30 settembre 2009

Occidente, il tempo del silenzio

Parla lo psichiatra Eugenio Borgna: «Le emozioni più profonde dell’uomo oggi sono travolte dalla fretta e dal cinismo»
di Marina Corradi
Lo psichiatra e scrittore Eugenio Borgna dedica il suo ultimo sag­gio (Le emozioni ferite, Feltri­nelli) alle emozioni. Che sono, scri­ve, «anche portatrici di conoscenza: di una conoscenza che ci trascina nel cuore di esperienze di vita irraggiun­gibili dalla conoscenza razionale». Già questa chiave, di una conoscen­za attingibile al di fuori della pura ra­zionalità, colpisce.
Ma, professore, perché le emozioni di cui lei parla sono «ferite»?
«Perché – spiega Borgna – le emo­zioni più profonde e luminose del­l’uomo oggi rischiano di essere tra­volte dalla fretta e dal cinismo. Fan­no “perdere tempo”, non sono pro­duttive, interrompono quella mac­china micidiale per cui bisogna “rea­lizzare”, senza fermarsi a riflettere. E­mozioni ferite sono spesso quelle dei più giovani, bruciate dal cinismo che colpisce chi voglia uscire dagli argi­ni della razionalità tacitamente im­posti dagli adulti».
Occorre dare voce alle emozioni in­teriori. Lei scrive che le parole tut­tavia possono essere «soglie pietri­ficate » oppure «scialuppe» che sal­vano. Quando e quali parole sono strumento di salvezza?
«Ci sono parole che affollano le no­stre giornate, ma esprimono unica­mente le nostre individuali istanze, e diventano solo cascate di rumore. Le parole creative invece sono quelle che nascono in noi dall’urgenza di dire ciò che siamo, dentro a una re­lazione: e dunque parole tese all’al­tro. Parola che salva è solo quella che tende all’altro. Solo questo accento divide le parole terrificate da quelle che liberano. Poi, per fondare una re­lazione autentica, la relazione deve essere il più possibile simmetrica. La asimmetria fra il dolore e la gioia in chi parla e in chi ascolta va resa me­no aspra nel com-patire, nel condi­videre la sofferenza».
Lei parla, nel libro, di silenzio. An­che il silenzio può essere un dialogo?
«Esistono tanti tipi di silenzio. E c’è un silenzio interiore da cui nascono parole che di questo silenzio porta­no il sigillo, inteso come timbro di immediata intuizione, di contem- plazione dell’essenziale. Nel silenzio contemplativo è possibile cogliere ciò che è essenziale dire a chi ci a­scolta ».
Come maestra di silenzio lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta ad Auschwitz che ha lasciato le sue in­tense «Lettere» e il «Diario». La Hil­lesum che scriveva, mentre il nazi­smo attorno a lei dilagava: 'In me c’è un silenzio sempre più profon­do. Lo lambiscono parole che stan­cano, perché non riescono a espri­mere nulla”».
«Sono stato folgorato da Etty Hille­sum. Ciò che ci ha lasciato rimanda a quell’infinito che possiamo coglie­re solo se sfuggiamo alla ghigliottina della fredda analisi razionale, a quel­l’infinito che possiamo vivere solo se non lo riduciamo a qualcosa di cal­colabile in senso positivistico. È l’in­finito leopardiano, che fa cogliere un’altra immagine della realtà: come se le ragioni del cuore aprissero oriz­zonti più ampi di quelli della ragio­ne calcolante'».
La Hillesum scrive di un «pozzo mol­to profondo» che avverte in sé, a cui attingere, ma che spesso è «coperto da sabbia e sassi». L’infinito abita in noi?
«“In interiore homine habitat veri­tas”, dice Agostino. Dentro ciascuno di noi esistono fonti inesauribili di a­more e solidarietà. Fontane sorgen­ti, coperte però dai detriti dell’abitu­dine, della fretta, della incapacità del­la preghiera. Perché la preghiera in cosa consiste se non in parole riem­pite di silenzio, che ci immettono in un dialogo infinito, in sterminati o­rizzonti? Il pozzo è in noi, colmo di acqua freschissima; ma è contami­nato dalla paura di guardare dentro di noi».
E come si fa, a ritrovare questo poz­zo?
«Se crediamo in certi orizzonti di sen­so, con fatica possiamo cercare di a­deguarci alle nostre perdite, alle no­stre sconfitte, in una prospettiva se si vuole anche mistica: che allarga i­stantaneamente i confini della no­stra capacità di partecipare il senso del vivere e del morire. Occorre dun­que ascoltare fino in fondo noi stes­si, anche nel dolore e nella sconfitta. E ascoltare le parole della grazia – poi­ché tutto è grazia infine, come scri­veva Bernanos».
Etty Hillesum nel lager trova co­munque, prodigiosamente, la gioia. Semplicemente in «uno spicchio di cielo». Che cos’è questa gioia, pro­fessore – vorremmo dire quasi, «che roba» è?
«La gioia di Etty Hillesum è la spe­ranza incarnata. La speranza, in sé, è qualcosa che ancora non c’è, pur già illuminando il futuro. La gioia di cui parliamo invece è speranza già in at­to, che prescinde dalle tre dimensio­ni agostiniane del tempo, passato, presente, futuro. La gioia vive in un presente che Agostino chiama eter­nizzato. Mentre la felicità ha bisogno di presente e di futuro, la gioia nel suo presente eternizzato cancella an­che le impronte della morte».
Don Giussani parlò in un suo libro di «istante consistente».
«Appunto: pur essendo il presente i­nafferrabile, l’istante consistente, il presente della gioia diventa la som­ma misteriosa, ma aperta all’infini­to, di ciò che siamo. Quando mesi fa all’isola di San Giulio ho assistito al “sì” di una giovane benedettina, cui il vescovo chiedeva se era pronta a lasciare tutto, ho colto nei suoi occhi abissi di grazia e di mistero, in una gioia e una apertura all’infinito che le parole non bastano a descrivere».
La gioia come speranza incarnata. Ma, professore, la speranza incar­nata per i cristiani è Gesù Cristo...
«È come se in particolari occasioni, per grazia, potesse essere dato a un essere umano la percezione di que­sta speranza incarnata. La grazia del­la gioia piena: per cui Etty Hillesum in partenza per Auschwitz vede infi­ne squarciarsi le tenebre e la morte».

«Avvenire» del 30 settembre 2009

Dietro la grande vetrina cinese una società che preme per i suoi diritti

Il sessantesimo anniversario della repubblica Popolare
di Bernardo Cervellera
Domani la Repubblica popolare compie 60 anni. Le feste preparate in Cina saranno ancora più solenni di quelle dei Giochi olimpici, un osanna allo splendore raggiunto dal Paese sotto la guida del Partito comunista (Pcc). La cerimonia in piazza Tiananmen prevede un discorso del presidente Hu Jintao e una mastodontica parata militare, con armamenti e tecnologie missilistiche 'nazionali'. Ma la popolazione di Pechino non potrà prendervi parte. «Per questioni di sicurezza» gli abitanti devono restare in casa, non devono invitare amici, non devono neppure affacciarsi ai balconi durante la parata. Sempre per motivi di «sicurezza», è vietato fare volare piccioni addomesticati e aquiloni. Almeno 800mila 'spie' sono sguinzagliate nella capitale per vigilare su tutto: il giorno di festa si tramuta in uno stato di assedio, in cui il Pcc si difende dai suoi concittadini. I membri anziani del Partito sono delusi: il Pcc non è più amato come un tempo; in 60 anni si è trasformato da avanguardia sociale a oppressore; è divenuto un’oligarchia che usa l’economia per mantenere il dominio politico e usa quest’ultimo per accrescere i suoi benefici materiali. Certo, sono evidenti i grandi successi: una crescita del Pil a due cifre per decenni; città divenute metropoli avanzatissime; commercio globale. Ma sono evidenti pure i grandi fallimenti: una società in cui lo Stato controlla oltre il 70% dell’economia, frenando la creatività e garantendo promozioni e favori senza alcun merito; diffusa corruzione, che arriva a sottrarre allo Stato fino al 3% del Prodotto interno lordo; mancanza di sostegno sociale a poveri, pensionati, disoccupati; strutture sanitarie ed educative allo sfacelo; genitori che mettono in vendita i loro organi per pagare l’università ai figli; inquinamento, soprusi, sequestri di terre e di case da parte di membri del Partito. La svolta è avvenuta con Deng Xiaoping, che ha voluto le riforme economiche del Paese, le 4 modernizzazioni (esercito, scienza, agricoltura, industria), bloccando le riforme politiche e soprattutto 'la quinta modernizzazione': la democrazia.
Nel bene e nel male, la Cina di oggi è frutto di questo handicap: uno status invidiabile dal punto di vista economico; una condizione da paria sui diritti umani. Ancora dopo 30 anni dalle riforme di Deng, il Paese non gode di libertà di stampa, di associazione, di parola, di religione; i poteri esecutivo, giudiziario, legislativo sono tutti sotto il controllo del Pcc.
Hu Jintao continua sulla stessa linea, esaltando la «sicurezza» e frenando i tentativi di introdurre la «corrotta democrazia occidentale». Eppure, il popolo non si rassegna. Lo scorso anno vi sono stati oltre 100mila 'incidenti di massa', ossia proteste di centinaia o migliaia di persone che chiedono giustizia per soprusi, per salari non pagati, per l’inquinamento o sequestri di terreni. Tali 'incidenti' hanno portato a incendi di sedi del Partito e della polizia, a scontri a fuoco, arresti e vittime. Per salvare la sua supremazia, il Pcc continua a imprigionare e a far morire la gente del popolo, proprio quel 'popolo' cui appartiene la 'Repubblica popolare cinese' fondata 60 anni fa. E 'fra il popolo' è nata in questi decenni una società civile sempre più attenta ai propri diritti: attivisti, giornalisti, avvocati, consumatori, madri, impiegati denunciano le malefatte dei quadri del Partito; si appellano per la salute dei loro figli avvelenati (come nel caso del latte alla melamina); difendono le loro prerogative sulla proprietà; affermano il diritto alla libertà religiosa; esigono di votare per esprimere la proprie preferenze a favore dell’uno o dell’altro leader. Molti di loro vengono messi in prigione, ma solo ascoltando questo popolo la Cina potrà avere un futuro stabile. Alla crescita della società civile hanno contribuito anche molte vittime della persecuzione religiosa. Fin dai tempi di Mao, personalità cristiane che lavoravano per il popolo – e che all’inizio avevano perfino guardato con simpatia l’arrivo dei comunisti – si sono trovate a resistere alla 'divinizzazione' del potere, salvaguardando la libertà di coscienza.
Grazie a cristiani cattolici e protestanti sta crescendo una coscienza sociale che pone al centro la persona con i suoi diritti inalienabili e non lo Stato (o la supremazia del Partito).
Personalità come Gao Zhisheng, Liu Xiaobo, Han Dongfang, Hu Jia hanno scoperto la fede cristiana come la base del valore assoluto della persona, come la forza della loro dissidenza e della difesa dei diritti umani.
«Avvenire» del 30 settembre 2009

29 settembre 2009

Russia, la guerra della memoria

Con i Paesi dell’ex-Urss è in corso un conflitto di interpretazione del passato: dalle fosse di Katyn ai Paesi baltici. Putin esalta la successione delle conquiste moscovite, altrove rimuovono tutti i segni dello stalinismo.
Di Fabrizio Rossi
Ora «Memorial lancia un appello per una memoria comune
Tra la Russia e i paesi dell’ex Urss è in corso una strana guerra. Senza armi da fuoco, bombe o eserciti. Una guerra combattuta a colpi di interpretazioni del passato, una 'guerra delle memorie'. A lanciare l’allarme è un appello firmato dall’associazione russa 'Memorial' (da vent’anni impegnata nel promuovere la memoria storica, in particolare del periodo sovietico), recentemente pubblicato in Russia e ora ospitato nel nuovo numero della rivista La Nuova Europa.
Ricordando e interpretando a modo proprio la storia del secolo scorso, che (tra rivoluzioni, colpi di Stato, guerre mondiali, totalitarismi e stermini di massa) ha lasciato «ferite profonde e mai rimarginate nella memoria di tutti i paesi dell’Europa Orientale e Centrale», ogni popolo - denuncia l’appello - si è costruito un suo XX secolo. Il dibattito sulla storia si è così trasformato in un «conflitto delle memorie», che non coinvolge solo studiosi o addetti ai lavori ma anche politici in cerca di facili strumentalizzazioni.
Basti pensare a Katyn’, appena presentato a Cannes dal regista Andrzej Wajda, che sta suscitando numerose polemiche in Russia; il film prende il nome da uno dei luoghi in cui, nella primavera del 1940, la polizia segreta di Stalin fucilò oltre 20.000 soldati polacchi. Una pagina tragica della seconda guerra mondiale, sempre negata dall’Urss (fino agli anni ’90 ne addossava la colpa ai nazisti), che oggi potrebbe costare caro alla Russia: il 5 giugno il tribunale 'Chamovniki' di Mosca stabilirà se riabilitare i polacchi trucidati, consentendo così ai parenti di richiedere un risarcimento (che, secondo alcune indiscrezioni, potrebbe raggiungere anche un milione di dollari per ogni vittima). Gli incidenti scoppiati a Tallinn nella primavera 2007, per la decisione di rimuovere dal centro il monumento al soldato sovietico, sono un altro caso esemplare di memorie in conflitto: ciò che per i russi rappresenta la liberazione, nel 1944, dei Paesi Baltici dai nazisti, agli estoni ricorda invece la riannessione del loro paese all’Urss e una nuova occupazione. Hanno diritto alla memoria i soldati dell’Armata Rossa che hanno sparso il sangue combattendo contro il nazismo?
Nessuno può negarlo. Allo stesso modo, però, hanno diritto a una propria memoria anche i lituani, lettoni ed estoni che furono mandati in lager o fucilati dai 'liberatori' sovietici. Entrambe le memorie sono ugualmente valide, di qui lo scontro.
In altri casi, sembrano valere due pesi e due misure. Per esempio, mentre appena un anno fa la Russia accusava le autorità di Tallinn di violare i resti dei caduti trasferendo il monumento, oggi è più pronta a chiudere un occhio se le ossa di altri «militi ignoti» dell’Armata Rossa si trovano sul tracciato di un suo gasdotto come il Nord Stream (che collegherà Russia e Germania passando per il fondale del Mar Baltico). Qui e, in particolare, nel Golfo di Finlandia nel 1941 la flotta sovietica si è scontrata più volte con quella nazista, tanto che queste acque sono state definite da alcuni storici «il più grande cimitero navale del mondo».
Ciononostante gli interessi sono interessi e i lavori si faranno ugualmente, alla faccia del tributo della memoria ai caduti.
Così, mentre i paesi dell’ex Urss s’illudono di chiudere i conti col passato semplicemente additando tutte le proprie sofferenze all’attuale Russia, quest’ultima - osserva l’appello di 'Memorial' - non ha trovato niente di meglio che alimentare «il mito patriottico-imperialista sovietico» (come si è visto nella parata in pompa magna dello scorso 9 maggio), rivisitando la propria storia come «una serie di gloriose ed eroiche conquiste». Non è un caso che Putin, alla vigilia del passaggio di testimone, abbia disposto la pubblicazione di una monumentale Storia della seconda guerra mondiale (commissionata, guarda un po’, all’attuale ministro della Difesa Anatolij Serdjukov), né che Medvedev abbia da subito dedicato tanta attenzione proprio ai veterani della guerra, promettendo l’alloggio gratuito. Il potere pensa che solo così potrà compattare una società sempre più ignorante rispetto al proprio passato (come denuncia anche un recente sondaggio del Centro russo Vciom); dal canto suo, con maggior senso critico 'Memorial' mette in guardia: «Non le grandi conquiste o le grandi catastrofi in quanto tali, ma proprio la responsabilità civile per la propria storia rende un popolo una nazione». Anziché limitarsi alla ricerca dei colpevoli, quindi, 'Memorial' invita a «una seria presa di coscienza del passato», annunciando la nascita di un Forum storico internazionale: «una sorta di piattaforma di discussione» (aperta a organizzazioni sociali, centri di ricerca, enti culturali e singoli studiosi) per promuovere «un permanente scambio di opinioni intorno agli avvenimenti storici conflittuali del XX secolo». Non si tratta di cedere al relativismo, rinunciando alla propria memoria. Ma di comprendere la verità altrui «per completare e arricchire la propria visione del passato», senza puntare il dito.

L’APPELLO
Mosca: un monumento per le vittime di Stalin
Ieri a Mosca numerosi intellettuali russi, ai quali si è aggiunto Mikhail Gorbaciov, hanno chiesto che venga eretto un monumento alle vittime dello stalinismo. In un documento comune i firmatari rilevano che in Russia «praticamente non vi è famiglia che non abbia sofferto per le repressioni staliniane» e stigmatizzano i tentativi di riabilitare Stalin come «grande condottiero». L’appello è sottoscritto da noti scrittori e letterati, come Evgenij Evtushenko, Andrei Voznesenskij, Bella Akhmadulina, Daniil Granin. Gorbaciov ha proposto che al terrore staliniano venga dedicato anche un museo, che ha suggerito di installare nel vecchio carcere delle ' Butyrki'.
«Avvenire» del 5 giugno 2008

Tanti morti poche verità

Di Giampaolo Pansa
I killer rossi e neri parlano di continuo sui giornali e in tv. Ma non c'è storia senza memoria limpida I terroristi in cattedra, liberi ma non di mentire. Diceva così il titolo di un articolo di Andrea Casalegno, pubblicato il 10 maggio 2008 sul 'Sole 24 Ore'. Il figlio del giornalista assassinato dalle Br a Torino scriveva dopo il monito di Giorgio Napolitano, molto netto nel condannare che i killer rossi e neri stiano di continuo sui media stampati e in tivù come maestri di vita. Andrea concedeva agli ex della lotta armata una sola possibilità: di parlare a condizione che dicano la verità.
Dire la verità? Ecco una pia illusione. I terroristi in libertà non la diranno mai. Non l'hanno detta quando sparavano o stavano in carcere. Perché dovrebbero dirla oggi che li abbiamo rimessi all'onor del mondo? Del resto, per limitarci alla storia del terrorismo più lungo e sanguinoso, quello delle Brigate Rosse, non hanno fatto altro che mentire. Con la menzogna diffamavano le vittime e ne motivavano l'assassinio. In questo modo, chi veniva ucciso o invalidato era colpito tre volte: con le pallottole, con il volantino di rivendicazione e con l'alone di sospetto che subito lo avvolgeva. Riassunto da parole che ho ascoltato troppe volte: "Se gli hanno sparato, una ragione ci sarà.".
Ma la guerra delle Br ha avuto anche un'altra faccia. È quella della politica e dei media che dovevano spiegare e raccontare il terrorismo brigatista. Pure su questo versante, per faziosità ideologica o per stupidità, si sono dette più menzogne che verità. Prima si sostenne che erano fascisti. Poi che erano mercenari al servizio della Confindustria. Quindi che erano agenti della Cia americana o del Kgb sovietico. Infine che si trattava di golpisti messi in azione dalla Loggia P2. Rileggere certe cronache lascia stupefatti. La stampa comunista definiva Curcio "un congiurato nero". Anche i socialisti mentivano: l''Avanti!' scriveva che dietro la sigla Br c'erano neofascisti e criminali comuni. Meglio non parlare della stampa laica, democratica e antifascista. Quando si scoprirono i primi covi brigatisti, spiegò che erano finti: allestiti dalla questura di Milano per far contento qualche magistrato.
Ancora oggi ci sono giornalisti che rifiutano di vedere il contesto di crimini che pure li riguardavano da vicino. È il caso di Arrigo Levi, un collega esperto, che dirigeva 'La Stampa' quando le Br assassinarono Casalegno, il suo vice direttore. In quei giorni, Eugenio Scalfari, che allora guidava 'Repubblica', mi mandò a Torino per raccontare quel delitto. Dopo il primo servizio, Scalfari mi chiese di capire come la pensassero gli operai della Fiat. E così andai al cancello 2 della Mirafiori, in corso Tazzoli, per interrogare chi usciva da un turno e chi ne iniziava un altro. Raccolsi molti giudizi disparati e scelsi di pubblicarne un campione. Quindici erano di condanna netta del terrorismo, undici incerti, due indifferenti e quattro rivelavano adesione o simpatia per le Br. Uno di questi diceva: "Scrivi: dieci, cento, mille Casalegno. A me mi vanno bene".
A Levi quel servizio non piacque per niente. Pubblicò un editoriale arrabbiato per sostenere che volevo fare della sensazione e che avevo dato un ritratto "profondamente falso" di Torino e della sua reazione all'attentato. Storie vecchie, penserà qualcuno. Ma non è così. Ancora oggi, Levi, intervistato proprio da 'Repubblica' il 6 maggio 2008, ripete che avevo sbagliato a preparare quell'articolo. E ricorda che mi fece rispondere da Furio Colombo, "il quale scrisse che Pansa non aveva capito nulla del sentimento che animava la città".
L'articolo di Colombo non lo ricordo. Ma rammento bene che cosa vidi a Torino in quei giorni. A Mirafiori e in altre fabbriche, come la Lancia di Chivasso, lo sciopero per Casalegno fallì. Al comizio in piazza San Carlo c'era poca gente, nonostante la presenza del sindaco comunista, Diego Novelli, accanto a Levi. La città aveva paura o mostrava indifferenza. I tre sindacati, Cgil, Cisl e Uil, non erano credibili, anche perché il loro manifesto chiamava alla protesta "contro il terrorismo di stampo fascista". Era la stessa formula assurda del volantino interno alla 'Stampa', firmato dal Comitato di redazione e dal Consiglio di fabbrica. Il loro ordine del giorno definiva l'attentato a Casalegno "un vile atto di chiara marca fascista". Del resto, che aria tirasse dentro il giornale di Levi lo ha rivelato di recente una coraggiosa testimonianza di Riccardo Chiaberge, pubblicata dal 'Sole 24 Ore' pochi mesi fa, il 4 novembre 2007. Con un titolo che dice tutto: "Quei giornalisti contro Casalegno".
Mi fermo qui per non turbare di nuovo l'amico Levi. Ma voglio essere chiaro: non c'è storia senza memoria limpida. E senza verità. Cominciamo a dirla noi, perché dai pensionati del terrorismo non la sapremo mai.
«L’Espresso» del 16 maggio 2008

Finiremo travolti dall’ebbrezza comunicativa?

Una nuova rivoluzione con l’arrivo dell’Iphone
Di Giuseppe O. Longo
C’è voluto un anno perché l’iPhone della Apple valicasse l’Atlantico e giungesse in Italia, dove si presenta con molte migliorie rispetto al modello lanciato in Usa il 29 giugno del 2007. Tanto che questo apparecchietto comincia davvero a prefigurare quella connessione totale che, da quando è comparso il telefono cellulare, è il sogno dei costruttori e dei tecnofili. Questa scatoletta fa di tutto (o quasi, ancora non prepara il caffè): è un telefonino a quattro bande, è un palmare, è un iPod audio e video, naviga in internet, gestisce le e­mail, scatta foto digitali da molti megapixel... È dotato di uno schermo sensibile al tocco di più dita e possiede un hardware e un software eccellenti. Mi fermo, per non dar l’impressione di essere un agente della Apple e per fare qualche riflessione.
In primo luogo, da tempo l’offerta tecnologica supera largamente la domanda, creando bisogni inediti e soddisfacendoli quasi prima che vengano percepiti (l’effetto annuncio crea un’aspettativa enorme).
Quando il bisogno è stato inoculato non si torna indietro: chi potrebbe oggi vivere senza cellulare e domani senza iPhone?
Questa assuefazione ha tutti i caratteri dell’etilismo o dell’intossicazione da droga: per esempio provoca gravi crisi di astinenza. Chi riesce a stare troppo tempo lontano da un computer che gli consenta di controllare la posta elettronica? E domani, quando con l’iPhone avremo addirittura in tasca il sensibile e caldo contatto col mondo virtuale, chi potrà fare a meno di questa rassicurante placenta, che ci unisce alla grande matrice planetaria?
In secondo luogo, l’iPhone attua il fenomeno della 'convergenza': dispositivi che un tempo erano separati perché eseguivano funzioni distinte, oggi tendono a presentarsi in unità polifunzionali che parlano tra loro in digitale e che collegano uomini a uomini, uomini a macchine e, fatto nuovo, macchine a macchine. Il grande circuito della comunicazione si svolge sempre più fuori dell’uomo e crea un’impalpabile ma concretissima 'infosfera' in cui non si trascinano più i faticosi atomi della materia, ma turbinano sciami vorticosi di bit. E i vertiginosi progressi della tecnologia provocano un calo continuo dei costi: oggi comunicare a voce o per e-mail, registrare foto, musica e quant’altro, costruirsi una pagina web con centinaia di rinvii, partecipare insomma alla grande kermesse della società dell’informazione non costa quasi nulla.
Questo abbattimento dei costi (che riguarda anche l’iPhone, manco a dirlo) provoca un’ebbrezza comunicativa che ha almeno due effetti vistosi: tutti possono, quindi vogliono, dire la loro, a prescindere dal contenuto di saggezza o di idiozia del messaggio; e tutti vogliono essere informati 'in tempo reale' di ciò che accade nel mondo, in borsa, nello sport, a casa, nel bar all’angolo, esercitando una spiccata tendenza al voyerismo (non solo visivo). In secondo luogo, questo connessionismo esasperato – cui non si rinuncia nemmeno per un istante, pena una grave sofferenza psichica (sono connesso dunque sono) – spinge sempre più ad evadere nella virtualità della rete: se non fosse per le fastidiose necessità fisiologiche, quanto sarebbe bello dissolversi in un nugolo di dati e viaggiare nel cyberspazio senza peso e senza pensieri! Uomo e iPhone costituiscono già un simbionte cognitivo e comunicativo: ciascuno, munito di questo piccolo grande supplemento del sé, salpa verso la grande Mente planetaria che tutti ci accoglie e tutti forse ci dissolve.
«Avvenire» dell’8 luglio 2008

Ulisse e Dante: due viaggi e due epoche a confronto

Di Jurij M. Lotman
Come si pongono rispetto al tema del “viaggio” Ulisse e Dante? In che cosa si assomigliano e in che cosa si differenziano i loro itinerari? Entrambi i personaggi compiono un percorso in linea retta, ma Ulisse su un piano orizzontale di espansione, Dante su un piano verticale di ascesa. Per entrambi la meta è l’aldilà, ma i loro tragitti sono diversi. Diversi sono anche i significati dei due viaggi: Dante è un pellegrino, Ulisse è un esploratore. La sete di conoscenza che muove Ulisse ha certamente un senso profondo anche per Dante, ma diverse sono le vie che li portano alla conoscenza: quella di Dante è una conoscenza che cresce in parallelo con la crescita morale, mentre quella di Ulisse si pone su un piano diverso, un piano che prevede la separazione fra conoscenza e morale. Secondo Lotman, Dante vuole rappresentare in Ulisse — e prenderne le distanze — l’uomo della nuova età e della nuova cultura, l’uomo del Rinascimento, quello della separazione appunto fra intelligenza e coscienza, fra scienza e morale, della frantumazione del sapere nei mille rivoli della specializzazione, della ricerca individuale e fine a se stessa.
Egli si trova nelle Malebolge come consigliere fraudolento. Alla luce di quanto abbiamo detto sull’atteggiamento di Dante nei confronti dell’inganno e della slealtà, questo non desta meraviglia. Attira però l’attenzione un altro elemento: il racconto del personaggio sul suo viaggio e sulla sua morte. A Ulisse come allo stesso Dante, è assegnato un cammino individuale. Nel percorso da loro compiuto nel continuum dell’universo c’è un sostanziale elemento di somiglianza: entrambi sono personaggi che si muovono in linea retta. La somiglianza si manifesta anche nel fatto che il loro movimento è aperto, uno slancio verso l’infinito. Partendo da punti esattamente indicati, entrambi si muovono nella direzione scelta ma non tendono verso una meta fissata in partenza. Nel loro movimento c’è però anche una sostanziale differenza.
Se Dante si trova all’interno di un globo cosmico, il cui spazio tridimensionale è passato da parte a parte dall’asse verticale, Ulisse invece viaggia come su una carta. Il senso del viaggio di Dante è dato dallo slancio verso l’alto. Tutto il viaggio di Ulisse si compie invece secondo le coordinate di un movimento su una superficie piana, mentre i segni che sono in rapporto con l’asse «alto-basso» non esistono. Queste caratteristiche cambiano solo al momento del naufragio. Il movimento in linea retta verso occidente si trasforma infatti in un movimento rotatorio (“il turbo’), che ripete quelli vorticosi dell’Inferno. La nave passa inoltre dalla posizione orizzontale a quella verticale (“alla quar ta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque / infin che ‘1 mar fu sopra noi richiuso”), momento che si accompagna ad una morte che si compie come una impetuosa discesa. La fine di Ulisse si contrappone così simmetricamente all’ascesa di Dante.
Ulisse è l’originale doppio di Dante. Questo fatto si rivela in due aspetti sostanziali. Prima di tutto, a differenza degli altri personaggi che per i loro peccati o per le loro virtù sono stati assegnati a luoghi determinati dell’universo dantesco, Dante e Ulisse sono eroi del viaggio sempre in movimento e, fatto che è ancora più importante, superano continuamente i confini di spazi proibiti.
La folla degli altri personaggi danteschi o si trova fissa in un luogo o si affretta verso una meta già stabilita, i cui confini determinano il suo posto nell’universo.
Ognuno di questi personaggi ha il suo spazio. Solo Dante e Ulisse, volontariamente o costretti, spinti da una potente passione, oltrepassano i confini che dividono una regione dell’universo dall’altra. Li unisce inoltre un itinerario comune. Entrambi si muovono infatti nella stessa direzione. Seguendo vie diverse vanno verso il Purgatorio: Dante attraverso l’Inferno e la cavità prodotta dalla caduta del corpo di Lucifero, Ulisse per mare, costeggiando la Spagna, Gibilterra, il Marocco. Benché il viaggio di Dante si compia nel mondo infernale e quello di Ulisse in uno spazio geografico reale, la meta verso la quale si muovono è la stessa. Questo è confermato dal fatto che, nel viaggio attraverso il Purgatorio e il Paradiso, è come se Dante prendesse la staffetta di Ulisse che ha fatto naufragio.
Tuttavia il senso di ogni doppio sta nella differenza che esiste pur nella somiglianza. Come Dante, Ulisse unisce l’aspirazione alla conoscenza «delli vizi umani e del valore» al desiderio di conoscere le strutture segrete del mondo
“De nostri sensi che del rimanente non vogliate negare l’esperienza di retro al sol del mondo sanza gente.” (If XXVI, 115-117)
Dante ha un evidente rispetto per questa nobile sete di conoscenza. Nella Commedia si trova più volte la contrapposizione fra uomini autentici e esseri simili a bestie in sembianze umane. Nel canto XIV del Purgatorio si ha ad esempio l’enume razione degli esseri simili a porci che vivono lungo le rive dell’Arno, dei cani aretini, dei lupi fiorentini, delle volpi pisane. Molte pene infernali si basano inoltre sulla realizzazione della metafora di esseri simili a bestie. Perciò l’“orazion picciola” di Ulisse che ricorda ai compagni che sono uomini e non bestie, che sono nati “per seguir virtute e canoscenza” e non per vivere come bruti, ha per il poeta un senso profondo.
La via per giungere alla conoscenza è tuttavia per Dante diversa da quella di Ulisse. La conoscenza dantesca, che si accompagna ad un’interrotta ascesa lungo l’asse dei valori morali, è una conoscenza che si sviluppa man mano che cresce il perfezionamento morale di chi aspira a realizzarla. L’elevarsi della propria moralità dà luce all’intelligenza.
La sete di conoscenza di Ulisse non è invece legata né alla moralità né all’immoralità, ma si trova su un altro piano. Lo stesso Purgatorio è per lui solo un punto bianco sulla carta e il tentativo di raggiungerlo è un viaggio ispirato dalla sete delle scoperte geografiche. Dante è un pellegrino, Ulisse un esploratore. Non a caso nel suo pellegrinaggio inferna le e cosmico Dante ha sempre una guida, mentre a guidare Ulisse sono solo il carattere intrepido e l’audacia. Allo spirito e al carattere del ricercatore di avventure egli unisce l’indomabilità di Farinata. L’epico briccone, il leggendario eroe degli inganni che si trasfor ma nella poesia di Omero nell’astuto re di Itaca, acquista nel poema di Dante i tratti del l’uomo del Rinascimento, dello scopritore di nuove terre, del viaggiatore. Questa immagine attraeva Dante per la sua integrità e la sua forza e lo allontanava per la sua indiffe renza morale. Ma osservando quest’immagine di eroico avventuriero, di ricercatore che indaga in tutte le regioni esclusa quella morale, Dante ha visto in lui qualcosa di più generale della psicologia del futuro che si stava avvicinando, i tratti propri della coscienza scientifica e più ampiamente culturale del tempo nuovo: la separazione fra la scienza e la morale, fra la scoperta e il suo risultato, fra la scienza e la personalità dello scienziato.
Sarebbe un errore vedere nell’opposizione fra Dante e Ulisse da noi indicata soltanto un conflitto storicamente lontano fra la psicologia del pensatore medievale e quella dell’uomo del Rinascimento.
La storia della cultura mondiale ha più volte confermato che i pensatori che si trovano sulla soglia di un’epoca spesso ne vedono il senso e i risultati più chiaramente delle generazioni successive già in essa coinvolte. Trovandosi sulla soglia di una epoca nuova, Dante ha visto uno dei pericoli fondamentali della cultura che stava per manifestarsi.
La tendenza al potenziamento della singola personalità, alla sua specializzazione, che portava alla separazione dell’intelligenza dalla coscienza, della scienza dalla morale, che egli già preavvertiva nell’epoca nuova, gli era profondamente ostile. Propria del suo ideale era l’integrazione. L’enciclopedismo delle sue conoscenze, che includevano tutto l’arsenale delle scienze del suo tempo, nella sua coscienza non si presentava come somma di informazioni eterogenee, ma costituiva un unico edificio integrato che a sua volta rientrava nell’ideale dell’impero universale e della costruzione armonica del cosmo. Al centro di questa gigantesca costruzione si trovava l’uomo, potente come i giganti del Rinascimento, ma integrato nel mondo che lo circonda, in rapporto con tutte le sfere concentriche dell’uni verso e quindi penetrato del pathos morale.
In questa prospettiva è possibile cogliere fra le coordinate spaziali del viaggio di Ulisse e quelle di Dante un altro punto di contatto. Se l’asse secondo il quale si compie il viaggio ultraterreno di Dante è la verticale «alto-basso», è presente nel poema — ricordata più volte nell’Inferno e infine pienamente svelata nel Paradiso — l’immagine di un altro viaggio, che si compie come il movimento di Ulisse sull’asse orizzontale: quello dell’esule, non libero come il peregrinare dell’eroe greco, ma imposto dalle lotte, le disunioni, gli squilibri del suo tempo.
Per entrambi i personaggi i due assi — orizzontale verticale — entrano fra loro in rapporto di gioco, ma in una prospettiva rovesciata come in uno specchio. A Ulisse, personaggio pagano interpretato dal cristiano Dante, nel suo libero e coraggioso vagare su una superficie orizzontale, manca la spinta ideale verso l’alto. Quando l’asse verticale e le sue coordinate spaziali si presentano alla fine della vita (“il turbo”, la “montagna bruna e alta quanto veduta non avea alcuna”), il loro significato resta per lui incomprensibile e il movi mento della nave dall’altò verso il basso, causa della sua morte, gli viene imposto da una forza che egli non è in grado di riconoscere. Al contrario per Dante personaggio ad essere imposto da una realtà terrena che gli appare caotica e catastrofica e della quale gli sfugge il significato non negativo profonda trasformazione di una epoca di trapasso, è il movimento secondo l’asse orizzontale: la partenza da Firenze, il vagare di corte in corte, la proibizione di fare ritorno. Lo slancio verso l’alto, il suo movimento lungo l’asse verticale, è strettamente legato all’esperienza tutta terrena del movimento orizzontale imposto dall’esilio che a Dante personaggio minacciosamente si prepara — come parte della sua missione e del suo grande destino — e che Dante autore vive durante la stesura della Commedia; immane sforzo per ristabilire, in un tentativo “a cui pongono mano cielo e terra”, quell’equilibrio che rendeva l’uomo parte integrante di un’armonica costruzione cosmica.

Brano tratto da Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Laterza, Roma-Bari, 1980

Alle Scuderie del Quirinale la pittura dell'antica Roma si scopre moderna

di Emanuele Bigi
Le Scuderie del Quirinale compiono dieci anni e per festeggiare omaggiano Roma allestendo una mostra sull'arte pittorica di un Impero, quell'arte colorata in bilico tra realtà e sogno che ha per maestri autori anonimi capaci però di mettere in comunicazione l'antica Grecia con la cultura figurativa moderna. Lo affermava anche Giorgio De Chirico: "Quella tendenza alla pittura chiara e al colore trasparente, quel senso asciutto di materia pittorica che chiamo olimpico e che ebbe la sua più alta affermazione nell'opera di Botticelli e in quella di Raffaello peruginesco erano tali già in Grecia, come provano le pitture parietali di Pompei". I lavori di Polignoto, Parrasio, Zeusi e Apelle, per citare alcuni dei maestri greci, sono andati perduti, colmano il vuoto i successori romani capitanati da Studius o Ludius di cui ci parla Plinio il Vecchio: "colui che per primo inventò le leggiadre pitture delle pareti raffigurandovi ville, portici, boschi sacri, colline, canali, fiumi e spiagge". L'esempio della sua arte (gli studiosi sono quasi certi) è mostrata al primo piano delle Scuderie dove sono esposte le decorazioni della Villa Farnesiana a Roma e di quella di Boscotrecase presso Pompei. Il lungo "fregio" affrescato è dominato dal bianco dello sfondo attraversato verticalmente da candelabri ornati di cariatidi femminili, mentre in alto si sviluppa la decorazione composta di nature morte e paesaggi idillico-sacrali. La parete della Villa di Pompei invece è rossa, macchiata di riquadri chiari in cui si innestano paesaggi agresti e santuari abitati da sacerdoti, pastori con greggi e mendicanti. Il piano è definito appunto "delle decorazioni", qui si entra in contatto con il contesto domestico delle dimore romane. "Non conosco forse nulla di più interessante – scriveva Goethe - le case sono piccole e strette, ma nell'interno tutte adorne di graziosissime pitture". Il colore riprende la sua rivincita sui marmi monocromi, quel biancore delle statue che erroneamente ha definito l'estetica della classicità viene scansato dalla policromia, capostipite della realtà antica. A riflettere la magnificenza dei colori è l'allestimento perfetto di Luca Ronconi (e Margherita Palli) che risalta l'oggetto esposto, lo rende "luminoso e non illuminato", dichiara lo stesso Ronconi, sembrano quasi fotografie retro-illuminate. Il moderno si inchina all'antico come per sdebitarsi dell'eredità. Roma. La pittura di un Impero, curata da Eugenio La Rocca, Serena Ensoli, Stefano Tortorella e Massimiliano Papini, raccoglie circa cento opere databili tra il II secolo a. C e il IV d. C provenienti dai più importanti siti archeologici e musei del mondo, dal Louvre, al British Museum, dagli scavi di Pompei ai Musei Vaticani, al Liebighaus di Francoforte. Un viaggio nell'arte durante i regni di Domiziano, Adriano, Traiano, Costantino e Teodosio. Il secondo piano è caratterizzato da un'ottica prettamente tematica, qui i soggetti si allontanano dal contesto decorativo, si fanno ammirare a mo' di quadri. Spazio allora alle immagini mitologiche, ecco Polifemo e Galatea, Zefiro e Venere, Le tre Grazie "fluide come il pensiero…sembrano fatte con un sol colpo di pennello", le descriveva l'archeologo Winckelmann. E ancora le nature morte che nell'antichità erano chiamate Xenia, i paesaggi da sogno, le scene di vita quotidiana e di otium e poi i ritratti su legno e lino (detti a "encausto") dell'oasi egiziana di El Fayyum, o su vetro, alcuni dei quali prefigurano l'affacciarsi dell'iconografia cristiana.

Roma. La pittura di un impero
Fino al 17 gennaio 2010
Scuderie del Quirinale, Roma
Orari: dom-gio 10.00-20.00; ven-sab 10.00-22.30
Prezzi: Intero € 10; Ridotto € 7,50
www.scuderiequirinale.it
www.mondomostre.it

«Il Sole 24 Ore» del 24 settembre 2009

Quei messaggi subliminali più efficaci se sono negativi

Studio dimostra gli effetti sull'inconscio: la sensibilità a quelli che contengono allusioni alla morte o all'angoscia è in realtà un'autodifesa. Il primo a parlarne è stato Packard nel '57, ma le teorie sull'argomento sono sempre state discordanti
di Sara Ficocelli
Nella locandina del film "Il silenzio degli innocenti" di Johnathan Demme si vede un volto di donna con una falena sulle labbra. Guardando attentamente però si distingue, sul dorso dell'insetto, un teschio formato dai corpi di sette donne nude. Quello che può sembrare un tributo artistico (l'immagine è del pittore spagnolo Salvador Dalì) è in realtà un messaggio subliminale sul legame tra sesso e morte. Cinema, musica e opere d'arte ne sono pieni e secondo una ricerca dell'University College di Londra in collaborazione con il Wellcome Trust, questi messaggi non solo vengono assorbiti a livello inconscio, ma la loro efficacia è doppia se sono di contenuto negativo.
Una conclusione che divide il mondo scientifico, dato che la veridicità delle teorie a favore di questi strumenti di comunicazione è sempre stata messa in discussione. "Sull'efficacia di certi messaggi ho i miei dubbi - spiega Gerardo Corti, autore del libro "Occulta sarà tua sorella! Pubblicità, product placement, persuasione: dalla psicologia subliminale ai nuovi media" - e anzi io credo che il messaggio più efficace sia quello che si vede, che viene mostrato direttamente".
Per il loro esperimento i ricercatori inglesi hanno mostrato a 50 persone una serie di parole per 17 millisecondi, intervallo insufficiente per leggerle consciamente. In mezzo a termini emotivamente neutri ne erano stati stati inseriti alcuni positivi ("sorridente", "fiore", "pace") e altri negativi ("agonia", "disperazione", "morte"). Interrogati su ogni parola, gli intervistati sono stati precisi nel descrivere quelle negative nel 77% dei casi, contro il 59% di quelle positive.
Il loro cervello aveva insomma assorbito, senza rendersene conto, le sensazioni negative provocate da "morte" e "agonia", tralasciando il resto. Secondo il professor Nilli Lavie, che ha condotto lo studio, tutto dipende dal percorso evoluzionistico del cervello umano: "La nostra mente, per difendersi dai pericoli, è sempre stata costretta a intercettarli, anche a livello inconsapevole".
Quello che la natura ha sviluppato come risorsa è però oggi terreno interessante per pubblicitari e artisti desiderosi di comunicarci qualcosa andando a toccare la parte più intima della nostra percezione. Il primo a parlare di questa forma di comunicazione è stato Vance Packard nel 1957 con il libro "I persuasori occulti" e dopo di lui l'agente pubblicitario James Vicary ha cercato di dimostrare che puntando la telecamera, nei film, su pop corn e Coca Cola, le quote di vendita di questi prodotti aumentavano del 58%. Le sue teorie i sono poi rivelate infondate, ma gli appassionati di cinema e musica continuano a intercettare messaggi subliminali fra le note e nelle pellicole più famose del mondo.
Tantissimi sono, ad esempio, i fotogrammi con allusioni sessuali nascosti nei cartoon di Walt Disney, dall'upskirt in cui Jessica Rabbit mostra le sue nudità alla parola "sex" che compare nella polvere alzata dal Re Leone. Tra i musicisti, un abile manipolatore di testi è il rapper Eminem: gran parte delle sue canzoni se ascoltate al contrario contengono frasi di senso compiuto e sono in molti a credere che i Queen o i Beatles amassero comporre brani da ascoltare al rovescio. Stando alle teorie più diffuse, i messaggi occulti nascono per contenere parole proibite, che incitano ad acquistare dei prodotti, al consumo di droga o al suicidio. L'inserimento di questi fotogrammi e il ricorso a questi trucchi di ascolto è infatti proibito in tutto il mondo, ma è altamente improbabile che l'inconscio sporga denuncia.
«La Repubblica» del 29 settembre 2009

La sinistra europea disarmata

La crisi attuale segna un profondo cambiamento d’epoca. Non si tratta soltanto di una crisi finanziaria, economica e ormai pesantemente sociale; si tratta di una crisi politica e culturale.
di Massimo D'Alema
Si chiude un ciclo caratterizzato da una globalizzazione senza regole, dal dominio dell’ideologia ultraliberale. Tramonta l’illusione dogmatica dell’infallibilità del mercato. Al centro del dibattito pubblico tornano idee fondamentali che sono proprie della tradizione socialista.
Ma - ecco il paradosso - di fronte a questa grande svolta sembra proprio il socialismo in Europa a essere più in difficoltà. Non mancano speranze e segnali di novità, tuttavia gran parte del nostro continente è oggi governata da una leadership conservatrice e il declino della destra neoliberista sembra andare non a vantaggio dei progressisti ma, in molti paesi europei, a vantaggio di un’altra destra nazionalista, populista, talora apertamente reazionaria e razzista. Eppure, mentre in Europa accade questo, nel resto del mondo sono le grandi forze progressiste che guidano l’impegno per aprire una nuova prospettiva oltre la crisi e gettare le basi di una nuova stagione economica e politica. Sono i Democratici negli Stati Uniti d’America, così come sono progressisti di diversa natura i leader e i partiti alla guida dei grandi Paesi emergenti, dall’India al Brasile all’Africa del Sud. Persino il Giappone, dopo 54 anni di egemonia politica liberale e conservatrice, si è affidato a una forza democratica e progressista. Non solo, ma in massima parte questi partiti non appartengono alla tradizione e alla cultura socialista, anche se con l’Internazionale socialista collaborano o dialogano intensamente. Perché dunque proprio qui, nella vecchia Europa, sembra essere così difficile la sfida per i progressisti?
Il problema è che il socialismo europeo, sia nelle sue componenti più tradizionali, sia nei settori più innovativi, non è riuscito, di fronte alla globalizzazione, ad andare oltre l’orizzonte del riformismo nazionale. In particolare - questa è la mia opinione - la grande opportunità legata al processo d’integrazione politica dell’Europa è stata colta solo in piccola parte. Dopo l’avvento della moneta unica sarebbe stato il momento per un salto di qualità. Era necessario armonizzare le politiche di sviluppo, le politiche fiscali e di bilancio, le politiche della ricerca e dell’innovazione. Era necessario costruire una vera Europa sociale e governare insieme e in modo solidale la sfida dell’immigrazione. Era necessario quindi rafforzare il bilancio e i poteri dell’Unione europea aprendo la strada a un «riformismo europeo» capace di superare i limiti dell’esperienza degli Stati nazionali. Questa era la prospettiva che era stata indicata da Jacques Delors.
Non dimentichiamo che in quel momento 11 Paesi su 15 dell’Unione erano guidati da leader socialisti. Cercammo di indicare una nuova via con il Consiglio europeo di Lisbona. Ma quel programma riformista, che pure era coraggioso, non era sostenuto da istituzioni forti, risorse adeguate, una chiara volontà politica.
Ci vuole una forza progressista europea che abbia il coraggio di rimettersi in gioco, che apra le vele per cogliere il vento del cambiamento internazionale, voltando pagina rispetto alle timidezze e al profilo basso degli ultimi anni. Si capisce che proprio in Europa il crollo del comunismo, il progressivo logoramento del compromesso socialdemocratico e la cosiddetta caduta delle ideologie (non di tutte, in realtà, se si pensa a quanto «ideologica» è stata l’egemonia neoliberista) hanno pesato su una sinistra rimasta prigioniera del suo disincanto e timorosa di andare al di là di un pragmatismo ispirato al buon senso, alla razionalità economica e alla coesione sociale. Ma è - io credo - anche per questo che una sinistra così priva di identità è apparsa disarmata di fronte al populismo sanguigno della destra. Il problema è che la destra risponde, a modo suo, a un bisogno di identità e di speranza con il riferimento alla terra, al sangue, alle radici religiose della nostra civiltà che, per quanto prospettato in termini distorti e regressivi, appare un ancoraggio robusto rispetto all’incertezza e allo smarrimento del mondo globalizzato.
Non sembra oggi che la cultura socialdemocratica sia in grado di rispondere al bisogno dei progressisti di dotarsi di una visione del futuro capace di suscitare partecipazione e speranze. Insomma, la socialdemocrazia con i suoi ideali e la sua visione della società non sembra in grado di produrre una «grande narrazione» come fu nel passato. Quella esperienza rimane irrimediabilmente racchiusa in un’altra epoca, legata a una struttura delle società europee, ad una organizzazione del lavoro, ad una composizione sociale che non esistono più. Ma la via d’uscita non è nell’idea di un centrosinistra post-identitario. Né soltanto nel far precedere i discorsi politici da un elenco di grandi valori o dalla evocazione di buoni sentimenti. La sfida appare quella di costruire una nuova identità forte legata ai bisogni sociali, alle contraddizioni e alle attese del tempo in cui viviamo. Questo segna un superamento del passato socialdemocratico, che non è un ripudio, ma capacità di ricollocarne gli elementi vitali in un contesto nuovo, in un nuovo paradigma. Indicando nella democrazia, nell’eguaglianza e nella cultura dell’innovazione le idee-forza per una risposta progressista alla crisi ho cercato di definire non soltanto i titoli di un programma, ma anche le coordinate di un progetto. Se è così, chiamare democratico il nuovo partito dei progressisti è certamente un buon punto di partenza. Ma se il problema è quello di legare a questo nome un’identità e un progetto forti - come pare necessario - allora vuol dire che c’è ancora molto da lavorare. Se però guardiamo al mondo che ci circonda e ai grandi cambiamenti che sono in atto, credo che ci sia ragione di essere ottimisti.

Estratto dall’editoriale di Massimo D’Alema in edicola a ottobre sulla rivista «Italianieuropei»

«La Stampa» del 29 settembre 2009

Perché non usate "empio", "miscredente" o "irreligioso"?

Langone contro quelli che vogliono dire “ateo” e scrivono “laico”
di Camillo Langone
Ha il più bel seno del giornalismo italiano ma non conosce il significato della parola laico. Secondo lei è sinonimo di ateo. Scrive di qua, scrive di là, scrive sui maschili e sui femminili, sulle riviste e sui giornali, a volte perfino in prima pagina, senza sapere che laico è innanzitutto, trascrivo il De Mauro, “chi non appartiene al clero”. D’accordo, Tullio De Mauro è stato ministro in un governo Amato quindi viene spontaneo diffidare di lui e allora attingo direttamente dal testo base dell’istituzione entro la quale la parola è nata, il Catechismo della chiesa cattolica: “Col nome di laici si intendono tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro”. Io sono laico: io porto la croce al collo, ho l’anello del rosario, vado a messa tutte le domeniche, spesso leggo l’Epistola dall’ambone, firmo l’otto per mille, non mangio carne il venerdì, il Mercoledì delle ceneri e il Venerdì santo digiuno a pane e acqua, ma non essendo un sacerdote sono laico. Non conto nulla, non faccio testo? Certo, meglio fare un altro esempio. San Francesco era laico: predicatore trascinante, stigmatizzato, fondatore dei frati minori, inventore del presepe, alter Christus, patrono d’Italia, ma non essendo sacerdote (non ha mai detto messa) era laico.
La donna col più bel seno del giornalismo italiano lo ignora perché è laureata in Italia, masterizzata negli Usa e patentata dall’ordine dei giornalisti, inventato da Benito Mussolini per uniformare la stampa. La corporazione dei pennivendoli è un grande successo del fascismo, insieme alla bonifica pontina una delle poche realizzazioni sopravvissute al regime, al secolo e pure al millennio. Gli uomini dei media anche quando ostentano difformità sul piano delle idee sono perfettamente allineati sul piano della lingua, ben più decisivo, essendo le cose conseguenza delle parole. Quando bisogna dire ateo, come un sol uomo dicono “laico”. E pensare che, volendo variare, non mancherebbero i sinonimi: empio, miscredente, irreligioso, incredulo… Perfino i giornalisti cattolici tendono per quieto vivere a usare il termine nell’accezione comoda e scorretta, a volte circondandolo di virgolette sperando di salvarsi l’anima. Che invece è persa. “Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo. Prima di diventare espliciti nelle proposizioni, i giudizi sono impliciti nei vocaboli” spiega Nicolás Gómez Dávila. I cuculi della chiesa cattolica, i parassiti del vocabolario cristiano, vanno buttati giù dal nido. Stefano Rodotà e Umberto Veronesi non devono più nutrirsi di parole religiose e poi rigurgitarle addosso agli amici di Gesù con senso rovesciato.
Se arrossiscono a definirsi atei peggio per loro anzi no, meglio per loro: soltanto la verità salva. L’a privativa rende palese la condizione disgraziata del senza Dio che invece a sentirsi definire laico gode come un gatto quando gli gratti in mezzo alle orecchie. Pensa di essere un eroe del libero pensiero mentre sta indulgendo alla vanità dello scetticismo di massa. Gli manca qualcosa ed è convinto di essere di più. Qualche settimana fa, durante una delle mie periodiche crisi di purezza, ho sentito l’urgente bisogno di chiudere ogni rapporto con chiunque profani questa parola cristiana, semplice e neutra, degradandola a parolaccia ideologica, faziosa e tendenziosa. Fatti i conti mi sono risolto a più miti consigli, essendomi accorto che avrei perso la maggioranza degli interlocutori: non solo chi ha il più bel seno del giornalismo italiano ma anche chi ce l’ha un po’ meno bello, e perfino chi non ce l’ha affatto, né bello né brutto, scrocca “laico” a duemila anni di cristianesimo per farne abuso nelle redazioni.
Pertanto ho ripiegato sulla cacciata dalle rubriche di tutte le persone che non soltanto usano l’accezione falsa ma che nemmeno conoscono l’accezione vera. La donna col seno più bello del giornalismo italiano è una di queste. L’ho messa alla prova, le ho detto di essere laico ed è diventata paonazza: “Ma come, lo sanno tutti che sei cattolico!”. Ciuccia e presuntuosa, come si dice nel vecchio regno di Napoli (antichissima espressione mai stata così attuale). Lei è un esemplare emblematico di donna moderna, perfettamente impermeabile alla conoscenza. E atea, ovvio. Forse con quel seno può dire ciò che vuole ma il problema è che non si limita a dirlo, lo scrive pure. E’ un’infaticabile spacciatrice d’ignoranza e menzogna, una specialista dell’articolo finito ancor prima di aver cominciato a pensare. Non riconoscendo alcuna verità oltre ai propri organi ghiandolari, alla prima smagliatura comincerà a dubitare di se stessa. Ma non del proprio lessico: come può pentirsi chi nemmeno sospetta la sua colpa? Continuerà a scrivere laico a vanvera fino alla fine dei suoi capezzoli.
«Il Foglio» del 28 settembre 2009

Lettere a Seneca, c’è la mano di Paolo: ecco le prove

di Ilaria Ramelli
Secondo Pascal e Harnack l’epistolario Seneca-Paolo fu composto in greco e poi tradotto maldestramente da un 'barbaro medioevale'. La convinzione che siano lettere scritte male, rendendo impensabile che fossero vergate da Seneca, indusse a ritenere l’epistolario non solo spurio, ma anche, in origine, greco. Come ho studiato su Aevum Antiquum 13 (2000), ne Il contributo delle scienze storiche alla interpretazione del Nuovo Testamento (Città del Vaticano 2005) e nel Novum Testamentum Patristicum, tracce di greco affiorano nel carteggio, ma colpisce che i grecismi siano solo nelle lettere di Paolo: tanto più significativo quanto inferiori esse sono, per numero ed estensione, a quelle di Seneca. Ad esempio, nell’epistola II Paolo chiama Seneca sophista, termine non sconosciuto al latino, ma con un significato diverso da quello di sapiens datogli da Paolo. Nell’epistola X Paolo usa aporia (impiegato talora in latino nel senso di 'dubbio') ma nel valore tutto greco di 'incoerenza'. Ho poi accennato a lex come 'norma d’uso', valore primario del greco nomos.
Simili indizi non sembrano prove di una primitiva stesura dell’epistolario in greco, essendo solo nelle lettere di Paolo, né l’esito di una cattiva traduzione medievale, ma tracce, in epistole latine, di una persona che pensava in greco perché lo conosceva meglio del latino: come Paolo. Anche le frasi oscure si concentrano tutte nelle pur brevi e scarse lettere di Paolo (ad esempio VIII e X). Nelle lettere di Seneca non compaiono palesi prestiti dal greco, né espressioni così dibattute. E nell’epistola VII Seneca, riferendosi alle lettere neotestamentarie di Paolo, parla di horror divinus: un falsario avrebbe detto timor Dei. Qui Seneca pare fraintendere il phobos theou paolino. Non solo i grecismi lessicali e la loro distribuzione mi sembrano significativi, ma anche quelli sintattici: quelli che sembrano costrutti di un latino tardo sono in realtà costrutti greci, trasposti in latino da uno che pensava in greco, e di nuovo colpisce che si concentrino tutti nelle lettere di Paolo. Ad esempio nell’epistola II, oltre al grecismo lessicale sophista, c’è si praesentiam iuvenis… habuissem. Ci si aspetterebbe si iuvenis adfuisset o simili; i commentatori parlano di costrutto tardivo. Ma è un grecismo sintattico: riproduce parousian echein, ben attestato nel greco classico ed ellenistico, compreso il giudaismo ellenistico, e quasi sempre seguito da genitivo. Paolo stesso nelle lettere neotestamentarie preferisce la formula parousia + genitivo di persona, ad esempio in Fil 2,12: la Vulgata rende in praesentia mei.
Nell’epistola IV Paolo usa l’identico sintagma: praesentiam tui. L’uso stesso del genitivo del pronome personale in luogo dell’aggettivo possessivo è un grecismo sintattico. E nelle lettere paoline del Nuovo Testamento ci sono molti esempi di parousia + genitivo di persona: tutte le occorrenze di questo sostantivo nelle lettere paoline assumono questa forma sintattica, la stessa che è trasposta in latino nelle lettere di Paolo dell’epistolario. È impossibile pensare che un falsario adottasse una tale sottigliezza mimetica.
Nell’epistola VI, di Paolo, anche l’espressione quibus si patientiam demus è ritenuta goffa e tarda. Ma anche questo in realtà è un grecismo: hypomonen (o anochen e makrothymian) didomi è molto ben attestato, spesso con dativo, proprio dalla prima età imperiale. Inoltre, l’analisi linguistica delle epistole di Seneca qui e delle Epistulae ad Lucilium, che essendo degli ultimi anni di Seneca risulterebbero contemporanee a queste, fa emergere congruenze stilistiche. Soprattutto l’ordine delle parole è spesso simile a quello delle lettere autentiche. Tutte queste coincidenze difficilmente possono essere attribuite a un falsario. Ma, data la loro quantità e profondità, difficilmente possono essere attribuite al caso.
«Avvenire» del 29 settembre 2009

Il fascino del colore e la scultura «bianca»

Il cromatismo dell’impero contraddice Winckelmann e gli affreschi nelle case esprimono un’idea di eternità
di Maurizio Cecchetti
Il merito di questa mostra che si è a­perta nei giorni scorsi alle Scuderie del Quirinale sta quasi tutto in un’in­tuizione riguardo al modo di esporre la pittura della Roma imperiale come se si trattasse di pittura contemporanea. A volte la semplicità ha qualcosa di rivo­luzionario, cambia il modo di guardare ciò che, in fondo, è sempre stato sotto i nostri occhi. Gran parte delle opere e­sposte vengono dall’Archeologico di Na­poli, da Pompei, dai Musei Vaticani, dal Museo nazionale romano, dall’Anti­quarium, luoghi dove si può supporre che chi ama questo tipo di pittura si sia recato almeno una volta in passato e quindi possieda una memoria di cose 'già viste'. Ed ecco che allora il vederle insieme fa la differenza: soprattutto, la fa il modo di metterle l’una accanto al­l’altra. Va apprezzato il principio, oggi poco praticato da chi organizza mostre di studio, di esporre i materiali con un tono non elitario, anzi con quell’inten­to 'divulgativo' che nelle mostre più commerciali si affida a richiami sempre un po’ sopra le righe, gridati. Qui, ciò che grida, e grida di bellezza indicibile, è il cromatismo di molte opere, l’ele­ganza sublime della decorazione a cui il tempo ha conferito un fascino im­pressionistico, facendo di ogni opera un frammento di qualcosa che, come giu­stamente sottolinea nel catalogo (Skira) il curatore Eugenio La Rocca, ci è giun­to in dosi avare e spesso incomplete.
Va da sé che presentando le ragioni di questa mostra, vengano messe in cam­po questioni che non costituiscono più una novità negli sviluppi delle ricerche archeologiche e storiche sulla pittura ro­mana. Il primo luogo comune sfatato ormai da tempo è quello che poggiava su un errore di comprensione di Winckelmann, ovvero che la scultura classica, quella greca e poi quella ro­mana, fosse un’arte del bianco puro, te­ma fondamentale della poetica neo­classicista. In realtà, l’arte classica era policroma, non era un’arte soltanto ce­rebrale, ma anche sensuale. L’altro ste­reotipo, anche questo inflazionato da tempo, dell’imitazione e dell’assimila­zione dei modelli greci nella pittura ro­mana, e l’importanza di questa nel la­sciarci indirettamente traccia di qual­cosa che è scomparso quasi del tutto dalla faccia della terra. Anche questo luogo comune è stato ampiamente smontato e rimontato, e oggi si può di­re che l’assimilazione dei modelli greci nella pittura romana avviene con un’au­tonomia 'semantica' che corrisponde, per certi versi, alla mutazione del signi­ficato che l’arte cristiana apporterà ai modelli e ai temi classici rielaborando­li dentro un’iconografia variata.
Il salto concettuale è quello che passa tra una cultura dove l’arte si specchia nel­l’idea di cosmos e una cultura che ha co­me punto di riferimento l’impero; ov­vero, la differenza fra trascendente e im­manente. Questo è un dato di fatto che gli stessi curatori anticipano già nel ti­tolo della mostra: Roma. La pittura di un impero. L’impero è una istituzione che racchiude una vasta e molteplice giurisdizione sotto l’autorità di una so­la figura, l’imperatore, che rappresenta al tempo stesso l’individuale e l’univer­sale, l’umano e il divino.
Ma quanto si guarda la pittura romana non si può fare a meno di pensare quan­to fosse elevata e quale ruolo avesse la committenza in questo processo 'poli­tico'. Perché è evidente che oltre il de­cus si coglie in quest’arte anche un’'estetica politica', categoria che ap­partiene piuttosto al linguaggio critico segnato dai totalitarismi, e nell’arte ro­mana ha ovviamente un significato completamente diverso da quello che diamo oggi a questa espressione. È da te­ner presente che molte opere che ve­diamo in mostra sono affreschi stacca­ti da muri di case patrizie, e la loro bel­lezza testimonia un’altissima conside­razione della casa, dell’abitare, ovvero l’idea di uno status, un grado di civiltà, che precede, sostanzialmente, i signifi­cati impliciti e simbolici dell’immagine. Straordinari gli affreschi sulle pareti del colombario di Villa Doria Pamphili, fat­ti di niente, qualche uccello e natura morta, evanescenti paesaggi, poche fi­gure mitologiche per un luogo funebre dove, in fondo, ci si trova proiettati in un orizzonte biancastro che sembra vo­ler negare alla notte il suo dominio. Cer­ti paesaggi sono quasi sogni, apparizio­ni, e posseggono una modernità e una vicinanza col nostro sentire che talvolta non si avverte nella più grande pittu­ra rinascimentale e barocca, troppo ca­rica di retropensieri. Così come gli af­freschi della Villa della Farnesina, quel­li dell’ambulacro e del triclinio che reg­gono ancora il contrappunto del bian­co e del nero, sono dipinti con colori ca­paci di esprimere dal proprio interno toni lattei, riflessi che competono con quelli dei marmi più preziosi e raffina­ti; osserviamo ornamenti filiformi e di misurata eleganza, quel poco che basta a ricordarci che la bellezza non è mai fa­ticosa, è minimale, e vive sul registro di elementari ma costanti rapporti di for­ma e di toni, di segni e di spazi. E que­sto diventa chiaro passando dalle gran­di decorazioni della Farnesina al picco­lo affresco delle Menadi danzanti su fon­do nero, si avverte insomma che, nono­stante il cambio di stile, esiste una com­pattezza nella visione estetica romana, che dice tuttavia quanto fosse chiara ai romani la 'funzionalità' della pittura nel collaborare a rendere l’immagine pubblica di Roma anche quando la sfe­ra d’azione del dipinto è strettamente privata. Essere impero significa questo, in fondo: un principio universale che tiene insieme le diverse parti, armoniz­zandole dentro un’immagine di gran­dezza e di eternità fondata sulla durata nel tempo e sul riconoscersi parte di un orizzonte di destino (la pittura ne di­venta, in un certo senso, il sipario). Quando si parla di imitazione e assimi­lazione di modelli greci, appare tuttavia chiaro che lungo i seco­li dell’impero le imagines maio­rum testimoniano (per quanto riguarda la scultura) l’evoluzione dal ritratto 'greco', cioè astratto e universale, al ritratto via via più realistico e fisiognomico, ma in definitiva concepito secondo ti­pologie espressive che lo rendo­no ancora assoluto pur apparte­nendo a un individuo preciso; infine, si approda ai ritratti del Fayyum, la regio­ne dell’Egitto bonificata dai tolomei dal­la quale sono riemersi durante gli scavi decine di ritratti funebri il cui elemen­to comune è la vitalità dello sguardo, co­me se l’oraziano «non omnis moriar» fosse già diventato, sotto l’influenza del cristianesimo, una promessa di resur­rezione. Ed è in quel momento che la grande pittura romana comincia a per­dere la sua valenza decorativa e va ver­so l’'individuazione', la ricerca dell’e­lemento particolare che sottrae le realtà singole, quelle umane in primis, all’o­rizzonte di finitudine pagana che aveva trovato nel culto degli avi la sua massi­ma estensione trascendente.
Roma. Scuderie del Quirinale: «ROMA: LA PITTURA DI UN IMPERO» (fino al 17 gennaio 2010)
«Avvenire» del 29 settembre 2009

Triste il mondo in cui non ci sono più comici

di Andrea Monda
Forse l’Italia resisterà meglio di altri Paesi alla crisi finanziaria, ma c’è un segnale che mi induce ad essere molto pessimista sul destino del nostro Paese: in Italia non si ride più. Si ride ancora, ma è il ghigno cattivo e cinico o il riso di scherno che hanno preso il posto di quella risata del cuore, che è libera e liberatoria e che spingeva Thomas Carlyle a dire che «chiunque abbia riso di cuore anche una sola volta nella vita non sarà mai irrimediabilmente cattivo». Per ridere ci vuole un comico che sappia dire una battuta di spirito che, come scrive Chesterton nella prefazione al «Circolo Pickwick», libro ricco di umorismo, «è una cosa assoluta, sacra, che non si può criticare. I nostri rapporti con una buona battuta di spirito sono immediati e addirittura divini». I santi conoscevano bene la virtù dell’umorismo, strettamente imparentata con l’umiltà. Il Roche, nel suo saggio sulla «Sublimità dei santi» ha osservato che «la storia di tante eresie è in molta misura una storia di perdita del senso dell’umorismo», e lo stesso si potrebbe dire con i regimi totalitari che ciclicamente l’uomo ha realizzato, epoche in cui lo spirito critico e l’ironia sembrano scomparire del tutto.
Insomma, non c’è da stare allegri, e a rincarare la dose ci pensa Jacques Maritain che avverte: «Se una società perde il senso dell’umorismo si prepara al suo funerale». Viene da ribaltare il detto «una risata vi seppellirà» e dire: «Solo una risata può disseppellire un Paese altrimenti morto». Forse sono stato troppo cupo. Però c’è un dato mio personale: da anni accendo la tv, ma non rido più.
Ricordo che circa trent’anni fa girava una trasmissione che si chiamava «Non Stop» e tra i tanti comici che si avvicendavano molti sono scomparsi nella memoria, ma due hanno superato l’usura del tempo: Verdone e Troisi. Poi, il diluvio. Qualche anno dopo ricordo un altro programma che si chiamava «Drive In»… Non ridevo più. Mi sembrava tutto finto: la comicità, le risate (erano registrate, un dettaglio che mi impressionò), il corpo di ballo (non sapevano muoversi simultaneamente), i corpi delle ballerine… tutto finto. Lascio agli esperti la questione su cosa è successo in quegli anni, anche se a me spesso è venuto di pensare che l’abbassamento di livello abbia in qualche modo anticipato (spesso l’arte – e la comicità è un’arte – precede la società) quel successivo «salto» che abbiamo avuto tra la cosiddetta Prima e la Seconda Repubblica. Sta di fatto che la comicità «finta» di «Drive In» è un controsenso, perché la battuta di un comico, invece, è la cosa più vera che esista, è un guizzo del puro genio, qualcosa che distorcendola ci restituisce la realtà in modo più profondo e autentico. La battuta è anche irripetibile, è in qualche modo un «evento» (perdonate la parola stra-abusata), al punto tale che non verrà mai come quando è stata detta la prima volta. Oggi invece gli spettacoli dei comici sembrano vivere solo di «tormentoni», cioè di ripetizioni. Non ricordo più di aver riso di cuore davanti alla tv dai tempi del primo Verdone e del primo Troisi, con l’unica eccezione di Corrado Guzzanti a cui riconosco quel gusto per il «non sense» e la capacità di far guizzare il suo genio versatile in ogni sua gag. Insomma, i comici non fanno più ridere; viene da citare, a mo’ di esortazione, il Vangelo: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini»...
«Avvenire» del 29 settembre 2009

Fede e ragione le due ali verso la verità

La sete di conoscenza dell’uomo spinge ogni generazione ad ampliare il concetto di ragione e ad abbeverarsi alle fonti della fede
di Benedetto XVI
Pubblichiamo ampi estratti del discorso ri­volto domenica 27 da Benedetto XVI al mon­do accademico durante l’incontro tenutosi nel Castello di Praga.
Il mondo accademico, sostenendo i valo­ri culturali e spirituali della società e in­sieme offrendo ad essi il proprio contri­buto, svolge il prezioso servizio di arricchire il patrimonio intellettuale della nazione e di fortificare le fondamenta del suo futuro svi­luppo. I grandi cambiamenti che venti anni fa trasformarono la società ceca furono cau­sati, non da ultimo, dai movimenti di rifor­ma che si originarono nelle università e nei circoli studenteschi. Quella ricerca di libertà ha continuato a guidare il lavoro degli stu­diosi: la loro diakonia alla verità è indispen­sabile al benessere di qualsiasi nazione.
Chi vi parla è stato un professore, attento al diritto della libertà accademica e alla re­sponsabilità per l’uso autentico della ragio­ne, ed ora è il Papa che, nel suo ruolo di pa­store, è riconosciuto come voce autorevole per la riflessione etica dell’umanità. Se è ve­ro che alcuni ritengono che le domande sol­levate dalla religione, dalla fede e dall’etica non abbiano posto nell’ambito della ragio­ne pubblica, tale visione non è per nulla e­vidente. La libertà che è alla base dell’eser­cizio della ragione – in una università come nella Chiesa – ha uno scopo preciso: essa è diretta alla ricerca della verità, e come tale e­sprime una dimensione propria del cristia­nesimo, che non per nulla ha portato alla na­scita dell’università. In verità, la sete di co­noscenza dell’uomo spinge ogni generazio­ne ad ampliare il concetto di ragione e ad abbeverarsi alle fonti della fede. (...) L’autonomia propria di una università, anzi di qualsiasi istituzione scolastica, trova significato nella capacità di rendersi re­sponsabile di fronte alla verità. Cionono­­stante, quell’autonomia può essere resa va­na in diversi modi. La grande tradizione for­mativa, aperta al trascendente, che è all’ori­gine delle università in tutta Europa, è stata sistematicamente sovvertita, qui in questa terra e altrove, dalla riduttiva ideologia del materialismo, dalla repressione della reli­gione e dall’oppressione dello spirito uma­no. Nel 1989, tuttavia, il mondo è stato testi­mone in maniera drammatica del rovescia­mento di una ideologia totalitaria fallita e del trionfo dello spirito umano.
L’anelito per la libertà e la verità è parte ina­lienabile della nostra comune umanità. Es­so non può mai essere eliminato e, come la storia ha dimostrato, può essere negato so­lo mettendo in pericolo l’umanità stessa. È a questo anelito che cercano di rispondere la fede religiosa, le varie arti, la filosofia, la teologia e le altre discipline scientifiche, cia­scuna col proprio metodo, sia sul piano di un’attenta riflessione che su quello di una buona prassi.
(...) Deve essere riguadagnata l’idea di una formazione integrale, basata sull’unità del­la conoscenza radicata nella verità. Ciò può contrastare la tendenza, così evidente nella società contemporanea, verso la frammen­tazione del sapere. Con la massiccia cresci­ta dell’informazione e della tecnologia nasce la tentazione di separare la ragione dalla ri­cerca della verità. La ragione però, una vol­ta separata dal fondamentale orientamento umano verso la verità, comincia a perdere la propria direzione. Essa finisce per inaridire o sotto la parvenza di modestia, quando si accontenta di ciò che è puramente parziale o provvisorio, oppure sotto l’apparenza di certezza, quando impone la resa alle richie­ste di quanti danno in maniera indiscrimi­nata uguale valore praticamente a tutto. Il relativismo che ne deriva genera un camuf­famento, dietro cui possono nascondersi nuove minacce all’autonomia delle istitu­zioni accademiche. (...) In questo contesto di una visione emi­nentemente umanistica della missione del­l’università, vorrei accennare brevemente al superamento di quella frattura tra scienza e religione che fu una preoccupazio­ne centrale del mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II.
Egli, come sapete, ha promosso una più piena comprensione della rela­zione tra fede e ragione, intese come le due ali con le quali lo spirito u­mano è innalzato alla contempla­zione della verità (cfr Fides et ratio, Proemio). L’una sostiene l’altra ed o­gnuna ha il suo proprio ambito di azione (c­fr ibid., 17), nonostante vi siano ancora quel­li che vorrebbero disgiungere l’una dall’altra. Coloro che propongono questa esclusione positivistica del divino dall’universalità del­la ragione non solo negano quella che è una delle più profonde convinzioni dei creden­ti: essi finiscono per contrastare proprio quel dialogo delle culture che loro stessi propon­gono. Una comprensione della ragione sor­da al divino, che relega le religioni nel regno delle subculture, è incapace di entrare in quel dialogo delle culture di cui il nostro mondo ha così urgente bisogno. Alla fine, la «fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, so­la, è garanzia di libertà» ( Caritas in veritate, 9).
«Avvenire» del 29 settembre 2009

28 settembre 2009

Così il potere cancella i vinti

Una raccolta di saggi, curata da David El Kenz, rilegge la storia dell' umanità
di Giuseppe Galasso
Dagli assiri al colonialismo: civiltà e imperi fondati sulle stragi Funzioni simboliche Per le società mesopotamiche lo sterminio era un' affermazione di sovranità, per i greci uno strumento eccezionale di dominio
Il massacro non è il tema storico più ameno. A studiarlo come un puro oggetto storico, fuori di ogni ideologismo, mira il volume Il massacro nella storia, a cura di David El Kenz (Utet Libreria), e non per «una enciclopedia fattuale dei massacri», o analisi di tutti i fatti storici qualificabili come massacri, impresa irrealizzabile, bensì per chiarire come ogni storico, col proprio metodo, costruisca e racconti i massacri, anche in rapporto con «le memorie sociali delle stragi». Vi prevalgono episodi dell' età moderna e contemporanea. Ma El Kenz spiega che «in effetti, il massacro assunse, a partire dal XVI secolo, un ruolo importante nel pensiero occidentale», e gli storici avvertono «degli scrupoli e delle esitazioni a parlare di massacro», così come «i contemporanei non sembrano averne avuto una piena e chiara consapevolezza». Sulla renitenza degli storici moderni in fatto di stragi avrei più di una riserva. Qui emerge come per gli assiri il massacro «non fosse un tabù, ma che anzi fosse riprodotto sui monumenti come un simbolo della sovranità», sicché gli occidentali vi hanno visto «una prova della barbarie delle civiltà orientali». Per i greci, invece, sembra che «l' assassinio di massa resti un procedimento eccezionale utilizzato per consolidare un dominio politico». Per i romani il massacro degli alessandrini da parte di Caracalla serve come motivo di «discredito di uno stile politico». Il massacro dei francesi nel Vespro siciliano (30 marzo 1282) sarebbe all' origine di «un luogo di memoria fondatore di quella comunità». I massacri delle «guerre d' Italia» dal 1494 mettono in causa la «cesura accademica del Rinascimento», e diventano «il simbolo di una rottura irrimediabile tra un' età dell' oro», prima del 1494, e il dopo. Come per gli assiri, per il sultano turco «l' esecuzione a catena dei prigionieri di guerra» è «una cerimonia di Stato», ed egli vi «può esercitare la sua autorità indiscussa». Nelle «guerre di religione» europee tra Cinquecento e Seicento la spinta ad ampliare il potere dei sovrani porta a formare «una soglia di tolleranza di fronte alle violenze estreme». I massacri francesi nell' Algeria conquistata sono occultati per esaltare «l' espansione coloniale» e gli «imperativi militari». Ma qui si va da un estremo all' altro. Nella guerra dei Trent' anni (1618-48) gli storici tedeschi sottolineano «la "catastrofe nazionale" di un Paese diviso e impotente», mentre per i pellerossa c' è chi «ricusa una storia genocidaria» perché si è di fronte a «una precisa volontà di distruzione delle popolazioni solo localmente, senza preparazione d' insieme su scala statale». Così, il massacro turco degli armeni forma una paradossale «nozione centrale» per gli stessi storici che lo negano, e alimenta una tale «carica polemica» da spingere «a una sorta di "competizione" tra le vittime». Il massacro degli emigrati coreani in Giappone nel 1923 spinge «la storiografia neo-orientalista» a riprodurre «una visione della crudeltà asiatica tipica degli occidentali». Gli Einsatzgruppen tedeschi in Russia nel 1941, dediti alla «caccia» di vittime nel Paese occupato, evocano un'animalità disumana, ma ancor più l'idea che «la disumanizzazione appartiene ancora all' umanità». A loro volta, «i siti internet abbondano di immagini, ma deformano la realtà cronologica del massacro». Come si vede, l'esemplificazione è larga e interessante. Ma essa e i saggi più generali o di metodo del volume valgono a costruire una prospettiva storica che, senza ideologismi, oltrepassi la constatazione della presenza originaria, costante e frequente del massacro, e la varietà dei modi di raccontarlo e giustificarlo o di celarlo e trasfigurarlo, nelle storie degli uomini? Una società, si dice, dovrebbe ridefinirsi riesaminando il suo rapporto con le forme estreme di violenza. Decostruire, cioè, il massacro, decostruendo la sovranità e il sistema delle sovranità; e acquisire così «la risorsa di un pensiero possibile al di là del massacro». Nel nostro piccolo, anche questa ci pare ideologia. Decostruiamo e ricostruiamo tutto, ma senza illuderci o pretendere di andare oltre la storia, che è quella che è, e tale si annuncia «finché il sole - risplenderà sulle sciagure umane». Sì, oltre la storia e il tappeto di teschi che essa distende, non c' è che la storia stessa, ossia tutto l'altro che la storia fa, e che suona nascita e vita e fioritura e nobiltà della vita. Il pensiero che va oltre di essa è anch' esso nella storia, ne fa parte ed è una sua voce. Ed è per ciò che nella storia c' è stato il massacro, ma anche il suo rifiuto e la condanna nelle stesse religioni ed etiche civili che per altro verso lo hanno voluto e giustificato, e nella storia dei massacri non lo si può ignorare. In fatto di massacri l' uomo ha, insomma, sempre saputo quel che doveva sapere. Nel farne storia è già tanto stabilire «elementi di confronto tra i differenti racconti di massacro, pur rivelando delle logiche tipiche di ciascun contesto», come appunto è merito della parte più persuasiva e riuscita di questa originale ricerca.
Il volume «Il massacro nella storia» (Utet Libreria, pagine 512, Euro 33) è una raccolta di saggi su alcuni momenti tragici della vicenda umana. Curatore del volume è David El Kenz, docente di Storia moderna all' Università della Borgogna ed esperto delle guerre di religione
«Corriere della Sera» del 27 settembre 2009

Così il potere cancella i vinti

Una raccolta di saggi, curata da David El Kenz, rilegge la storia dell'umanità

di Giuseppe Galasso

Dagli assiri al colonialismo: civiltà e imperi fondati sulle stragi Funzioni simboliche Per le società mesopotamiche lo sterminio era un' affermazione di sovranità, per i greci uno strumento eccezionale di dominio

Il massacro non è il tema storico più ameno. A studiarlo come un puro oggetto storico, fuori di ogni ideologismo, mira il volume Il massacro nella storia, a cura di David El Kenz (Utet Libreria), e non per «una enciclopedia fattuale dei massacri», o analisi di tutti i fatti storici qualificabili come massacri, impresa irrealizzabile, bensì per chiarire come ogni storico, col proprio metodo, costruisca e racconti i massacri, anche in rapporto con «le memorie sociali delle stragi». Vi prevalgono episodi dell' età moderna e contemporanea. Ma El Kenz spiega che «in effetti, il massacro assunse, a partire dal XVI secolo, un ruolo importante nel pensiero occidentale», e gli storici avvertono «degli scrupoli e delle esitazioni a parlare di massacro», così come «i contemporanei non sembrano averne avuto una piena e chiara consapevolezza». Sulla renitenza degli storici moderni in fatto di stragi avrei più di una riserva. Qui emerge come per gli assiri il massacro «non fosse un tabù, ma che anzi fosse riprodotto sui monumenti come un simbolo della sovranità», sicché gli occidentali vi hanno visto «una prova della barbarie delle civiltà orientali». Per i greci, invece, sembra che «l' assassinio di massa resti un procedimento eccezionale utilizzato per consolidare un dominio politico». Per i romani il massacro degli alessandrini da parte di Caracalla serve come motivo di «discredito di uno stile politico». Il massacro dei francesi nel Vespro siciliano (30 marzo 1282) sarebbe all' origine di «un luogo di memoria fondatore di quella comunità». I massacri delle «guerre d' Italia» dal 1494 mettono in causa la «cesura accademica del Rinascimento», e diventano «il simbolo di una rottura irrimediabile tra un' età dell' oro», prima del 1494, e il dopo. Come per gli assiri, per il sultano turco «l' esecuzione a catena dei prigionieri di guerra» è «una cerimonia di Stato», ed egli vi «può esercitare la sua autorità indiscussa». Nelle «guerre di religione» europee tra Cinquecento e Seicento la spinta ad ampliare il potere dei sovrani porta a formare «una soglia di tolleranza di fronte alle violenze estreme». I massacri francesi nell' Algeria conquistata sono occultati per esaltare «l' espansione coloniale» e gli «imperativi militari». Ma qui si va da un estremo all' altro. Nella guerra dei Trent' anni (1618-48) gli storici tedeschi sottolineano «la "catastrofe nazionale" di un Paese diviso e impotente», mentre per i pellerossa c' è chi «ricusa una storia genocidaria» perché si è di fronte a «una precisa volontà di distruzione delle popolazioni solo localmente, senza preparazione d' insieme su scala statale». Così, il massacro turco degli armeni forma una paradossale «nozione centrale» per gli stessi storici che lo negano, e alimenta una tale «carica polemica» da spingere «a una sorta di "competizione" tra le vittime». Il massacro degli emigrati coreani in Giappone nel 1923 spinge «la storiografia neo-orientalista» a riprodurre «una visione della crudeltà asiatica tipica degli occidentali». Gli Einsatzgruppen tedeschi in Russia nel 1941, dediti alla «caccia» di vittime nel Paese occupato, evocano un' animalità disumana, ma ancor più l' idea che «la disumanizzazione appartiene ancora all' umanità». A loro volta, «i siti internet abbondano di immagini, ma deformano la realtà cronologica del massacro». Come si vede, l' esemplificazione è larga e interessante. Ma essa e i saggi più generali o di metodo del volume valgono a costruire una prospettiva storica che, senza ideologismi, oltrepassi la constatazione della presenza originaria, costante e frequente del massacro, e la varietà dei modi di raccontarlo e giustificarlo o di celarlo e trasfigurarlo, nelle storie degli uomini? Una società, si dice, dovrebbe ridefinirsi riesaminando il suo rapporto con le forme estreme di violenza. Decostruire, cioè, il massacro, decostruendo la sovranità e il sistema delle sovranità; e acquisire così «la risorsa di un pensiero possibile al di là del massacro». Nel nostro piccolo, anche questa ci pare ideologia. Decostruiamo e ricostruiamo tutto, ma senza illuderci o pretendere di andare oltre la storia, che è quella che è, e tale si annuncia «finché il sole - risplenderà sulle sciagure umane». Sì, oltre la storia e il tappeto di teschi che essa distende, non c' è che la storia stessa, ossia tutto l' altro che la storia fa, e che suona nascita e vita e fioritura e nobiltà della vita. Il pensiero che va oltre di essa è anch' esso nella storia, ne fa parte ed è una sua voce. Ed è per ciò che nella storia c' è stato il massacro, ma anche il suo rifiuto e la condanna nelle stesse religioni ed etiche civili che per altro verso lo hanno voluto e giustificato, e nella storia dei massacri non lo si può ignorare. In fatto di massacri l' uomo ha, insomma, sempre saputo quel che doveva sapere. Nel farne storia è già tanto stabilire «elementi di confronto tra i differenti racconti di massacro, pur rivelando delle logiche tipiche di ciascun contesto», come appunto è merito della parte più persuasiva e riuscita di questa originale ricerca.

Il volume «Il massacro nella storia» (Utet Libreria, pagine 512, Euro 33) è una raccolta di saggi su alcuni momenti tragici della vicenda umana. Curatore del volume è David El Kenz, docente di Storia moderna all' Università della Borgogna ed esperto delle guerre di religione




Pagina 37
(27 settembre 2009) - Corriere della Sera

«Av» del 2009

Il poeta che diede senso al nulla

L'omaggio dello scrittore Yves Bonnefoy al grande autore, mentre torna, arricchito, il Meridiano a lui dedicato
di Yves Bonnefoy
Giuseppe Ungaretti: un'arte che coglie l'essenza, modello per Oriente e Occidente Il ricordo «Lo incontrai nel 1967 a Londra. Mi fece pensare a un contadino, una parola che in saggezza e tenacia abbraccia tutte le contrade dell'umanità»
Nella storia della ricezione critica delle opere di Giuseppe Ungaretti, questo 2009 non passerà inosservato. Con il nuovo Meridiano delle sue poesie complete, a quarant' anni di distanza dalla prima edizione, si offre infatti al lettore uno straordinario strumento di lavoro. E non solo di lavoro, naturalmente. La raccolta esaustiva di questa grande opera poetica è un dono per tutti quelli che amano Ungaretti o sono destinati ad amarlo. È un libro che molti metteranno in grande rilievo nella loro biblioteca, oppure si porteranno in viaggio - perché in valigia non occupa troppo spazio. Di certo la prima e irresistibile reazione di chiunque si assuma il compito di segnalare questa definitiva Vita d'un uomo non potrà che essere di ammirazione: ammirazione per il lavoro critico che l' ha consentita, impresa di ampio respiro magistralmente condotta da Carlo Ossola, che ha scritto il saggio introduttivo e ha affidato a Francesca Corvi e Giulia Radin il compito di stabilire le varianti del testo, nonché di redigere insieme a lui il commento alle diverse raccolte di Ungaretti, commento affiancato dalle indicazioni e riflessioni del poeta stesso che occupano molte pagine appassionanti e insostituibili. Il volume è completato da cinque saggi su Giuseppe Ungaretti, ripresi dall' edizione del 1969: insomma, un lavoro monumentale. È certamente l' edizione definitiva dell' aspetto più importante nella multiforme produzione di questo poeta (di cui i Meridiani hanno peraltro pubblicato anche le altre parti, Saggi e interventi e Viaggi e lezioni, e alle quali prossimamente si aggiungerà il corpus delle traduzioni). Personalmente, non sono che un lettore straniero del grande italiano e non posso presumere di apprezzare da competente questo apporto critico, nutrito com' è da una conoscenza sconfinata della storia letteraria italiana. Mi asterrò anche dall' entrare nei dettagli di tutto ciò che in queste note e commenti scopro su Ungaretti in Francia; Ungaretti, le cui poesie francesi compaiono naturalmente nel volume suggerendo accostamenti - e qualcosa da dire ci sarebbe anche a proposito di Reverdy - che vanno al di là delle amicizie e delle influenze note, da Apollinaire a Bergson, da Cendrars a Jean Paulhan o André Breton. Mi limiterò a un' osservazione, ispirata dal notevolissimo saggio introduttivo di Carlo Ossola, e a una rievocazione, il ricordo di un incontro che questa edizione illumina di nuova luce. L' osservazione riguarda la poesia stessa di Ungaretti, in quanto questa raccolta delle sue poesie e il loro commento mi mostrano con inedita evidenza fino a che punto questo poeta sia nostro contemporaneo per il semplice fatto di essere poeta: poeta eterno, poeta che vive la poesia in ciò che in essa permane di più essenziale e dunque di immutabile, che nessun abbaglio o confusione di opere di minor portata potrà mai offuscare. In cosa si manifesta tale modernità e atemporalità? In un sentimento del nulla che soggiace a tutto ciò che per noi è, ed è importante, e subito dopo nella decisione, altrettanto spontanea e irrevocabile, di trasformare quel nulla in poesia, essendo la parola poeticamente rinnovata il luogo di uno scambio che possiamo concepire come l' essere stesso. Come suggerisce Carlo Ossola, ci si deve soffermare sulla breve poesia che apre l' edizione definitiva di L' Allegria; due soli versi, intitolati «Eterno»: «Tra un fiore colto e l' altro donato / l' inesprimibile nulla». Con il che si dice, nella più pura logica leopardiana, che tutto è nulla, ma che nella poesia che non rinnega se stessa il dono, lo scambio, il riconoscimento dell' Altro sono in grado di trionfare sul nulla. E quando leggo gli scritti di Ungaretti sull' arte barocca e su Michelangelo (secondo lui - non a torto - inventore di quell' arte), quando vedo che per definirli egli ricorre a parole come «il sentimento dell' orrore del vuoto, cioè dell' orrore di un mondo privo di Dio», constato fino a che punto coloro che fanno poesia possano, ancora oggi, identificarsi con lui allorché si abbandonano all' esperienza fondamentale che costituisce la grandezza e l' azzardo della scrittura. Oggi, e in Occidente; non meno però che in Oriente. Perché, quando attinge così alla propria essenza, la poesia coincide con l' intuizione che si trova all' origine del buddismo e del taoismo. Il che mi conduce alla rievocazione che annunciavo. È la rievocazione di Ungaretti stesso, così come mi apparve la prima volta nei pochi e soli giorni in cui ebbi la possibilità, la fortuna e l' onore di incontrarlo. Era il 1967, a Londra, dove si svolgeva, per una settimana, il convegno «Poetry International», che per iniziativa di Ted Hughes riuniva quell' anno un gruppo particolarmente rappresentativo di grandi poeti dell' epoca: c' erano infatti, tra gli altri, Pablo Neruda e Octavio Paz, John Berryman e Anne Sexton, Robert Graves, W.H. Auden, Hugh Mac Diarmid, Ingeborg Bachmann. E Ungaretti. Ricordo che un mattino eravamo più d' uno ad attendere lui, che arrivava dall' Italia, davanti alla porta di un ascensore. La porta si aprì e apparve il vecchio poeta, appoggiato a un bastone ma anche al braccio di Allen Ginsberg che dopo il loro recente incontro - a Roma, credo - si era improvvisato, con la gentilezza che gli era propria, sostegno della sua vecchiaia. Guardai Ungaretti con l'interesse che si può immaginare. Colui che vedevo dinanzi a me non era forse il grande spirito che aveva rifondato la poesia italiana, nonché il poeta bilingue che aveva lasciato la sua indelebile impronta su uno dei momenti decisivi dell' avanguardia francese? Non era forse un europeo come mi auguravo che ce ne fossero, in quel momento della storia in cui cominciavamo a sperare che il nostro disgraziato continente provasse infine a mettere in comune le sue immense risorse di pensiero e di poesia? Eppure, di primo acchito, quel vecchio che apparve sulla soglia dell' ascensore più che a uno dei soliti intellettuali mi fece pensare a un contadino, nel senso più ampio di questa parola la quale in saggezza e tenacia abbraccia tutte le contrade dell' umanità. Un italiano, certo, Ungaretti, ma con in sé tutto ciò che la storia della penisola aveva mescolato nelle civiltà, pagane e poi cristiane, che in essa si erano succedute. Un viso che sembrava risalire dal fondo dei tempi, portatore di un' evidente capacità di comunicare con potenze ctonie e di non sentirle come malefiche, purché con esse si sapesse parlare. In quel riso e in quelle rughe, la stessa generosità e malizia, lo stesso volto, la stessa maniera di essere nel mondo di certe maschere dell' arte contadina giapponese che raffigurano il vecchio saggio e benevolo, per sua natura guaritore. Ungaretti: la prova, con la sua presenza, che la poesia non è anzitutto un testo bensì un soggetto, un ascolto. Che la poesia è sì insostituibile, ma lo è in quanto esercizio che permette di rendere più intenso e perenne questo modo di porsi dinanzi agli altri, e dinanzi al nulla, e al mondo che l' umanità le contrappone. Di fronte a questo Meridiano, ringrazio i suoi curatori, che anch' essi, nelle poesie, ci fan vedere un volto. Che confermano che la parola è volto.
(Traduzione di Gabriella Mezzanotte)
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d' Egitto nel 1888 e morì a Milano nel 1970. Tornato in Italia dopo un soggiorno a Parigi, partecipò alla Grande Guerra Yves Bonnefoy, nato nel 1923, è un celebre poeta e saggista francese La raccolta delle liriche di Ungaretti inaugurò, nel 1969, i Meridiani Mondadori. Oggi la collana diretta da Renata Colorni ripropone il volume in una versione arricchita e ampliata, con due poesie inedite. «Giuseppe Ungaretti, Vita d' un uomo» (pp. CLIV- 1.435, 55), è a cura di Carlo Ossola, autore anche del saggio introduttivo.

«Corriere della Sera» del 27 settembre 2009