpevole». Limitiamoci ad alcuni esempi: Agamennone manda gli araldi a prelevare Briseide nella tenda di Achille: non sono loro i colpevoli (epaitioi), il colpevole è Agamennone, che li ha inviati (Iliade, 1, 335 336). Femio, l'aedo che vive alla corte di Itaca, ha cantato per i Proci, ma costretto, «per necessità»: dunque è «incolpevole» (Odissea, 22, 350 356). Agamennone dichiara di non essere aitios dei mali subìti dai Greci a causa del suo comportamento: lo abbiamo visto, ha sottratto Briseide ad Achille a causa di Ate, che lo ha fatto cadere in uno «stolto errore» (Iliade, 19, 85 89). In Omero, insomma, esiste già il concetto di «colpevolezza» e di «responsabilità». Di questo concetto gli uomini e le donne omerici hanno una coscienza ancora prevalentemente irriflessa. Per trovare una sistematizzazione bisogna aspettare altri tempi, e soprattutto altre fonti. La poesia epica non è la sede per le riflessioni teoriche. Per queste bisogna aspettare i filosofi: Gorgia, più precisamente, cui si deve la prima, celebre riflessione in materia, sotto forma di elenco delle ragioni per le quali Elena non può essere ritenuta colpevole della sua fuga a Troia. La fuga di Elena, dice Gorgia, fu incolpevole, perché determinata da una causa che la rese inevitabile, e perciò involontaria. Le possibili cause che determinarono la sua azione, infatti, furono le seguenti: la volontà del caso, una decisione degli dei, un decreto della necessità, la violenza, la persuasione delle parole, o eros, l'amore (Encomio di Elena, a cura di Guido Paduano, Liguori 2004). Quale fu, poi, fra queste, la causa che indusse Elena a partire, non ha alcuna rilevanza. La presenza di una qualunque di esse è sufficiente a far ritenere che Elena «non fu colpevole», ma «vittima del caso»: è colpevole, infatti, solo l'atto nel quale vi è hamartia, vale a dire, appunto, «colpa». Come spiegare la presenza di concetti come questi in un mondo in cui non esiste un libero arbitrio? A prima vista, può sembrare una contraddizione. Ma non si tratta di questo: si tratta, invece, di elaborazione e mutamento. Si tratta delle profonde trasformazioni maturate nei secoli in cui, prima della nascita della polis e della introduzione della scrittura, l'individuo andava faticosamente conquistando la coscienza della propria libertà e la conseguente percezione di se stesso come «soggetto». In quei secoli gli aedi (unico strumento di comunicazione e trasmissione della cultura, intesa nel senso più ampio, antropologico del termine) raccontavano al loro pubblico storie di uomini e di dei che riflettevano quella lenta, faticosa conquista. E Omero, quando scrisse l'Iliade e l'Odissea dando forma definitiva ai loro canti e poeticamente trasformandoli, registrò questo lungo travaglio di pensiero, di cui riporta al tempo stesso le posizioni più tradizionali e le acquisizioni più avanzate. Ecco un' altra delle ragioni per cui l'Iliade e l'Odissea sono testi fondamentali per la nostra storia: perché documentano il momento in cui, in Grecia, andarono formandosi i moderni concetti etici. Perché raccontano la storia di un individuo che comincia lentamente a credere nella sua possibilità di autodirigersi, o, quanto meno, intuisce di avere questa possibilità. Di questo mondo Ulisse è l'antesignano e l'eroe. È il modello alternativo del capo, l'uomo nuovo capace di autocontrollo, che quando riacquista il potere sul suo oikos e punisce i dipendenti che lo hanno tradito punisce solo chi ha agito volontariamente. Con lui, si profila un mondo nel quale, di lì a poco, la nascita del soggetto consentirà alla polis l' introduzione di un principio fondamentale nell'amministrazione della giustizia: quello che pone la colpevolezza alla base della responsabilità.
«Corriere della Sera» dell'11 agosto 2008

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