17 settembre 2009

Cesare: processo a un dittatore (1)

Augusto e Cesare: un’eredità complessa
di Giuseppe Zecchini
La sua ombra sull’impero
L’opinione prevalente, secondo cui c’è discontinuità tra Cesare e Augusto ed è questi in tutto e per tutto il fondatore del principato, è ben consapevole che il punto di partenza nel rapporto tra i due gioca nettamente a suo sfavore.
Infatti il giovane Caio Ottavio nel 44 poté costruire la sua ascesa al potere sul nome di Cesare, da lui ereditato attraverso l’adozione, e sulla fedeltà degli amici di Cesare, Balbo, Oppio, Mazio e altri, prodighi sia di consigli, sia di finanziamenti. Grazie al proprio nuovo nome Caio Ottavio, divenuto Caio Giulio Cesare Ottaviano, si appellò ai soldati del padre adottivo e ne guadagnò il decisivo appoggio, che lo rese un «signore della guerra» non inferiore a Marco Antonio; grazie all’adozione egli poté invocare le ragioni cogenti della pietas per ispirare la propria azione politica, indirizzata in un primo tempo esclusivamente alla vendetta contro i cesaricidi; infine sempre grazie all’adozione dagli inizi del 42, quando Cesare fu proclamato ufficialmente divus Iulius , egli si trovò ad essere figlio di un dio, una condizione davvero unica. Fino al 30 e fino al termine delle guerre civili richiamarsi al proprio padre adottivo e alla sua eredità politica fu dunque per Ottaviano un’imprescindibile necessità. Tuttavia dopo il suo rientro a Roma nel 29 Ottaviano era atteso da ben 43 anni di governo, durante i quali egli si sarebbe progressivamente staccato dall’eredità cesariana e avrebbe realizzato un compromesso tra la sostanza monarchica del suo potere e la conservazione quasi maniacale delle forme repubblicane e del ruolo centrale del Senato: il percorso di Ottaviano, nel frattempo diventato Augusto, costituirebbe allora una graduale evoluzione (o involuzione) dalle posizioni estreme di Cesare a quelle moderate di Cicerone, che si sarebbe così preso una clamorosa rivincita postuma sul suo rivale. Prove di questa evoluzione sarebbero la configurazione repubblicana dei suoi poteri (potestà tribunizia e imperio proconsolare), la rinuncia alla guerra contro i Parti e da ultimo a ogni forma di espansionismo, l’italocentrismo, la diffidenza verso l’apparato militare, la restaurazione morale e religiosa, la stessa scarsa fortuna di Cesare nella cultura dell’età augustea, la volontà di affidare al giudizio del Senato la sua opera attraverso la divinizzazione postuma, che appunto solo il Senato poteva decretare. Il dossier è certo imponente, ma non esente da obiezioni. Sul piano istituzionale la costruzione del principato deve alla continuità tra Cesare e Augusto almeno due aspetti assai rilevanti come la fusione in una sola persona dell’autorità profana (dittatore o princeps) e di quella sacrale (pontefice massimo), ancora ben distinte nel pensiero di Cicerone, e come la configurazione della monarchia secondo lo schema gentilizio della successione per legami di sangue. In politica estera la fronda interna alla stessa famiglia di Augusto volle creare un’artificiosa contrapposizione tra i grandiosi progetti cesariani di conquiste in Oriente e il loro successivo abbandono, ma l’intenzione di Cesare era solo quella di consolidare i confini orientali, non di invadere la Partia; sia Cesare, sia Augusto vollero espandere il dominio di Roma verso l’Europa barbarica, anche se il primo, dopo la conquista gallica, aveva indicato la Britannia quale prossima meta, mentre il secondo scelse la Germania. L’italocentrismo di Augusto, che fondava la sua autorità sul «consenso dell’Italia intera», ha il suo preciso antecedente nella intuizione di Cesare di legittimare il proprio potere nella guerra civile contro il Senato sulla base dell’«autorità dell’Italia».
Riguardo all’esercito, Augusto era ben consapevole che sul suo lealismo si reggeva la dinastia imperiale, ma, a differenza di Cesare, valutava anche i pericoli insiti in questo stretto rapporto. Sul piano etico e religioso Cesare fu zelante pontefice massimo e si fece conferire la nuova carica vitalizia di «prefetto dei costumi», che lo rivela sensibile alle esigenze di un ricupero dell’antica moralità; anche sul piano culturale è importante sottolineare la continuità tra i due almeno in ambito urbanistico. Infine la divinizzazione postuma fu un traguardo da entrambi condiviso: Cesare lo preparò scrupolosamente, mentre era ancora in vita, Augusto poté affidarlo al Senato con tranquilla fiducia. Ora tutti questi elementi inducono a ripartire tra padre e figlio i meriti e le responsabilità nell’edificazione del principato e a «dare a Cesare quel che è di Cesare», senza per questo sminuire il ruolo di Augusto.
Tuttavia la breve durata della dittatura di Cesare e la sua morte improvvisa e violenta hanno reso increduli sulla sua capacità di incidere stabilmente nel passaggio dalla Repubblica al Principato e comunque di influire sul futuro Augusto. Si sottovaluta così l’intermediazione insostituibile degli amici di Cesare, quei collaboratori del dittatore scomparso, che furono custodi gelosi della sua eredità: Balbo, Oppio e Mazio già nel 44-43, ma poi anche Planco nel suggerire il cognomen di «Augusto», Pollione e Calvino nel proseguire e completare i progetti culturali e urbanistici di Cesare. Proprio la permanenza di questi uomini al fianco di Augusto costituisce il trait d’union necessario per comprendere come l’influsso di Cesare, delle sue idee e dei suoi disegni poté estendersi ben oltre le Idi di marzo del 44 ed essere per il princeps una presenza talvolta ingombrante, spesso assai feconda, in ogni caso costante e ineliminabile: la creazione del principato non fu opera di un uomo solo.
«Avvenire» del 17 settembre 2009

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