24 settembre 2009

Alle Sanaa d'Italia dobbiamo una risposta di civiltà

I modi dell'integrazione necessaria
di Carlo Cardia
La morte di Sanaa, uccisa dal padre per aver fatto delle libere scelte affettive, ha assunto i caratteri di una tragedia-simbolo della globaliz­zazione e dell’incontro tra i popoli. Questo in­contro è facile quando i popoli si parlano da lon­tano, ed è necessario per rendere l’umanità una vera famiglia in cui tutti i membri abbiano egua­li diritti. Diviene difficile quando i popoli trasmi­grano, le tradizioni si confrontano sullo stesso ter­ritorio, quando si intrecciano livelli evolutivi di­versi. Sanaa è il soggetto innocente e più debole che ha pagato l’egoismo più feroce di chi l’ha col­pita, ma anche l’indifferenza di altri, e chiede a tut­ti noi una presa di coscienza di verità che a volte non vogliamo dirci. Ci sono persone, tradizioni, modi d’intendere le religioni, che al primo posto della scala dei valo­ri non pongono la vita e la dignità della persona, ma restano legate a logiche di sopraffazione, di crudeltà, fino all’esaltazione della violenza estre­ma. Lo sappiamo e lo vediamo in tutto il mondo, con regimi totalitari che fanno uso quotidiano della violenza contro grup­pi etnici e nazionali, con fondamentalismi che ali­mentano persecuzioni reli­giose, in modo speciale contro il cristianesimo e i cristiani. A queste tragedie dobbiamo dare una rispo­sta civile e internazionale con il riconoscimento e la difesa dei diritti umani fon­damentali per tutti e do­vunque. Ma anche con la pratica dei principi cristia­ni che chiedono rispetto degli altri, amore per il pros­simo, amore per la vita, e che portano affinamento spirituale e civile.
Ancor più abbiamo il dovere di parlare e di inter­venire quando la violenza si manifesta in modo così atroce in casa nostra, nel mondo dell’immi­grazione, senza tacere per malcelato timore o smi­nuire i fatti per sottintesi opportunismi. La stra­ziante tragedia di Sanaa nasconde una realtà di soggezione e subalternità delle donne nelle pie­ghe dell’immigrazione che non possiamo na­scondere o fingere di non vedere, così come le pa­role della madre di Sanaa che ha giustificato l’uc­cisione della figlia appaiono terribili e feriscono il cuore di ogni genitore. Il primo compito dello Stato, di tutti noi, è evitare che le comunità del­l’immigrazione divengano comunità chiuse, con leggi diverse, con gerarchie interne dispotiche. Anche perciò è giusto chiedere agli esponenti di queste comunità di intervenire, condannare tali gesti, parlare di diritti che non sono comprimibi­li da nessuno, in nessun momento. Come c’è da sperare che nei prossimi mesi qualche magistra­to non giustifichi in qualche modo il gesto omi­cida con qualche eccezione di multiculturalità, sulla scia di sciagurati precedenti giurispruden­ziali. Si è detto che l’uccisione di Sanaa non ha nul­la a che vedere con la religione. In parte può es­sere giusto, ma non è sufficiente a risolvere il pro­blema, bisogna riconoscere anche che la religio­ne islamica è utilizzata da qualcuno per legitti­mare questo o altri gesti, intollerabili in una so­cietà rispettosa della dignità della persona.
Quanto accaduto, inoltre, pone allo Stato e alle i­stituzioni pubbliche la questione centrale del­l’integrazione e dei modi per realizzarla. L’inte­grazione è necessaria, ma è una meta da rag­giungere, non è già oggi una realtà per la maggior parte degli immigrati. Questo risultato non lo si raggiunge a parole, o con provvedimenti esclu­sivamente securitari, ma coinvolgendo le comu­nità degli immigrati in un processo di incontro, di dialogo, nel quale esse assumano anche pre­cise responsabilità per far progredire costumi, mentalità, comportamenti, in chi viene da lon­tano, conosce arretratezze, ha sensibilità diverse su problemi cruciali della convivenza civile. Bi­sogna perciò fare ogni sforzo e dar seguito a ogni impegno, anche in sede istituzionale, perché il processo evolutivo vada avanti. Qui può celarsi il punto di non ritorno di una morte orribile co­me quella di Sanaa, che chiama in causa i nostri sentimenti, i principi più elementari di una so­cietà cristiana, ma chiede anche di coinvolgere la politica e i suoi protagonisti, perché il proble­ma dell’integrazione sia affrontato con intelli­genza e coraggio. Senza impegnarsi, tutti insieme, per raggiungere questo obiettivo rischiamo che si creino delle 'ter­re di nessuno' ove valgono leggi aliene e ingiuste, ove avvengono fatti mostruosi, che poi finiscono semplicemente in cronaca.
«Avvenire» del 23 settembre 2009

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