30 agosto 2009

La coscienza orfana della legge

di Barbara Spinelli
Stando a un sondaggio di SkyTg24, sono molti gli italiani convinti che i cinque eritrei sopravvissuti alla morte nel Mediterraneo vadano processati per reato di immigrazione clandestina: il 71 per cento. Su quel barcone sono periti 73 fuggiaschi, tra il 18 e il 20 agosto, eppure non sembra esserci emozione di fronte al naufragio ma solo famelica ansia di allontanare gli alieni dalle nostre terre, con ogni mezzo. Erano uomini di troppo i sommersi, e lo sono anche i salvati. I ministri di Berlusconi ne approfittano per ricordare che i respingimenti funzionano, che si fan rari gli intrepidi che tentano le traversate: nessuno porta il lutto per i sommersi né immagina quel che hanno vissuto i salvati. Se ci son colpe, è l’Europa a commetterle. La miseria del mondo non può addensarsi sul Sud del continente. Non siamo buoni al punto da esser fessi: questo fanno capire Maroni, Calderoli, e gli italiani sembrano sostenerli.
Ma forse l’opinione pubblica li sostiene perché scandalosamente male informata, non solo su quello che accade nel mondo ma su quello che succede in Italia, nell’anima d’ognuno di noi. Gli italiani non sono informati, e ancor meno formati, da guide morali alla testa del paese. Non conoscono l’insipienza di un’Unione europea incapace di darsi regolamenti vincolanti e rispettosi dei diritti, riguardo agli immigrati irregolari. Non sanno quel che prescrivono le convenzioni internazionali, la Costituzione, e le antiche leggi del mare che obbligano al salvataggio del naufrago anche in acque territoriali straniere (Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, cap 11 e 12; Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, cap 98, 1 e 18,2).
Abbiamo parlato di emozione, ma non è l’unico istinto a far difetto. Quel che è profondamente incrinato, se non spezzato, è il rapporto che gli italiani - cominciando da chi oggi pretende di governarli - hanno con la legge. Quale che sia la legge, nazionale o internazionale, essa è vista come qualcosa di esterno al singolo, allontanata dalla nostra coscienza. È come se la coscienza nazionale e dell’individuo avesse preso le sembianze e il lessico di un’azienda. Nelle aziende si usa esternalizzare a imprese terze la gestione di alcune operazioni che non fanno parte del core business. Così la coscienza: dal suo core business, dalla sua principale attività, il senso della legge viene scacciato in terre aliene.
Questo allontanamento non è in verità nuovo. Piero Calamandrei lo smascherò, il 30 marzo 1956, quando pronunciò a Palermo la sua ultima arringa in tribunale, in difesa di Danilo Dolci e della sua protesta (sciopero della fame contro i pescherecci contrabbandieri tollerati dal governo; sterramento gratuito di una strada abbandonata presso Palermo, da parte di gruppi di disoccupati). Narrando la «maledizione secolare» dell’Italia disse: «Il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e soffocare sotto carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami».
Quel che è cambiato, dal ‘56, è che nel frattempo non sono solo i poveri a farsi un’idea soffocante della legalità, della giustizia, dello Stato di diritto. Se Berlusconi è tanto popolare, se a Nord la Lega è oggi il primo partito operaio, vuol dire che anche i ricchi si sentono gabbati e schiacciati da ogni sorta di regole: legali, costituzionali, internazionali. Che l’esteriorizzazione della legge è ormai una patologia diffusa, intensificata da una ostilità senza precedente alla stampa veramente libera. Se si esclude il dramma degli immigrati, la legalità e la battaglia alla corruzione non sono prioritarie neppure per alti esponenti della Chiesa, che pur di ottenere favori e pubblicità accettano di compromettersi. Di qui la sensazione che siamo male informati anche su quel che succede nei nostri animi. Una coscienza che delocalizza la legge è vuota, è pelle senza corpo. Neppure le riforme economiche riescono, in queste condizioni. Diceva ancora Calamandrei che democrazia è innanzitutto «fiducia del popolo nelle sue leggi»: leggi che il popolo sente «come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro, non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così» (i corsivi sono miei).
La legge del mare violata più volte negli ultimi anni è una delle nostre leggi: plurisecolare, fu codificata fra il ‘700 e il ‘900. Lo stesso dicasi per le condotte private che l’uomo pubblico deve avere per divenire modello oltre che capo o dirigente. All’inizio, tutte queste erano leggi non scritte, ataviche. Una sorta di permanente stato di eccezione ha sospeso anche le leggi che Antigone difende contro i decreti d’emergenza di Creonte. «Antigone obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire», dice Calamandrei. Oggi tali leggi sono scritte, proprio perché si è riconosciuto che oltre a portare ordine sono anche annunciatrici dell’avvenire.
La maledizione antica si è fatta più spavalda, nei 15 anni passati. Non solo manca la fierezza della legge. C’è una sorta di fierezza dell’illegalità, ci sono tabù di civiltà fatti cadere con spocchia. Il degrado non è avvenuto con lo sdoganamento di Alleanza Nazionale, come si credette nei primi anni ‘90, ma con lo sdoganamento delle idee, degli atti, delle parole della Lega. E di questo affrancamento non è responsabile solo Berlusconi. È responsabile anche la sinistra, incurante dei principi quando è in gioco il potere (D’Alema parlò dei leghisti come di una «costola della sinistra», negli anni ‘90). Lo è ancor più da quando il Nord leghista si è ulteriormente disinibito. In ben 17 comuni del Veneto, il Partito democratico governa oggi con la Lega, senza rimorsi.
È lunga ormai la lista delle devianze leghiste, e quasi ci meravigliamo che all’estero non ci si abitui come ci siamo abituati noi. Ma come abituarsi a quanto sentito in coincidenza con l’ecatombe di agosto! Una pagina Facebook di militanti della Lega Nord con sede a Mirano, cui sono legati da «amicizia» oltre 400 persone, ha esibito qualche giorno fa la scritta: «Immigrati clandestini: torturali! E’ legittima difesa». Tra gli amici citati: Bossi e il figlio Renzo, Cota capogruppo della Lega alla Camera, Boso ex parlamentare leghista. Lo stesso Renzo Bossi ha ideato un gioco di gran successo, sulla pagina di Facebook della Lega. S’intitola: «Rimbalza il clandestino». Più barche affondi, con un clic preciso e deciso, più punti vinci. Soprattutto se i barconi son grandi e i profughi molti.
Tuttavia c’è un’immensa ansia di redenzione in Italia - e in particolare di redenzione attraverso la Legge - che si esprime in vari modi e ha i suoi protagonisti solitari, cocciuti, impavidi. Il desiderio di redenzione è passione civile, non solo religiosa. Ne furono pervasi scrittori del ‘900 come Walter Benjamin e Hermann Broch, durante il nazismo. In Italia ne ebbero sete uomini come Borsellino, Falcone, Ambrosoli, Pasolini, e oggi Roberto Saviano. È strano come i loro vocabolari si somiglino. Borsellino sognava il «fresco profumo di libertà», contro «il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, della complicità».
E altri sognarono aria pulita e uno Stato riformato. Checché ne dicano i sondaggi non c’è italiano, credo, che non aneli a quell’aria pulita e a quel fresco profumo.
«La Stampa» del 30 agosto 2009

Quei capolavori del ’900 non compresi da critica, editoria e mercato

Errori e sviste dell’editoria italiana
di Massimo Onofri
Il libro, uno dei più mitizzati del Novecento italiano, s’intitola Le lettere ed appare nell’agosto del 1914 per l’editore Bontempelli di Roma. L’ha scritto il giovane Renato Serra, che vi tenta un bilancio generale dell’attività letteraria italiana in corso. De Roberto vi è appena nominato (e non per il suo capolavoro, I Viceré): ma solo un gradino più su di Beltramelli, ritenuto, sulla scorta di Croce, scrittore poco originale e faticato, epperò sincero. Anche Pirandello – che aveva già scritto alcune formidabili novelle, Il turno, L’esclusa, Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, il saggio L’umorismo – vi figura, ma ritratto sullo sfondo, e dentro un mediocre quadretto di famiglia, tra Grazia Deledda, Amalia Guglielminetti e gli ormai dimenticati – alzi la mano chi se li ricorda: eppure, allora, godevano d’un grande successo di pubblico – Luciano Zuccoli, Virgilio Brocchi e Carola Prosperi. Il libretto di Serra ha l’indubbio e per niente piccolo merito di fare il punto anche sugli aspetti materiali, non solo estetici, della circolazione libraria, anticipando di molto quegli approcci sociologici, e di mercato, che pure sono così importanti per capire al meglio la storia culturale d’un Paese: ma il quadro dei valori che ne emerge, in pagine che scommettono sull’eccellenza dello squisito Alfredo Panzini, resta sconfortante. Non credo valga appellarsi a uno di quei principi inviolabili della ricerca storica: che, cioè, la visuale del Serra era troppo ravvicinata per rimproverargliene l’attendibilità. Basterebbe solo opporre l’esempio di Giuseppe Antonio Borgese che dal Serra, nel suo libello, viene letteralmente massacrato, il quale nel 1929 (e dalle colonne del più importante quotidiano italiano, il Corriere della Sera) non mancava l’appuntamento con due ventenni che, per di più, avevano pubblicato quasi alla macchia, mentre li consegnava per sempre a formule critiche di straordinaria suggestione: dico Mario Soldati e Alberto Moravia.
Se ho citato il libro di Serra è perché resta una perfetta dimostrazione di quali e quante imprevedibili alchimie stiano a capo di quel processo attraverso cui un autore o un’opera vengono consacrati e canonizzati. Per un canone di valori che, con buona pace di Harold Bloom, resta sempre instabile e oscillante: quando è vero che persino l’immane Dante, magari su autorizzazione del Bembo di turno (che non era certo uno qualsiasi), ne ha conosciuto, in qualche momento, l’esclusione. Alchimie, bisognerà aggiungere, che nel nostro Novecento hanno contato sulla combinazione di tre fondamentali elementi: critica, editoria, mercato. Se torniamo ai tre padri fondatori italiani del secolo scorso – Pirandello, Svevo, Tozzi –, ci si rende conto di come sia stata propria la critica, oggi così negletta, a giuocare il ruolo principale. Senza Tilgher, che pure ne fece un mezzo filosofo tedesco (suscitando le giuste rampogne di Croce), il successo di Pirandello non sarebbe stato lo stesso. Quanto a Svevo, i cui primi due romanzi non psicanalitici – Una vita e Senilità – furono appena notati dalla sola stampa triestina, ineludibile è la domanda: senza l’intercessione di Joyce che favorì il trionfo francese della Coscienza di Zeno, e l’intervento immediatamente successivo d’un già autorevole Montale, le cose sarebbero andate come sono andate? Non dico poi di Tozzi, la cui opera ebbe come erede testamentario il solito Borgese (che, a dire il vero, ci mise anche pesantemente le mani), per un’immagine oggi di fondamentale rilievo sperimentale e epistemologico, che tutto deve alle indagini decisive di Debenedetti e Baldacci.
Si può trascurare, dentro un discorso sui capolavori contrastati del Novecento, il caso Morselli? Certamente no: visto che, a valle di quell’incolmabile frustrazione (infinitamente procrastinata) per la mancata pubblicazione dei suoi romanzi, ci scappò persino il suicidio dello scrittore. Del resto: come poteva trovare asilo, nell’Italia di tutti gli storicismi progressivi, uno scrittore che calava la politica e l’ideologia dentro un dramma privato ed esistenziale (Il comunista), oppure così beffardamente controstorico da costruire un romanzo (e un futuro) a partire dall’ipotesi d’una Prima guerra mondiale vinta, invece che dalle potenze dell’Intesa, dagli Imperi centrali (Contro-passato prossimo), con incredibili conseguenze: e non voglio dire d’un altro libro, pure fantasticato dentro i territori della distopia, come Roma senza papa. Per certificare le ingiurie dei contemporanei ai danni del genio, s’è fatto spesso, quanto a Morselli, l’esempio del conterraneo e allora popolarissimo Piero Chiara. Oggi Morselli è celebrato dal prestigioso impegno della casa editrice Adelphi, mentre Chiara giacerebbe negletto nella sua tomba, quasi del tutto ignorato (e assai ingiustamente), se non ci fosse stato il recente Meridiano Mondadori a riportarlo all’attenzione di pubblico e critica: questo, per dire dei ritmi inesorabili d’un pendolo che oscilla, misterioso, tra oblìo e glorificazione.
Tutta colpa degli editori, allora? Forse sì e forse no, se è vero che il postumo Gattopardo, altro clamoroso caso di metà secolo e primo best seller italiano, fu certo rifiutato da Einaudi, per essere però pubblicato dalla mitica Feltrinelli gestione Bassani: laddove l’einaudiano Vittorini, per altro, come ha definitivamente dimostrato Gian Carlo Ferretti, ha molte meno colpe (se poi ne ha davvero avute), nella censura del capolavoro, di quante una vulgata dura a morire continua ad attribuirgliene.
Senz’altro no, invece, se si pensa a Stefano D’Arrigo la cui Horcynus Orca è stata di recente considerata da George Steiner, insieme a Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, il vero capolavoro della letteratura italiana del Novecento: un’opera mastodontica in cui la lingua va come in metastasi, radicalmente anticommerciale, che non sarebbe mai esistita se Arnoldo Mondadori non avesse assicurato allo scrittore, e per anni, un congruo stipendio per cui potesse lavorare in pace. Ho citato Satta, scrittore stupefacente (nonché teorico del diritto di altissimo livello), la cui famiglia, prima di conoscere la consacrazione (ancora postuma) adelphiana, fece molta fatica a far stampare il romanzo, che inizialmente finì nelle collane d’una casa editrice specializzata in pubblicazioni giuridiche come la Cedam.
Va pure detto, però, che ci sono stati scrittori che hanno fatto di tutto per resistere agli editori che volevano pubblicarli. Ultimo, il caso di Gesualdo Bufalino, autore tra i più struggenti e significativi di fine secolo scorso: Elvira Sellerio, Leonardo Sciascia ed Enzo Siciliano, che avevano intuito il romanziere occultato nell’elegantissima prefazione che aveva redatto per un libro di vecchie foto comisane, dovettero fare di tutto, ed anche di più, per stanare il vecchio e renitente professore. Ne sarebbe uscito quel gioiello che è Diceria dell’untore.
Chiudo con un accenno a un caso controverso e che riguarda l’unico scrittore esplicitamente filonazista che l’Italia repubblicana abbia mai avuto: mi riferisco al Dante Virgili di La distruzione, su cui Antonio Franchini ha scritto un libro bellissimo e pieno di sensi di colpa, Cronache della fine, cui rimando. Capolavoro assoluto o monumento d’ignobiltà, questo di Virgili? Difficile rispondere se, alle sue spalle, e pronto a schiacciarlo, aleggia il fantasma di Céline con tutti gli equivoci (tra immoralismo estetico e moralismo eticizzante) che il suo caso ha generato, proprio quando un giovane ebreo americano naturalizzato francese, Jonathan Littell, con un libro di quasi mille pagine scritto dal punto di vista di un ufficiale delle Ss, ha offerto il suo contributo, ad accrescere, con la confusione, anche la nostra incertezza.
«Avvenire» del 23 agosto 2009

Vecchie pieghe al nostro pensiero sulla scuola

Della società, non dello stato
di Giuseppe Dalla Torre
Le recenti polemiche sull’ora di reli­gione hanno evidenziato, ancora u­na volta, quanto siano diffusi certi sin­golari modi di concepire la scuola 'pub­blica'.
Uno di questi attiene al rapporto tra Sta­to, scuola e società civile. Si parla spes­so, infatti, di scuola statale intenden­dola – forse non del tutto lucidamente – come apparato attraverso il quale lo Stato modella la società nelle sue più giovani generazioni. Siffatto modo di concepire la scuola pubblica ha radici nella nostra storia. In effetti, nell’età po­st- risorgimentale, quando realizzata l’I­talia si dovevano formare gli italiani, la scuola statale fu l’apparato attraverso il quale la classe sociale che aveva fatto il Risorgimento cercò, tra l’altro, di mo­dificare la cultura dominante nelle mas­se popolari, tradizionalmente cattoli­che, per orientarla piuttosto nel senso di un’ideologia laica. Si pensi solo alla lettura per eccellenza, e di tanto suc­cesso, delle prime classi scolastiche: il Cuore di De Amicis. Ebbene, in questo testo, pure di buona letteratura, di ec­cellenti sentimenti, di ispirati valori ci­vici e morali, che raffigura nei partico­lari la vita quotidiana dell’'Italietta', si parla di tutto, ma non c’è mai un riferi­mento a Dio, alla religione, alla Chiesa; passano reggimenti con la bandiera na­zionale, di fronte alla quale si invitano i piccoli astanti a togliersi il copricapo, ma non passano mai processioni o fu­nerali religiosi; si parla dell’aula, e del suo arredo, dove insegnava la maestri­na dalla penna rossa, ma non si fa mai cenno al crocifisso che pure era appe­so sul muro alle sue spalle.
Ora, è davvero singolare questa rap­presentazione dell’Italia del secondo Ottocento, da cui religione e cattolice­simo, assolutamente dominanti nella vita pubblica e sociale, sono del tutto silenziati e ignorati. Lo stesso potrebbe dirsi per il capolavoro di Collodi, Pi­nocchio; e la giusta osservazione se­condo cui dietro la morale laica del rac­conto è tutta l’anima cattolica dell’Ita­lia altro non è, a ben vedere, che il «per­ché non possiamo non dirci cristiani» di Benedetto Croce.
Si tratta dunque di una letteratura tal­mente lontana dalla realtà, da indurre a pensare che ci fosse una volontà di modificare, attraverso di essa, senti­menti e cultura dominanti.
Poi venne il fascismo, ed a maggior ra­gione la scuola statale divenne luogo privilegiato di indottrinamento e di ma­nipolazione delle intelligenze, nel con­testo di una più generale politica del re­gime diretta ad educare verso l’ideolo­gia dominante. È singolare che, nonostante l’avvento della Repubblica e della sua Carta co­stituzionale, quel modo di concepire la scuola di tanto in tanto riaffiori. La Co­stituzione, infatti, con i suoi principi del personalismo e del pluralismo, con il suo orientamento degli apparati pub­blici secondo criteri di sussidiarietà, con la sua valorizzazione della società civi­le, postulerebbe un pensare diverso. Nella misura in cui lo Stato è a servizio della società civile, e non viceversa, la scuola statale dovrebbe essere appara­to formativo a servizio della società ci­vile e non il contrario. La scuola è di Sta­to perché dallo Stato è istituita e man­tenuta, ma è la casa della società civile, in cui questa forma le più giovani ge­nerazioni. Ad eccezione dei valori e principi costituzionali, che fondano il vivere insieme, lo Stato non ha un suo pensiero al quale indottrinare, lascian­do che nella sua scuola si rifletta la so­cietà civile nella sua realtà e comples­sità.
Se ci si pone in questa prospettiva, an­che la questione della laicità dello Sta­to, risollevata nelle polemiche sull’ora di religione, acquista un differente pro­filo. Perché laico è certamente lo Stato, che non ha una religione od una ideo­logia da imporre ai consociati; ma laica non è la società civile, nella quale la re­ligione è e si esprime pubblicamente
«Avvenire» del 25 agosto 2009

Terre d’incontro o piazze senza regole: i «social network» al bivio decisivo

Esame di maturità per le reti sociali che proliferano su internet
di Gabriele Gabrielli
Se non sai usare i social network, come Facebook e Twitter, o non hai confidenza con un motore di ricerca, corri un grosso rischio: essere tagliato fuori dalla società.
Questa opinione, che si va sempre più diffondendo, è ora accreditata anche dalle preoccupazioni espresse da Viviane Reding, Commissario per i Media e la Società dell’informazione dell’Unione Europea, che invita gli Stati membri e l’industria a sensibilizzare maggiormente il pubblico educandolo sul funzionamento e sull’utilità di tali nuovi strumenti di comunicazione. Tutto vero. Il fascino del social networking è forte; con la sua facilità d’uso ti consente di creare relazioni, gestire e ' respingere' amicizie, partecipare a discussioni, promuovere idee e prodotti, sostenere campagne elettorali e movimenti di opinione; insomma, di « rimanere in contatto con le persone della tua vita » , come si legge nella pagina di apertura di Facebook. Ma anche di perdere tanto tempo.
È stata questa la valutazione che ha portato Bill Gates, uno che di innovazione se ne intende, a cancellarsi da Facebook, dando così una mano autorevole a quanti rifiutano di pensare che la vita possa essere monopolizzata dai social network.
Ben vengano allora tutti quei programmi che hanno la finalità di educare a un uso accorto e consapevole di questo straordinario strumento. Anche perché non passa giorno che la cronaca non ci mostri i molteplici rischi e i danni connessi a un suo uso superficiale o irresponsabile.
Soltanto negli ultimi giorni registriamo almeno questi tre fatti. Leggiamo che il ministero tedesco per la difesa dei consumatori ha anticipato alcuni contenuti di una ricerca dalla quale emerge che sono sempre più numerose le imprese ( sino al 50% di quelle con oltre mille dipendenti) che ricercano su Internet informazioni su gusti e preferenze dei candidati a un posto di lavoro. E quattro volte su cinque queste informazioni vengono prese prima di chiamare il candidato a un colloquio.
Qualche volta le aziende, assunte le opportune informazioni curiosando tra interessi, hobby e opinioni personali sui social network, decidono di soprassedere.
Occorre fare attenzione allora a cosa pubblicare in rete, perché ci può andare di mezzo anche la nostra carriera.
Altra notizia. Alcuni studenti, appena ottenuta la licenza media, hanno deciso di aprire un gruppo di discussione su Facebook dove sembra si siano lanciati in commenti poco edificanti su una loro insegnante che, informata da una amica, li ha denunciati per diffamazione. « Non pensavamo di fare qualcosa di illegale, tutti parlano male dei loro insegnanti » , hanno commentato i ragazzi. Perché non crederci?
Questa visione mette in luce, del resto, uno dei rischi più gravi che si vanno diffondendo; considerare quello del social network come un mondo a sé, un luogo virtuale dove regnano diritti di 'extraterritorialità' che mettono in ibernazione le regole del vivere civile e del rispetto delle persone. Sulla rete così ci si può permettere di tutto; le sue piazze diventano territorio del ' tutto è possibile', una specie di « teatro di maschere » , come l’ha chiamato il sociologo Ilvo Diamanti, dove il confine tra comunicazione ed esperienza svanisce in « un mondo di relazioni senza empatia » . Ma la rete non può essere luogo di ' immunità'. Intanto però i social network diventano anche strumento per offendere e luogo per ospitare iniziative che rinforzano sentimenti e atteggiamenti ' contro' il rispetto dei più elementari diritti umani.
Come si fa allora a non condividere l’invito del Commissario europeo a lavorare in modo tale da mettere i cittadini « in condizioni di utilizzare i media con competenza e creatività » ? È fuori dubbio che questo « sarebbe un passo avanti verso una nuova generazione di partecipazione democratica » , purché non si dimentichi che i social network vanno utilizzati, prima di tutto, « con responsabilità » .
«Avvenire» del 26 agosto 2009

Il relativismo e la fuga dei laicisti

Paranoie della modernità. Così ci si allontana dal reale
di Francesco D'Agostino
Così le ha chiamate Giovanni Jervis, l’illustre psicoanalista da poco scomparso: paranoie della modernità. Jervis alludeva alle innumerevoli forme di sospetto e soprattutto di 'iperinterpretazione' che a livello di mentalità diffusa vengono elaborate contro ciò che non vogliamo far rientrare nei nostri schemi mentali. Invece di cercare di conoscere le cose come stanno, di scioglierne i nodi, di comprometterci con la realtà, la respingiamo, la stigmatizziamo, facendo in modo di trovarci sempre dalla parte dei 'buoni' e di qualificare quelli che ci si contrappongono come 'cattivi'. Gli esiti di questo atteggiamento possono essere più o meno gravi, ma in ogni caso attivano incomprensioni, regressi culturali, fraintendimenti, faziosità e soprattutto il più delle volte arcigne forme di ostilità che è difficilissimo rimuovere. Si vuole un esempio? Pensiamo a come la cultura laicista sta (mal) recependo una delle dimensioni del magistero di Benedetto XVI, la condanna del relativismo. È evidente che per il Papa l’alternativa al relativismo è Cristo stesso, l’unico uomo nella storia che abbia mai detto di se stesso: «Io sono la verità». Ma è anche evidente che l’insegnamento del Papa sul relativismo non ha un’esclusiva finalità catechetica: anche il non credente (e Giovanni Jervis era tra questi) è bene in grado di percepire come nel mondo di oggi il relativismo sia un cancro non solo 'teoretico', ma soprattutto 'pratico': infatti, se il bene non è oggettivo (ma il cristiano, con Dostoevskij, direbbe piuttosto: «Se Dio non c’è») perché non dovremmo permetterci letteralmente tutto, anche le azioni più infami e crudeli, ove fosse nelle nostre possibilità compierle impunemente? Qui nasce il problema, che molti laicisti rifiutano addirittura di riconoscere come un problema, riducendo il discorso del Papa a quello di chi, volendo fondare l’etica su Dio, arriverebbe di fatto a fondarla solo sulla minaccia dell’inferno (!!!). «Non va bene così!», essi ci spiegano pazientemente: l’etica si fonda sull’autonomia! Come può chi voglia comportarsi moralmente abdicare all’autonomia individuale, al principio fondamentale dell’umanesimo? Paranoie della modernità. Dio viene pensato dai laicisti non come colui che ci dà la libertà, ma colui che, per il solo fatto di esistere, ce la toglierebbe.
Scatta qui l’'iperinterpretazione': non solo Dio ci toglierebbe la libertà, ma arriverebbe a toglierci anche l’amore: se è Dio che ci ha amato per primi, come potremmo noi a nostra volta amare 'autonomamente' ed essere moralmente soddisfatti di noi stessi? E a questo punto la paranoia diviene di fatto un vero e proprio delirio: non si nasconderà dietro il riferimento a Dio – si chiedono alcuni – un’occulta e malevola volontà da parte dei nostri parlamentari di clericalizzare la nostra legislazione, di darci leggi che assomigliano più a precetti religiosi che a norme giuridiche? «Opinioni!», faceva dire Ugo Foscolo al suo Didimo Chierico. Dobbiamo rispettare le opinioni di tutti. Opinioni, certamente, ma corrosive. Opinioni che ci indeboliscono moralmente, che ci inducono a ritenere che esistano comunque in noi forze adeguate, in grado di autorigenerarci ogni giorno. E se queste forze ci portassero verso l’indifferenza, il disimpegno, l’egoismo, la crudeltà? Quando la nostra coscienza morale viene davvero messa alla prova dal male presente nel mondo, quando pensiamo ai cadaveri degli extra-comunitari annegati nel canale di Sicilia, capiamo che l’etica non si fonda sulle nostre autonome, insindacabili opinioni, per nobili che esse pretendano di essere, ma su di una radicale e doverosa scelta per il bene. Possiamo liberarci dalle paranoie della modernità?
Possiamo, perché dobbiamo. La paranoia altera la nostra percezione della realtà, la impoverisce e la umilia. Dal richiamo a Dio e (con un linguaggio più filosofico) all’Assoluto non abbiamo nulla da temere. Lo sapeva benissimo perfino il più cinico degli illuministi settecenteschi, quando insegnava che solo Dio può essere il garante morale dell’umanità. Per noi, che non siamo illuministi (o non lo siamo in quel senso), Dio è ben altro che il controllore del buon comportamento sociale degli uomini: è nostro 'padre'. E quando si comprende che del padre non bisogna aver paura, perché tutto ciò che egli ci chiede è solo fiducia ed amore, che cominciamo a liberarci dalla paranoia. Possiamo farlo, dobbiamo farlo.
«Avvenire» del 26 agosto 2009

Ma l’Italia era «unita» prima di Garibaldi

Rispetto ad altri Paesi, lo Stato italiano ha realizzato tardi l’unità politica. Ma ciò non cancella quella tradizione culturale, religiosa, civile che per secoli ha plasmato la nostra identità. Così come non si può liquidare il Risorgimento senza considerare quali asprezze hanno pagato le altre nazioni pur di ottenere l’indipendenza
di Carlo Cardia
Una delle cose più importanti, in vista delle celebrazioni unitarie, sarebbe quella di non separare Stato e nazione, non esaltare il primo come unico referente della seconda, perché soprattutto in Italia costituiscono entrambi l’orizzonte di convivenza delle nostre popolazioni. Rispetto ad altri Paesi, lo Stato ha realizzato tardi l’unità politica italiana, ma ciò non cancella la tradizione culturale, religiosa, civile, che per secoli ha formato e plasmato la nostra identità, e per questo rientra appieno nella nostra memoria storica, nei programmi di studio, in quella profondità che riemerge di continuo come un fiume carsico. Uno degli aspetti mento convincenti delle discussioni sulle celebrazioni unitarie è veder rigettati sull’unità realizzata nell’Ottocento i problemi successivi e quelli di oggi. Come se le vicende, anche dolorose, di Paesi di nuova indipendenza possano addebitarsi all’indipendenza stessa, anziché agli sviluppi storici e ai problemi della modernità. Anche la denuncia della povertà e inconsistenza dei protagonisti del Risorgimento, che avrebbero poi agito da conquistatori, oltre che ingenerosa, ignora che alternative storiche realistiche sono del tutto improponibili. In ogni caso, pur con qualche verità, restano tesi anguste che riflettono un provincialismo autolesionista, facente parte anch’esso delle nostre (meno nobili) tradizioni. Se si guardasse ad altre esperienze si scorgerebbero facilmente il travaglio che ha accompagnato la formazione di Stati unitari più antichi e solidi del nostro, le asprezze e le tragedie di cui le loro storie sono costellate. Basti pensare ai fatti e misfatti delle case regnanti in Inghilterra, a delitti e faide tra esponenti dinastici, alcuni regolarmente registrati nella Torre di Londra, anche se vittime e mandanti regali sono stati magari sepolti nella stessa cattedrale con una pietas che ha cementato l’unità; o al prezzo di violenza e dominazione che ha dovuto pagare l’Irlanda, vittima secolare del consolidamento dell’identità inglese. Oppure ricordare la spietatezza di guerre e lotte intestine che la Francia ha subito nel suo emergere come Stato nazionale, e poi nella seconda sanguinosa identità rivoluzionaria nel 1789-94. Degli esiti totalitari della Germania del XX secolo si sa quasi tutto, compreso il ruolo svolto dalla cultura ottocentesca osannante lo spirito del popolo (Volkgeist) che escludeva gli altri.
Dunque, altrove lo Stato ha in qualche modo plasmato l’identità nazionale, ma l’ha fatto con la durezza rapportabile all’epoca in cui si realizzava l’unità. Se misurate su queste realtà, certe sottintese invidie di casa nostra (quasi un complesso di inferiorità) per la grandezza di altri Stati, si rivelerebbero prive di ogni consistenza. Da noi è avvenuto il contrario, perché l’unità politica è giunta dopo la nazione, nel momento in cui un’Italia divisa sarebbe stata assurdo anacronismo nell’Europa degli Stati. Ma proprio perché una identità italiana esisteva già, essa resta più profonda, possiamo vantarcene stando attenti a non scambiare particolarismi e localismi (nostro retaggio storico) con la fine dello Stato o della nazione. Stando attenti a non cancellare dalla nostra identità tutto quanto ha preceduto l’Italia unitaria, che appartiene ad una storia più grande di cui siamo stati protagonisti ricevendone eredità preziose. La nazione italiana, prima ancora di divenire entità statale ha prodotto storia, cultura, spiritualità, che noi studiamo senza nemmeno star lì a pensare che santa Caterina era di Siena e non italiana, o che Dante e Machiavelli siano frutti esclusivi della cultura fiorentina, che Galileo sia di Pisa, Beccaria di Milano. Per questa ragione, e senza alcuna retorica, la nostra identità è indissociabile dalla romanità e dalla sua civiltà, ancor più dal cristianesimo e dalla Chiesa, come realtà che hanno plasmato in senso universalistico la cultura e la coscienza degli italiani. La Chiesa appartiene al mondo intero, eppure senza di essa la storia italiana non sarebbe immaginabile. La funzione di tutela svolta dal papato è stata ininterrotta nei secoli a cominciare dal fatto che i pontefici hanno difeso l’Italia dagli infiniti tentativi di conquista che venivano da ogni parte del Mediterraneo, o dai ripetuti tentativi medievali di germanizzazione degli imperatori, regolarmente (sia detto rispettando il profilo religioso) scomunicati e condannati da quasi tutti i papi teocratici. Pochi ricordano che la sconfitta definitiva del Barbarossa passa attraverso la battaglia di Legnano e l’alleanza tra i comuni, Venezia e papa Alessandro III, e si conclude nella pace di Venezia con l’abbandono delle mire egemoniche di Federico di Hohenstaufen. La stessa storia del pensiero religioso produce nelle nostre terre un effetto unificante che coinvolge ogni campo dell’arte e della cultura, assicurando una identità diversa, più profonda di quella che poteva dare l’una o l’altra casa regnante. Da Benedetto ad Anselmo, da Ambrogio a Gregorio, da Tommaso d’Aquino a Francesco, uomini di preghiera, di pensiero e di azione (o tutte le cose insieme) entrano nella memoria storica dell’Italia unita con una naturalità impensabile in altri Paesi. Anche nelle scorrerie che i grandi Stati facevano nella penisola per stabilirvi una provvisoria egemonia non è vai venuto meno il comune senso di appartenenza delle popolazioni che hanno vissuto da protagoniste altri grandi movimenti storici, laici o religiosi, come il Rinascimento, la riscoperta della classicità, la tutela dell’unità religiosa, costruendo una lingua che si è formata letterariamente ed è divenuta una delle più musicali d’Europa.
Nell’intrecciarsi di letteratura, sapienza giuridica, perfezioni artistiche ineguagliabili, l’identità italiana è apparsa a volte più chiara agli altri di quanto non fosse a noi stessi proprio per la mancanza dello Stato. Oggi è noto che spesso gli studenti non sanno quando si è realizzata l’Unità d’Italia, e questo è il frutto di una scuola disastrata.
Ma nessuno studente, anche il più povero di conoscenza storica, dubita che la nazione italiana esistesse già prima di quella data che non ricorda, e non dubita pur nella confusione di epoche che c’è nella sua testa che Leopardi, Foscolo, Ariosto o Tasso, Petrarca e altri ancora abbiano costruito la nostra identità.
La storia secolare ha immesso nella nostra sensibilità una radice universalista che non si è mai esaurita, ed ha attivato virtù sconosciute ad altri. La tendenza a scartare soluzioni estreme e feroci, di cui è piena la storia europea, una certa moderazione (tendente a saggi compromessi) di cui ha fruito anche lo Stato unitario, la capacità di collegarsi a movimenti internazionali senza piaggeria, l’istinto di accoglienza verso altre popolazioni di cui parliamo in questi giorni. Si tratta di elementi che dovremmo valorizzare con giusto orgoglio, consapevoli che il rapporto tra Stato e nazione è da noi peculiare, in qualche modo rovesciato rispetto ad altri paesi, con conseguenti debolezze e preziosi vantaggi. In questo orizzonte, è vero che un nodo irrisolto della nostra identità è l’oscillazione tra universalismo e particolarismo, con cadute improvvise nelle paludi dei piccoli egoismi nazionali o regionali.
Anche per questa ragione, un omaggio autentico alla nostra tradizione sarebbe quello di non perdere la visione generale dei problemi senza tornare a dividere Nord e Sud, e di farla finita con una politica verso gli immigrati miope e schizofrenica, realizzando con le leggi e con i fatti una accoglienza capace di integrare gli altri anziché respingerli. Questi, però, sono problemi che la modernità ci pone oggi, e che dobbiamo risolvere con gli occhi del realismo e della solidarietà, senza retoriche recriminazioni verso un passato costruito a tavolino. Anche così si recherebbe un contributo utile alle celebrazioni unitarie.
«Avvenire» del 27 agosto 2009

La poesia vera nasce da lavoro di bottega

di Maurizio Cucchi
Alberto Casadei, italianista e poeta quarantaseienne, ha pubblicato un piccolo libro di notevole impegno e interesse su un tema sempre attuale e complesso: «Poesia e ispirazione» (Sossella, pp. 90, euro 10). Spesso, in effetti, anche se da tempo messa in discussione, la parola «ispirazione« è usata per la poesia e altre forme d’arte in modo superficiale o generico.
Casadei cerca di precisare i termini della questione, senza arrivare a nessuna risposta conclusiva, ma cercando di indagare nei vari tempi di una lunga storia il senso che è venuta assumendo l’idea stessa di poesia. Tutto questo tenendo presenti gli sviluppi recenti nell’ambito della linguistica cognitiva, in grado di fornire, per quanto possibile, nuovi modi di investigazione sulla natura stessa della poesia. Il suo excursus prede le mosse da Platone e Aristotele, ma lascia in sostanza sullo sfondo l’esperienza della poesia classica greca e latina.
Coinvolge il «realismo» dantesco e il «lirismo» petrarchesco, trova una confluenza tra i due elementi nell’opera di Shakespeare, arriva alla «svolta romantica» che apre a una nuova concezione della lirica stessa, e «ne rimette in gioco le componenti pre-razionali».
Inutile qui riproporre l’intero cammino dei maggiori esiti successivi, da Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé fino ai grandissimi di primo Novecento come Rilke o Eliot, passando poi per le nuove vie del surrealismo con le scoperte della psicanalisi e dell’inconscio. Casadei vuole comunque arrivare all’oggi, e sa bene che il presente non è molto favorevole all’ascolto della poesia, sommersa da montagne di messaggi kitsch e trash. Parla della fortuna e del ruolo dei cantautori, un equivoco – dico io – e un’ideologia del nostro tempo, quando il mercato offre un modesto succedaneo culturalmente consolatorio a chi non ha altro che la tv. La poesia è altrove e il tema dell’ispirazione resta aperto, oscillando tra posizioni orfiche o di un certo misticismo poetico e l’opposto di un’idea più vicina a quella originaria del «fare» e dunque del «poièin». Resta il fatto che varie e sempre parzialmente insondabili sono le ragioni ispiratrici della poesia, e che la poesia stessa ha comunque un carattere essenziale: quello della complessità dei suoi movimenti, che ci riportano alla complessità di rapporti tra linguaggio e attività psichica.
Oltre che alla complessità, s’intende, del reale e del mondo. Per tentare una semplificazione non scorretta, possiamo ben ricondurre l’esercizio della poesia a quello originario di un fare, di una creazione artistica fondata sull’elaborazione dei materiali linguistici a nostra disposizione e sulle spalle di una tradizione ormai, oggi, talmente ricca e varia da poterci consentire un vastissimo campo di possibili aperture e aggiornamenti. Certo, l’ispirazione non ci proviene dai cieli più elevati, ma verosimilmente da un intrico di esperienze di vita e parola, risvolti psichici, sogni e mediazioni, un intrico profondamente umano. Proprio per questo è bene tornare al più concreto concetto di «bottega», dove si deposita la tradizione e con il paziente lavoro la si fa crescere e rinnovare, dove si realizza l’idea di un linguaggio espressivo che può arrivare agli esiti più elevati e nobili di un’arte solo partendo dall’umiltà artigianale di una piena consapevolezza dei limiti e dei mezzi.
«Avvenire» del 29 agosto 2009

L’informatica «spinge» tutta la ricerca

Computer ovunque. È il futuro
di Giuseppe O. Longo
Gli sviluppi della scienza e soprattut­to della tecnologia cui abbiamo as­sistito negli ultimi decenni sono do­vuti in buona parte ai calcolatori, o compu­ter. Le discipline che si occupano della co­struzione e dell’impiego dei calcolatori, del­la loro programmazione e del loro collega­mento in rete vanno sotto il nome com­plessivo di 'informatica'. Essa si divide in due grandi settori, dedicati rispettivamente all’hardware, cioè alla struttura fisica, e al software, cioè ai pro­grammi. Un calcola­tore funziona solo se è programmato, e poiché i programmi che possono girare su un computer sono tantissimi, un calco­latore non è una macchina, ma è tan­tissime macchine, che fanno tantissime cose, ciascuna gesti­ta da un diverso programma. Nati intorno alla metà del secolo scorso, i computer hanno compiuto progressi im­pressionanti di potenza e velocità, mentre i costi e le dimensioni si sono ridotti enor­memente. Oggi sono ovunque: non soltan­to nei centri scientifici dove sono adibiti a calcoli di grande complessità (per esempio nei grandi acceleratori di particelle, oppure nei centri di biologia molecolare per il se­quenziamento del genoma), ma anche nei grandi impianti industriali, per il controllo e la regolazione di complicati processi chi­mici.
Essi poi regolano il traffico ferroviario, ae­reo e delle metropolitane, dosano i compo­nenti dei prodotti alimentari, verificano la qualità di molti beni di consumo. Ai calco­latori è affidata la distribuzione dell’energia elettrica sulle reti nazionali e sono i compu­ter che decidono di sospendere l’erogazio­ne in caso di incidenti o di sovraccarico. Gli aerei di linea sono dotati di raffinati impianti di pilotaggio automatico gestiti da calcola­tori e ai calcolatori sono affidati il lancio, la navigazione e l’atterraggio dei veicoli spa­ziali.
Ma anche i veicoli più ordinari, le automo­bili, sono governate da computer piccoli e potenti, che regolano il flusso di carburan­te in base alle condizioni di marcia per ot­tenere il massimo rendimento e forniscono al conducente una quantità di informazio­ni utili, dal consumo istantaneo all’itinera­rio più conveniente. I computer sono indi­spensabili nella progettazione architettoni­ca e ingegneristica di edifici, macchine, stra­de, ponti e stanno già entrando nelle nostre case per regolarne tutte le apparecchiature, funzioni e condizioni, dalla temperatura al­la cottura dei cibi. Tutte queste applicazio­ni e molte altre sono consentite dagli straor­dinari progressi della microelettronica, per cui il numero di transistori per chip rag­giunge oggi i due miliardi. Ma sono in vista altri progressi: riduzione delle dimensioni dei componenti elementari e impiego del carbonio in luogo del silicio come elemen­to base, con un ulteriore aumento della ve­locità e della potenza. Ci si può domandare perché si voglia dota­re i computer di una potenza sempre mag- giore: in parte ciò risponde agli impieghi sempre più impegnativi dei computer, ma in parte è un’esigenza commerciale, perché o­gni progresso rende obsolete le macchine e costringe gli utenti ad acquistarne sempre di nuove. Nella tecnologia informatica, come nell’ambito dei telefoni cellulari, da tempo l’offerta supera largamente la domanda.
Altre utilizzazioni riguardano l’intelligenza artificiale (IA), una disciplina che prende il computer a modello della mente umana e si propone di stilare programmi che, giran­do nella macchina, inducono comporta­menti 'umani'. Tra i successi dell’IA annoveriamo la ri­soluzione di pro­blemi di matema­tica e di logica, la costruzione di pro­grammi scacchisti­ci che oggi riesco­no a battere anche i grandi maestri, la rappresentazione delle conoscenze, la pianificazione automatica, l’apprendi­mento. Se al computer si fornisce un corpo artificiale, aprendo la strada ai robot, allora l’IA si può estendere alla percezione, alla co­municazione in base a codici condivisi, al­l’azione in ambienti particolari e così via.
La ricerca attuale in IA si orienta verso la co­struzione di 'algoritmi genetici', che ven­gono generati a caso e poi vagliati in base a criteri di efficienza, imitando un po’ i mec­canismi darwiniani di selezione. I risultati sono piuttosto promettenti nel progetto di particolari dispositivi, per esempio le an­tenne elettromagnetiche. È opportuno sot­tolineare come i computer siano utilissimi anche nella progettazione di computer mi­gliori, in una sorta di circolo virtuoso che si autoalimenta.
Un’altra direzione di ricerca in IA riguarda la rappresentazione delle emozioni: nell’uo­mo le capacità cognitive (razionali e com­putanti) sono stretta­mente intrecciate agli a­spetti affettivi, mentre l’IA finora ha costruito programmi puramente co­gnitivi, privi di connotati emotivi. I ricerca­tori stanno tentando di comprendere e ge­nerare nelle macchine stati emotivi per il momento simulati, ma riconoscibili dall’e­sterno, e in futuro soggettivamente perce­piti da una sorta di 'coscienza artificiale' che rappresenta per ora l’orizzonte ultimo della ricerca.
Un traguardo più vicino è quello della com­prensione dell’umorismo e della sua ripro­duzione nelle macchine. La capacità di ri­dere è una caratteristica unicamente uma­na, le cui pieghe sono ancora da scanda­gliare. L’umorismo computazionale potreb­be fornirci indicazioni preziose sullo spirito e sulla comicità, e potrebbe essere utile al miglioramento del rapporto comunicativo uomo-macchina. In effetti oggi la comuni­cazione con il computer, che è rigido e piut­tosto 'stupido', è faticosa e poco diverten­te. Una macchina dotata di senso dell’umo­rismo e di un grano di follia sarebbe per noi molto più soddisfacente. Ma a quel punto potremmo decidere di comunicare solo con le macchine, che sarebbero comunque me­no esigenti degli essere umani e non ci por­rebbero tanti problemi... Ma è una prospet­tiva piuttosto inquietante.
«Avvenire» del 29 agosto2009

Un popolo di poeti (anche a pagamento)

Si moltiplicano le iniziative per gli esordienti. Nei versi cresce l'attenzione alle questioni ambientali
di Paolo Di Stefano
Tre milioni di «scrittori», più di 850 case editrici I premi sommersi da centinaia di opere in concorso
Che fine ha fatto il popolo di santi, navigatori e poeti? I santi, come si sa, sono in netto calo, e i soli navigatori rimasti degni di questo nome sono quelli virtuali. I poeti, invece, continuano a fiorire. Se un giurato del premio di poesia Camaiore, come il sottoscritto, si vede recapitare quasi 250 titoli in concorso, è segno che quello italiano è ancora un popolo di poeti. Se ci sono case editrici che vivono (e bene, a quanto pare) delle pubblicazioni a pagamento di raccolte poetiche, non c'è dubbio: produciamo più poeti che santi e navigatori. Di che genere? Vedremo. Basta dare un' occhiata ai cataloghi online di Firenze Libri, dell' Editrice Nuovi Autori di Milano, della Sovera e del Filo di Roma per avere un' idea della quantità di versificatori che calcano il suolo del Belpaese e che pur di vedersi pubblicato un libretto sono disposti a sborsare qualche biglietto da mille. Prendiamo il Gruppo Albatros Il Filo (Alda Merini presidente onorario). Funziona così. Attraverso pubblicità sui maggiori giornali, la casa editrice comunica la propria disponibilità a valutare e a selezionare gratuitamente le opere inedite di scrittori «emergenti». In genere, l'editore si dice interessato alla pubblicazione e a quel punto propone un contratto che prevede l'acquisto di un tot di copie (tra le 100 e le 200) da parte dell'autore a prezzo di copertina (12 euro). In cambio, si promettono la distribuzione delle eventuali altre copie stampate, ma non si tratta certo di distribuzione nazionale; un'intervista trasmessa da una emittente molto locale; una presenza nel sito della casa editrice; un paio di presentazioni in libreria (da stabilire). A questi patti, la raccolta viene confezionata con una prefazione che salvo eccezioni porta firme sconosciute al mondo della critica. Il discorso prefazioni delle raccolte a pagamento meriterebbe un capitolo a sé (i cosiddetti paratesti, titoli, sottotitoli, copertine, risvolti, biografie e presentazioni la dicono già lunga sulla serietà di molte proposte), ma basti dire che, al di là del tono in genere sostenuto finto-accademico, si rivelano spesso in sintonia con quell'idea di poesia adolescenziale e romantica tipica della gran parte dei testi. Trionfano i «messaggi lanciati», le «riflessioni su cui meditare», gli «accenti dolenti»... Si veda un esordio come questo: «Chi ha contratto in giovane età il vizio di contemplare il mare ha una forte possibilità di sviluppare, con il passare degli anni, una grave infezione poetica». Oppure la visione che viene fuori da questa notazione: «I temi canonici della poesia: l'oltre, la vita come consunzione, il tempo che macera, l'amore che salva e, soprattutto, il nulla, e l'idea che esso sia alla base di tutto». Intendiamoci: niente di male nel soddisfare, dietro compenso, l'esigenza - di insegnanti in pensione, pubblicitari, commercianti, periti aziendali, professionisti, impiegati, medici - di vedersi materializzare i propri «sfoghi» poetici in un libretto. Ma si tratta di un'attività più vicina alla tipografia che a una vera e propria editoria (selettiva e autosufficiente). Un modo per dare conforto a quella che in una delle prefazioni viene definita con una formula molto franca: «L'incompetenza dei dilettanti ma l'entusiasmo dei semplici». Incompetenza nel senso che questi testi non nascono da una ricerca verbale o da una particolare consapevolezza di studio e di lettura. Entusiasmo perché rivelano comunque, al di là dei risultati, un intimo slancio comunicativo consegnato al prestigio della carta stampata, nonostante gli innumerevoli laboratori online. Certo, questo conferma quel che si dice da tempo e che sembra un paradosso: che in Italia sono più i poeti che i lettori di poesia. Almeno a giudicare dai debiti più visibili, che risentono di remoti echi scolastici e che sia pure privilegiando il metro libero (e non potrebbe essere diversamente) ignorano le migliori esperienze contemporanee. Insomma, restiamo un Paese di versificatori indefessi. L'esperienza di un giurato del Camaiore consente di farsi un'idea della consistenza del popolo dei dilettanti, ma anche di ciò che sta sotto le punte d'iceberg proposte dalle collane arcinote (che rimangono la Bianca di Einaudi, lo Specchio di Mondadori, la Garzanti, la nuova Scheiwiller, la Fenice contemporanea di Guanda, Crocetti, Donzelli e poco altro). Con diverse scoperte: per esempio certi piccoli o minuscoli o minimi editori locali che (anche, si suppone, rischiando economicamente) non si stancano di proporre novità promettenti. Semmai, ci sono editori medi che non mollano, sia pure con uscite sporadiche, la poesia: Jaca Book, Viennepierre (dove è apparso l'ultimo Silvio Ramat, Canzoniere), Marietti, Manni, Effigie (editore di un formidabile e arditissimo Ivano Ferrari, Rosso epistassi), Aragno, Quodlibet, marcos y marcos... Se un esordiente (ma solo se fedele lettore a sua volta di poeti e se criticamente avveduto) dovesse chiedere a chi rivolgersi per una pubblicazione, non sarebbe male che guardasse fuori dai soliti circuiti: ad Atelier di Borgomanero (legata all' omonima «rivista militante» di Giuliano Ladolfi e Marco Merlin: da segnalare l'esordio eccellente di Giovanna Rosadini, Il sistema limbico), alla Nuova Editrice Magenta (Varese) di Dino Azzalin e Angelo Maugeri, ai «libriccini da collezione» di Lieto Colle (di Faloppio, in provincia di Como), a Fara di Rimini, alla Empiria, alla Genesi di Torino, all'Obliquo di Brescia, alla Mobydick di Faenza, alle preziosità della Vita Felice di Milano (dove è apparso l'ultimo Michelangelo Coviello, Casting), alle Edizioni della Meridiana di Firenze, alle plaquettes de Il Faggio curate da Giancarlo Majorino, all'elegante serie della Collana Stampa, confezionata a Brunello (Varese) e curata da Maurizio Cucchi: che di recente ha pubblicato una raccolta in dialetto milanese di Vivian Lamarque (La gentilèssa) e una silloge di Biancamaria Frabotta intitolata I nuovi climi. E chissà a quante altre ancora. Verrebbe da dire, a chi lamenta l'assenza di un'editoria di poesia, di guardarsi bene intorno prima di aspirare ai colossi. Avvertendo (per non creare eccessive illusioni) che la distribuzione è minima (circolazione in genere da rivista) e che la crisi degli ultimi mesi ha ridotto anche il mercato della poesia: e un risultato considerato accettabile da Einaudi o Mondadori è attorno alle duemila copie. I nuovi climi, si diceva. Se si eccettuano le numerose raccolte (ma sono le più ingenue) di carattere vagamente sentimentale, di sospirosità autobiografiche, di ispirazioni cosmiche, religiose o metafisiche, di sempliciotti slanci civili, il motivo più ricorrente (e forse più appagante sul piano poetico) è quello dei mutamenti devastanti del paesaggio e dei guasti ecologici che minacciano la natura, con il senso di precarietà e di spaesamento che ne deriva. Sorprendentemente, è una sensibilità che si avverte in verticale, negli autori più, diciamo, ingenui, dove trova una declinazione nostalgica (sin dai titoli: «Cielo indiviso», «Tevere in fiamme», «Il respiro dell' ametista»...) e nei più avvertiti: si diceva della Frabotta, ma bisognerà aggiungere lo stesso Giancarlo Majorino de La nube terra e le due ultime uscite einaudiane: Roberta Dapunt (La terra più del Paradiso) e Fabio Pusterla: Le terre emerse, poesie scelte 1985-2008, abitate da dronti, albatros, crocus, merli, ghiandaie e pitosfori nella deriva di putridumi e torbiere, rappresenta in questa direzione il miglior risultato prodotto dalla generazione dei cinquantenni. Anche ai poeti a pagamento non farebbe male leggerlo.
«Corriere della Sera» del 3 agosto 2009

Nicaragua: Amnesty lancia la crociata per l'aborto

di Samantha Singson
Amnesty International ha messo nel mirino un altro paese latino-americano per le sue leggi a favore della tutela della vita. In un recente rapporto, Amnesty si scaglia contro il divieto totale di aborto in Nicaragua, bollandolo come “una vergogna crudele e disumana”, e sostiene che la nuova legge ha provocato un aumento della mortalità materna.
Così come nei casi del Messico, della Repubblica Dominicana e del Perù, l’ultimo rapporto di Amnesty sul Nicaragua sostiene erroneamente che il diritto internazionale obbliga gli stati a permettere l’aborto e – secondo i critici – falsifica i dati che invece mostrano che il tasso di mortalità materna è in calo.
La legge del Nicaragua che impedisce l’aborto per qualsiasi motivo è stata approvata dall’Assemblea Nazionale all’unanimità nel 2006 ed ha immediatamente attirato una miriade di attacchi da parte sei sostenitori dell’aborto in tutto il mondo. Il rapporto di Amnesty, intitolato “Il bando totale dell’aborto in Nicaragua: salute e vita delle donne in pericolo, personale sanitario criminalizzato”, accusa il governo di Managua di attuare una legge “discriminatoria” che provocherà l’aumento della mortalità materna. Amnesty se la prende anche con le sanzioni penali previste dalla legge, affermando che mettono il personale sanitario a “rischio legale”.
Avanzando la pretesa che il Nicaragua sta violando il diritto internazionale, Amnesty cita le raccomandazioni non vincolanti fatte dalle commissioni di supervisione dei trattati delle Nazioni Unite – la Commissione per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), la Commissione sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, la Commissione contro la Tortura – come prova della obbligatorietà per il paese di permettere l’aborto.
In realtà, sostengono i critici, non c’è alcun trattato dell’ONU che neanche citi l’aborto e sono invece I membri di queste commissioni chiamate a visionare l’applicazione dei trattati che si sono ritagliati arbitrariamente il compito di applicare un “diritto all’aborto” come parte di diritti già riconosciuti come il diritto al miglior trattamento sanitario, il diritto alla riservatezza e il diritto di essere liberi dalla discriminazione.
Amnesty afferma che il divieto di aborto in Nicaragua è discriminatorio a causa delle conseguenze negative che ha sulle donne e sulle ragazze, in quanto solo “le donne e le ragazze sono obbligate a continuare gravidanze non volute o sanitariamente pericolose pena il carcere” o “patire l’angoscia mentale e il dolore fisico di un aborto non sicuro, rischiando inoltre la loro salute e la vita”.
Una delle principali affermazioni di Amnesty è che il divieto farà sì che il personale medico si asterrà dal trattare le donne in alcuni casi per paura di essere incriminato, in quanto la loro azione medica potrebbe essere considerata come un aiuto a interrompere la gravidanza. In realtà il governo nicaraguense ha più volte chiarito che l’attuale codice sanitario sarà rispettato, anche là dove permette dei trattamenti salvavita che potrebbeero causare indirettamente un aborto.
Anche se Amnesty ammette che il divieto non ha causato alcuna incriminazione, accusa comunque il governo nicaraguense paventando la possibilità che la legge provochi “ritardi nella diagnosi e nella terapia, a detrimento delle donne e delle giovani nicaraguensi che chiedono un trattamento sanitario”.
Da quando ha pubblicato il rapporto, ad Amnesty è stato più volte richiesto di rendere ragione delle proprie affermazioni. Matthew Hoffman, inviato del sito pro-life LifeSiteNews.com, in una inchiesta per verificare le affermazioni di Amnesty, ha trovato che l’organizzazione aveva falsificato i dati "nell’evidente tentativo di coprire il fatto che la mortalità materna in realtà era diminuita nel 2007, l’anno dopo che nel codice penale erano state eliminate le eccezioni che permettevano gli aborti terapeutici”. Il Rapporto di Amnesty sostiene infatti che la riforma è entrata in vigore il 9 luglio del 2008, perciò confronta l'attuale tasso di mortalità materna con quello del primo semestre del 2008, ottenendo così un aumento del 10%. Peccato però l'aborto terapeutico era reato già dal 2006: nel 2007 si è registrato un calo del tasso di mortalità del 10%, fatto che Amnesty ovviamente ignora.
Ma non è l'unica manipolazione. Pur sostenendo che la riforma del codice penale non è entrata in vigore prima del 2008, Amnesty cita il caso di 12 donne morte e che si sarebbe potuto salvare soltanto se l'aborto fosse stato permesso. Amnesty riprende il caso dal rapporto del gruppo abortista IPAS, che però è stato pubblicato prima di quella che Amnesty considera l'entrata in vigore della riforma. Inoltre il rapporto Ipas non afferma affatto che sarebbe stato possibile salvare le 12 donne con la legalizzazione dell'aborto: specula invece sul fatto che "almeno 12 (morti materne) possono essere collegate a precedenti patologie aggravate dalla gravidanza, cosa che avendo la possibilità di un aborto terapeutico, la loro possibilità di migliorare o guarire sarebbe stata molto più elevata".
La verità è che Amnesty non è stata in grado di fornire il nome anche di una sola donna che sarebbe morta per cause collegate alla nuova legge, né il nome di una sola persona che sia stata incriminata per procurato aborto.
Da ultimo, Amnesty cita diverse associazioni mediche del Nicaragua che hanno denunciato la nuova legislazione, ma curiosamente non cita il presidente dell'Associazione dei Medici del Nicaragua, che invece la difende.
«Sviluppo e popolazione» del 24 agoasto 2009

I cattolici e la massoneria

La nascita, la storia e le mitologie artefatte di una setta anticattolica (vera e propria religione gnostica), i suoi rapporti con la Chiesa. Confermata la condanna dell’ideologia naturalistica e del relativismo religioso propugnati dalla Massoneria, incompatibili con la fede cattolica, nonché il divieto della «doppia appartenenza».
di Rino Cammilleri
Lo scandalo della P2 sollevò, a suo tempo, il coperchio di un pentolone che l’italiano medio conosceva fino a quel momento solo per sentito dire. E per molti fu una sorpresa lo scoprire che si poteva essere tranquillamente iscritti alla Massoneria ed essere, nel contempo, di destra, di sinistra o di centro. Insomma, signori che il giorno prima si erano insultati nei talk-show e nelle tribune politiche televisive, la sera frequentavano fraternamente lo stesso club, agghindati con squadre, compassi e grembiulini di cuoio. Da quel momento di Massoneria si è parlato sempre più spesso (e non di rado a sproposito), fino al punto che la si trova ormai quasi tutti i giorni, per un verso o per un altro, sui giornali. L’italiano medio suddetto da tutto questo cumulo di informazioni accavallantisi, tra scissioni, scomuniche reciproche, interviste a Licio Gelli e a Gran Maestri vari, trasse — vedendo anche l‘altisonanza di alcuni nomi implicati — una conclusione: la Massoneria è un potente mezzo per far carriera. Infatti all’indomani dell’affaire P2 si registrò un vero e proprio boom di richieste di iscrizioni. Adesso la cosa si è un po’ affievolita, specialmente dopo le recenti inchieste che hanno mostrato massoni che erano anche fior di mafiosi. Né c’è da stupirsi, visto che non si può chiedere a ogni associazione di sostituirsi alla polizia per indagare preventivamente suite attività private (e quelle illecite lo sono per definizione) degli iscritti.
Ma la Costituzione non vieta le società segrete?, si chiederà qualcuno. Sì, ma non obbliga nemmeno alcuna associazione a rendere costantemente pubblici gli elenchi dei propri iscritti o a pubblicizzare sempre e comunque le proprie attività.
Un’associazione culturale, per esempio, ha tutto l’interesse a mettersi in vetrina per attirare pubblico. Non così però, che so, un Club dei Fumatori della Pipa che abbia come unico scopo quello di offrire ai suoi soci un posto tranquillo dove far nuvole in santa pace senza essere assillati dai salutisti. La Massoneria infatti tiene molto alla distinzione tra «società segreta» e «associazione riservata».

Nasce a Londra nel 1717
Ma c’è un’altra cosa che colpisce l’italiano medio, una cosa di cui sente sempre parlare ma che forse non gli è molto chiara: il rapporto tra Massoneria e Chiesa cattolica. I quotidiani titolano generalmente, come si dice nel gergo degli addetti ai lavori, «a effetto», e vi si leggono termini come «dialogo», «caute aperture», «doppia appartenenza». Che vuol dire tutto ciò? Esiste una situazione di conflitto che richiede «caute aperture» o «disponibilità al dialogo»? Perché, se così stanno le cose, la Chiesa ce l’ha con la Massoneria? O è la Massoneria che ce l’ha con la Chiesa? Si può essere cattolici e massoni così come si può essere cattolici e tifosi del Milan?
Per rispondere a tutte queste domande bisogna andare un po’ con ordine. E partire dal 24 giugno 1717, data di nascita della Massoneria moderna. Quel giorno le quattro principali Logge londinesi si riunirono per dar vita alla Gran Loggia d’Inghilterra, «madre» di tutte le cosiddette obbedienze massoniche. Il giorno scelto non era casuale. Corrisponde al solstizio d’estate ed è la festa di san Giovanni Battista. Neanche l’anno era casuale, visto che il «17» è un numero di grande importanza per la tradizione esoterica. Ci ritorneremo. Secondo Giordano Gamberini, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1961 al 1970, la Massoneria nacque «per rispondere a quelle esigenze di universalità che il mondo occidentale si era visto mortificare con lo spegnimento dell’idea imperiale e con la frantumazione della religione cristiana. Ossia per offrire un’etica universale in luogo di quella perdutasi poiché era stata fondata su una fede universale di cui era venuta a mancare l’unità».
In effetti l’antica Cristianità medioevale era ormai un ricordo. Era una civiltà strutturata sul diritto romano-giustinianeo e costruita attorno al diritto canonico, quale si era venuto evidenziando nei concili, su uno sfondo di diritto naturale. Una realtà «verticale» in cui Papa e Imperatore erano solo vicari dell’unico vero capo, re e sacerdote: Cristo. L’apice di questa «unità nella diversità» venne raggiunto nei secoli XII e XIII, dopodiché i Comuni (che erano vere e proprie città-Stato) e le monarchir nazionali cominciarono a rivendicare quella sovranità particolare di cui prima non godevano, essendo solo espressioni diverse e locali di una unità più vasta e onnicomprensiva. Il colpo finale all’edificio cristiano venne inferto dal luteranesimo, e ancor più dal calvinismo (fenomeno più «europeo»). La guerra dei Trent’Anni sancì il definitivo tramonto di quel sogno unitario che, in fondo, aveva retto per secoli e continuato, sacralizzandola, l’idea universale romana. Non potendosi più fondare l’unità sul fatto religioso, Ugo Grozio indicò il «diritto naturale» come collante universale. Solo che tale diritto non era più quello inteso dalla Scolastica, cioè un ordine cosmico voluto da Dio: non era più il diritto delle persone (termine che in senso cristiano implica non solo l’essere ma anche il dover essere), bensì quello degli individui. Nasceva il giusnaturalismo in cui la ragione (facoltà naturale dell’uomo) non era più la ratio di Dio, ma quell’entità astratta e assoluta che gli illuministi non tardarono poi a divinizzare creandovi attorno tutta una mitologia: da quella del «progresso» — inteso come antitesi alla tradizione; è buono tutto ciò che è nuovo — a quella del «buon selvaggio», l’uomo «vero» che non a caso sempre gli illuministi («coloro che illuminano») cercarono — vanamente — fuori dell’Europa e che le ideologie successive tentarono di costruire a tavolino. La Massoneria — uno dei motori, se non il principale, della Rivoluzione francese — fu, in questa ricerca di un ordine nuovo fondato sulla Ragione, in pole position.
Nel 1723 il pastore presbiteriano James Anderson stilò le Costituzioni massoniche (tutt’ora in vigore). Nel 1738, appena quindici anni dopo, partiva, la prima condanna pontificia: la lettera apostolica In eminenti di Clemente XII. Fu solo l’inizio, perché a tutt’oggi la Massoneria è la realtà che ha collezionato più censure da parte della Chiesa: ben 586. Da parte cattolica, della Massoneria si condanna il naturalismo (come abbiamo visto, cosa ben diversa dal concetto cristiano di «natura») e il relativismo religioso che sfuma ogni credenza in un vago deismo. Cioè al massone basta credere in un Grande Architetto dell’Universo del tutto indifferente alle sorti dell’uomo, lasciato affidato alle cure di alcuni «iniziati». Insomma, tutto questo fa della Massoneria un’altra religione — fondamentalmente gnostica — e aderirvi sarebbe per il cattolico come aderire all’Islam pretendendo di poter restare cattolico. Questo è il motivo per cui la Chiesa non può ammettere la «doppia appartenenza».

Il simbolismo massonico
Altra, e non secondaria, causa di avversione è il simbolismo massonico (i rituali, le iniziazioni, le squadre, i compassi e i grembiulini, tanto per intenderci; ma anche le spade, i cappucci neri, le piramidi, i pavimenti a scacchi e i soffitti stellati), che rimanda alle origini magico-esoteriche della «fratellanza». Nonché la segretezza (diventata in tempi più recenti «riservatezza»), necessaria ed essenziale a un gruppo per definizione elitario che si prefigge una filantropica instaurazione di un ordine nuovo. Tale simbolismo si vuole da alcuni di derivazione templare; in realtà si trattò soltanto di un tentativo iniziale di radicare la nuova realtà della Massoneria nella storia. I Templari sono stati abbondantemente studiati e gli storici non hanno dubbi: niente a che vedere con la Massoneria. I cavalieri dal bianco mantello erano un Ordine religioso e basta, che riceveva continue donazioni per le necessità della difesa dei Luoghi Santi. L’Ordine divenne effettivamente molto ricco e finì col far gola al sempre indebitato Filippo il Bello che, con un colpo di mano e un processo-farsa (era il tempo in cui il Papato era praticamente in balia, ad Avignone, del re francese), lo distrusse e ne incamerò i beni. Nessuno difese i Templari: si erano sempre rifiutati di prestare il braccio per le guerre particolari europee.
Il fatto è che fin dal XVII secolo molti nobili inglesi, attratti dall’occultismo (in gran voga nel ‘600), si erano iscritti alle corporazioni dei tagliatori di pietre (muratori e costruttori, masons in inglese e maçons in francese) credendo di trovarvi il segreto della Pietra filosofale, dell’elisir di lunga vita e della possibilità di fabbricare oro. Quei lavoratori i segreti il avevano davvero, ma erano quelli legati all’arte del taglio della pregiata pietra «franca» (da cui franc-maçons, free-masons e frammassoni). Costretti a spostarsi spesso per esigenze di lavoro, non potendo farsi riconoscere altrimenti dalle locali corporazioni, si qualificavano come esperti nel taglio di quella particolare pietra tramite segni segreti, gelosamente trasmessi di padre in figlio. I rituali e il simbolismo erano dovuti al fatto che nel Medioevo l’apprendista doveva ricevere dal suo maestro una preparazione completa, implicante non solo l’apprendimento del mestiere, ma anche la crescita umana e cristiana attraverso il lavoro. La pietra informe cui erano chiamati a dar forma era simbolo dell’attività continua del Creatore sul creato e sull’uomo, attività che l’apprendista doveva continuare e portare a compiutezza perfezionando nel contempo sé stesso. La nomenclatura e la simbologia furono trasferite pari pari nella nuova Massoneria che, significativamente, si chiamò «speculativa» (per distinguerla dalla vecchia, che era «operativa»). I muratori accoglievano volentieri i nobili nella Corporazione come protettori, e conferivano loro simbolicamente i gradi. Che erano tre: apprendista, compagno e maestro. Nella «speculativa» divennero trentatré e, in seguito a scissioni, il cosiddetto Rito Scozzese Antico e Accettato finì per contarne addirittura novantanove.

Rosacroce & Templari
Ma torniamo alla Massoneria degli inizi. Si può affermare senz’altro che gran parte dei non addetti ai lavori che chiedevano l’iscrizione alla Corporazione dei Muratori vi cercavano i famigerati Rosacroce (lo stesso Cartesio passò la vita a cercarli; in realtà l’autore dei manifesti rosacrociani che tanto scalpore fecero nel ‘600 pare fosse il pastore-occultista-utopista J.V. Andreae). Comunque, le false accuse mosse a suo tempo contro i Templari valsero a creare I’equivoco dei «segreti» lasciati dai Cavalieri in deposito alla Corporazione dei costruttori di cattedrali. È dal terzo dei manifesti dei leggendari Rosacroce che i massoni cavarono il mito di Hiram, il supposto costruttore del Tempio di Salomone, ucciso per invidia dai discepoli e sepolto sotto un’acacia. Sempre alla ricerca dei Rosacroce. i massoni «speculativi» si spostarono in Francia e in Germania, operando un mix tra le due correnti «calda» e «fredda» (razionale e occultistica) che seguirono in vario modo le vicende anche politiche dei secoli successivi. La Massoneria, si è detto, fornì la struttura portante della Rivoluzione francese (furono le armate napoleoniche a esportare la Massoneria nei vari Paesi), di quella americana e dei nazionalismi ottocenteschi. In Inghilterra e in America si fuse perfettamente con l’establishment, ma in Francia e in Italia assunse colorazioni decisamente (e, specialmente in Francia, sanguinosamente) anticlericali per via dell’opposizione netta che trovò da parte della Chiesa. La fase occultistica andò esaurendosi con l’ingresso nel secolo attuale, ma fino a tutto quello precedente era presente in contemporanea con l’altra, quella razionale (il naturalismo massonico, negando la sovranatura, diventa razionalismo in filosofia e liberalismo in politica), tant’è vero che attorno a massoni di prim’ordine come Voltaire, Franklin, Robespierre, Napoleone troviamo una folla di astrologi, maghi ed esoteristi. Cagliostro e il sedicente come di Saint-Germain erano illuministi a tutti gli effetti. Il filosofo positivista John Toland, fondatore del deismo e cofondatore della Massoneria nel 1717, nello stesso anno creava anche l’Antico Ordine dei Druidi. E Conan Doyle, creatore del razionalissimo Sherlock Holmes, era il maggior spiritista del suo tempo.
L’apice della lotta tra la Massoneria e la Chiesa si ha con l’enciclica Humanum genus di Leone XIII. Del resto non c’è da stupirsi: come nella Rivoluzione francese, anche tutti i protagonisti del Risorgimento italiano erano massoni, e la stessa breccia di Porta Pia venne effettuata proprio all’alba di un 20 settembre, tradizionale giorno d’inizio dei «lavori» massonici. E la Carboneria ottocentesca, braccio armato della Massoneria, moltiplicava gli attentati contro il trono e l’altare, non disdegnando il ricorso all’assassinio politico come a suo tempo in Germania avevano fatto i cosiddetti Illuminati di Baviera. L’enciclica condannava la Massoneria per il suo relativismo religioso e perché volta a «distruggere dalle fondamenta tutto l’ordine religioso e sociale nato dalle istituzioni cristiane e creare un nuovo ordine a suo arbitrio». La condanna viene ribadita dal Codice di Diritto Canonico promulgato da Benedetto XV nel 1917. Esso sancisce la scomunica per tutti «coloro i quali danno il proprio nome alla setta massonica o ad altre associazioni dello stesso genere, che complottano contro la Chiesa e contro i legittimi poteri civili» (can. 2335). Nelle Costituzioni sinodali del I Sinodo Romano indetto nel 1960 da Giovanni XXIII, all’articolo 247 il termine «setta» è confermato.
Dal Concilio Vaticano II in poi la questione non viene più ripresa. Il nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983 esclude dalla comunione solo «chi dà il nome ad un’associazione che complotta contro la Chiesa». La cosa è interpretata da alcuni come un’abolizione tacita della scomunica per i massoni, ma immediatamente (26 novembre dello stesso anno) la Congregazione per la Dottrina della Fede (l’ex Sant’Uffizio) emana una Dichiarazione in cui si conferma che «rimane immutato il giudizio della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro princìpi sono sempre stati considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione ad esse rimane proibita». Il 23 febbraio 1985 l’Osservatore romano torna sull’argomento, confutando l’obiezione che la Massoneria non allontana nessuno dalla sua religione, ma anzi costituisce un momento di coesione per tutti coloro che credono in un Creatore dell’universo. Si tratta, secondo il quotidiano ufficioso della Santa Sede, di una «concezione simbolica relativistica» inaccettabile per i cattolici. Questi non possono vivere la loro relazione con Dio «in una duplice modalità, scindendola cioè in una forma umanitaria, sovraconfessionale, ed in una forma interna, cristiana». Infatti quel che fa problema è il metodo massonico, che finisce per indurre in chi lo pratica l’idea che non esistano verità assolute e non negoziabili.

La politica della mano tesa
Da parte massonica si cerca di attuare (anche se non tutti i «fratelli» sono su questo punto d’accordo) una politica della mano tesa nei confronti della gerarchia vaticana. Politica tutto sommato nuova, che ha preso vigore e insistenza soprattutto dopo il Concilio.
La Massoneria italiana aveva appoggiato inizialmente il fascismo, ma si spaccò proprio quando Mussolini decise di concludere i Patti Lateranensi con la Chiesa. Le due obbedienze italiane, quella giustinianea e quella scozzese, finirono poi fuorilegge e furono costrette a entrare «in sonno». La Costituzione repubblicana, frutto di un compromesso tra le due realtà uscite egemoni dalla caduta del fascismo e antimassoniche almeno per tradizione (i democristiani e i comunisti), vietò le associazioni segrete pur non nominando la Massoneria. Da quel momento, con alterne vicende, questa ha cercato di accreditarsi come associazione filantropica, priva di finalità politiche e soprattutto religiose. La Chiesa accettò il dialogo, ma lo tenne distinto dall’ipotesi di doppia appartenenza, tentazione — per i cattolici — tanto più forte quanto più la Massoneria insisteva — e insiste — sul suo non essere una religione.

La condanna rimane
Ed è proprio qui il punto: l’indifferentismo in materia di religione finisce col concludere che tutte le religioni sono uguali proprio perché inutili. Sotto il pontificato di Paolo VI furono avviate trattative per creare, in Inghilterra, spazio per un dialogo con il mondo massonico, colà ben radicato sia nella Corona sia nel clero anglicano. Ma con gli inglesi non ci fu nulla da fare. Nel 1974 la Chiesa creò una commissione ad hoc in Germania, con esperti delle due parti. Presieduta da Joseph Stimpfle, arcivescovo di Augusta, la commissione lavorò sei anni, ma furono gli stessi massoni ad ammettere che tra Massoneria e cattolicesimo non poteva esserci compatibilità. Per cui la situazione, in Italia come altrove, è (e tutto fa presumere che resterà) quella del 1983: chi si iscrive a una Loggia massonica è da ritenersi in stato di peccato grave e non può accedere ai sacramenti.

«Studi Cattolici» del febbraio 1994

L'italiano, una lingua democratica

La polemica sui dialetti
di Vittorio Messori
Il guaio dell' età che avanza - parlo per esperienza - è soprattutto la noia . Quella di chi subisce il ciclico ritorno degli stessi dibattiti, degli stessi temi, degli stessi equivoci. È naturale: ogni generazione deve ricominciare da capo. Ma, per il povero anziano, è pur sempre tedioso. Tra i «tormentoni» ricorrenti, ecco di nuovo, in queste settimane, la questione - rinfocolata periodicamente dalla Lega - del rapporto tra lingua nazionale e dialetti locali. Qui, i seguaci di Bossi hanno un grosso, irrisolvibile handicap rispetto a molti movimenti stranieri federalisti o separatisti. In effetti, non vale per l' Italia quanto - osservava Ernest Renan - è vero per altri grandi idiomi. Il francese imposto da Parigi a occitani, bretoni, normanni, còrsi, alsaziani, lorenesi. Il castigliano imposto da Madrid a catalani, baschi, valenciani, galiziani, aragonesi. L' inglese imposto da Londra a gallesi, scozzesi, irlandesi. Il russo imposto da Mosca a ucraini, bielorussi e altre etnie slave. Il mandarino di Pechino imposto a tutti i cinesi. Due sole, grandi lingue, divenute ufficiali per uno Stato, non sono state imposte a popolazioni in parte riluttanti: il tedesco e l' italiano. Entrambe sono, per dir così, «democratiche». Per comunicare tra loro, le genti germaniche, prive di unità politica, dopo un lento avvicinamento degli infiniti dialetti, decisero di adottare, almeno per la scrittura, il sassone aulico in cui Lutero tradusse la Bibbia . Quanto all' Italia, anch'essa frammentata, ebbe solo tardivamente uno Stato, ma fu precocemente una «nazione». A partire dal tardo Quattrocento, chi abitava la Penisola era distinto dagli altri popoli come un «italiano». Ma già nel Medio Evo, tra le «nazioni» riconosciute in Europa - ad esempio, nelle università e nelle corporazioni di mestiere - c'era quella «italiana». Sta soprattutto nella lingua il motivo di questa identità, malgrado lo spezzettamento politico e le forti differenze di ogni tipo tra le Alpi e lo Jonio. Ebbene, spesso si dimentica che, se in Italia si parla e si scrive così, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di governo e, soprattutto, di cultura , di ogni angolo di quello che solo molti secoli dopo sarebbe divenuto uno Stato. In Italia non ci fu una Capitale dove sedesse un'autorità che imponesse un dialetto locale divenuto lingua ufficiale per le leggi, i tribunali, l'esercito. Da noi, ancor più che in Germania, l' idioma comune fu una sorta di referendum, fu il frutto di una decisione pragmatica che si impose liberamente: poiché, divenuto sempre più arduo esprimersi in latino, occorreva una koiné italica, i gruppi culturalmente e politicamente dirigenti finirono coll'accordarsi (prima nei fatti, e poi nelle teorie dei dotti) sulla variante di volgare illustrato dalla triade sublime, Dante, Petrarca, Boccaccio. Così, fu il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la lingua franca per gli scambi, la letteratura e poi la cultura in generale. Lingua «democratica», dunque, e al contempo «aristocratica» nel senso che, sino all'unità politica, fu soprattutto scritta da chi sapeva di lettere. Ci vollero non tanto la scuola obbligatoria quanto prima l'Eiar e poi la Rai, nonché il sonoro nei film, per trasformarlo in un idioma praticato da tutti, o quasi. Sta di fatto che - a differenza di un catalano nei confronti di un castigliano o di un provenzale nei confronti di un parigino o di uno scozzese nei confronti di un londinese - nessuno, di nessuna regione italiana, può accusare uno Stato o un Potere di avergli imposto un idioma che, dalla sua, ha avuto semmai solo la forza della cultura. Firenze nulla fece, se non approfittare del talento dei suoi grandi scrittori. Quanto agli attuali «padani», pur comprendendo alcune delle loro ragioni, non dimentichino che, tra Ottocento e Novecento, coloro che più fecero per dare una lingua moderna a tutti gli abitanti della penisola, facendoli uscire dai dialetti e dal toscanismo angusto, furono il lombardo Manzoni, il ligure piemontesizzato De Amicis, il saluzzese Pellico, il torinese d' Azeglio, il dalmata Tommaseo, il veneto Fogazzaro, il romagnolo Pascoli, il genovese Mazzini. E che, ancor prima, l' astigiano Alfieri, il subalpino Baretti, i milanesi Verri e Beccarla, molto avevano fatto per radicare la lingua comune. Per tornare all' Ottocento, il parmigiano Verdi, malgrado offerte di francesi, inglesi, tedeschi, rifiutò di musicare libretti che non fossero in italiano; e persino il «federalista» lombardo Carlo Cattaneo accettò di buon grado la scelta del toscano, in cui scrisse in modo impeccabile, irridendo ai passatismi dialettali. Non irrisione, ma furore, provocavano nel nizzardo Garibaldi coloro che mettevano in discussione l' unità dell' idioma. Morì accanto a lui, all' assedio di Roma, il genovese Mameli, che aveva cantato l' unione di «Fratelli d' Italia» in tutto, a cominciare dalla lingua. Tutti «padani» o, almeno, «nordisti»; e tutti contro la babele vernacolare, anche la loro.
«È la storia, bellezza!», verrebbe da celiare con chi si ostinasse a barricarsi sotto il suo campanile, inveendo contro una lingua che gli sarebbe stata imposta da qualche prepotente forestiero. È colpa, o merito, della storia se non si dice un chimerico «padano», ma neanche un «lombardo» (si capiscono, forse, uno di Sondrio e uno di Cremona, uno di Bergamo e uno di Pavia ?) e, se altri idiomi di altre regioni italiane, al Centro e al Sud, esistono, ma non sono praticabili come lingue. Ciò non toglie che i dialetti siano una ricchezza: posso dirlo anche perché, se mi è permesso un riferimento personale, mio padre fu tra i più popolari e, credo, dotati, poeti in modenese. Ma è una ricchezza ancor maggiore lo strumento divenuto pian piano comune, in quasi mille anni, ad almeno 60 milioni di persone. Per forza propria, senza bisogno di decreti governativi tutelati dai gendarmi.
«Corriere della Sera» del 19 agosto 2009

20 agosto 2009

Pensieri in bella copia

La tragedia è cominciata ben prima di pc e telefonini. Quando le stilografiche dai deliziosi pennini Perry vennero sostituite nel dopoguerra dalle biro. La scrittura perse anima e stile
di Umberto Eco
Una decina di giorni fa Maria Novella De Luca e Stefano Bartezzaghi hanno occupato tre pagine di 'Repubblica' (ahimè, a stampa) per occuparsi del declino della calligrafia. Ormai lo si sa, tra computer (quando lo usano) e sms, i nostri ragazzi non sanno più scrivere a mano se non con uno stentato stampatello. In una intervista una insegnante dice anche che fanno tanti errori di ortografia, ma questo mi sembra un altro problema: i medici conoscono l'ortografia e scrivono male, e si può essere calligrafo diplomato e non sapere se si scrive 'taccuino', 'tacquino' o 'taqquino' come 'soqquadro'.In verità io conosco bambini che vanno in buone scuole e scrivono (a mano e in corsivo) abbastanza bene, ma gli articoli che citavo parlano del 50 per cento dei nostri ragazzi e si vede che per indulgenza della sorte io frequento l'altro 50 (del resto è lo stesso che mi capita in politica).Il problema è piuttosto che la tragedia è iniziata molto prima del computer e del telefonino. I miei genitori scrivevano con una grafia leggermente inclinata (tenendo il foglio di traverso) e una lettera era, almeno per gli standard di oggi, una piccola opera d'arte. È verissimo che vigeva la credenza, probabilmente diffusa da chi aveva una pessima scrittura, che la bella calligrafia era l'arte degli sciocchi, ed è ovvio che avere una bella calligrafia non significa necessariamente essere molto intelligenti, ma - insomma - era gradevole leggere un biglietto o un documento scritto come dio comanda (o comandava).Anche la mia generazione è stata educata a scrivere bene, e i primi mesi in prima elementare si facevano le aste, esercizio che poi è stato considerato ottuso e repressivo, e tuttavia educava a tenere fermo il polso per poi arabescare, coi deliziosi pennini Perry, lettere panciute e grassocce da un lato e fini dall'altro. Ovvero, non sempre, perché sovente dal recipiente dell'inchiostro, con cui si lordavano i banchi scolastici, i quaderni, le dita e gli abiti, emergeva attaccata al pennino una morchia immonda - e ci volevano dieci minuti per eliminarla, con molte e sporchevoli contorsioni.
La crisi è iniziata nel dopoguerra con l'avvento della biro. A parte il fatto che le biro dell'inizio sporcavano moltissimo anch'esse e se, subito dopo aver scritto, passavi il dito sulle ultime parole, ne veniva fuori uno sbaffo. E quindi scappava la voglia di scrivere bene. In ogni caso, anche a scriver pulito, la scrittura a biro non aveva più anima, stile e personalità. Ma perché si deve ancora rimpiangere la bella calligrafia? Sapere scrivere bene e in fretta alla tastiera educa alla rapidità del pensiero, spesso (anche non sempre) il correttore automatico ci sottolinea in rosso 'dotore', e se l'uso del telefonino induce le giovani generazioni a scrivere 'T 6 xduto?' in luogo di 'ti sei perduto?', non dimentichiamo che i nostri antenati sarebbero inorriditi vedendo che noi scriviamo 'gioia' in luogo di 'gioja', 'io avevo' in luogo di 'io aveva', e i teologi medievali scrivevano 'respondeo dicendum quod', cosa che avrebbe fatto impallidire Cicerone.Il fatto è che, lo si è detto, l'arte della calligrafia educa al controllo della mano e al coordinamento tra polso e cervello. Bartezzaghi ricorda che la scrittura a mano vuole che si componga la frase mentalmente prima di scriverla, ma in ogni caso la scrittura a mano, con la resistenza della penna e della carta, impone un rallentamento riflessivo. Molti scrittori, anche se abituati a scrivere al computer, sanno che talora vorrebbero poter incidere come i sumeri su una tavoletta di argilla, per poter pensare con calma. I ragazzi scriveranno sempre più al computer e al telefonino. Tuttavia l'umanità ha imparato a ritrovare come esercizio sportivo e piacere estetico quello che la civiltà ha eliminato come necessità. Non ci si deve più spostare a cavallo ma si va al maneggio; esistono gli aerei ma moltissime persone si dedicano alla vela come un fenicio di tremila anni fa; ci sono i trafori e le ferrovie ma la gente prova piacere a scarpinare per passi alpini; anche nell'era delle e-mail c'è chi fa raccolta di francobolli; si va in guerra col Kalashnikov ma si fanno pacifici tornei di scherma..Sarebbe auspicabile che le mamme inviassero i bambini a scuole di bella calligrafia, impegnandoli in gare e tornei, e non solo per la loro educazione al bello ma anche per il loro benessere psicomotorio. Di queste scuole ne esistono già, basta cercare 'scuole calligrafia' su Internet. E forse per qualche precario potrebbe diventare un affare.
«L'Espresso» del 7 agosto 2009

Pivano: Da Spoon River ai Beat ci ha fatto scoprire l'America

Di Irene Bignardi
Pensare che Fernanda Pivano non c' è più, che non c' è più la Nanda, come la chiamavano gli amici e chi le voleva bene, dà una strana sensazione: come se si fosse interrotto un filo diretto, un rapporto vitale e viscerale con un' esperienza, un pezzo di storia, un patrimonio letterario e culturale. Questa esperienza e questo pezzo di storia è il rapporto dell' Italia, e non solo, con la letteratura americana di mezzo secolo, che ha trovato in Fernanda Pivano l' ambasciatrice, la coprotagonista, e, per così dire, la levatrice. Perché Fernanda Pivano, che se ne è andata ieri a Milano, a novantadue anni (era nata il 18 luglio del 1917), è stata molto di più che la grande traduttrice, l' amica di tutto un mondo di letterati e di poeti, la signora che aveva conosciuto tutti e che su tutti - da Hemingway a Ginsberg, da Gregory Corso a Pavese - aveva una storia di prima mano da raccontare. E' stata la lettrice appassionata, la consigliera, la suggeritrice, l' eminenza grigia di un mondo culturale che attorno a lei e secondo i suoi consigli e le sue scoperte si è mosso per decretare notorietà e successi, linee letterarie e cose da pubblicare. E' curioso che Fernanda Pivano parlasse così poco di sé. Intendiamoci, «Nanda» parlava, e raccontava, generosamente e apertamente di quello che aveva fatto e di ciò che pensava. Ma parlava soprattutto degli altri, mettendosi apparentemente al centro del discorso e dell' aneddoto ma come un necessario coprotagonista che permetteva, con la sua esistenza, le sue storie, la sua testimonianza, di rievocare gli altri, i grandi della letteratura che sono stati i suoi amici, e poi le sue scoperte, i suoi protetti, da Papa Hemingway, appunto (e i ricordi finivano sempre per affermare che no, non c' era mai stato niente fra di loro, nemmeno un bacio, nonostante la leggenda) a Jay Mc Inerney, da Pavese a Don De Lillo. Ha conosciuto tutti, nella sua lunga e ricca vita, Fernanda Pivano. E troppo spesso l' aneddotica su questa vita e questi incontri ha sopraffatto e messo in ombra la vera qualità del suo lavoro, la passione onnivora per la lettura e per la lingua inglese - anzi, dovremmo dire una cosa che in teoria non esiste come tale, la lingua americana. Una lingua e una letteratura che è stato Cesare Pavese a insegnarle ad amare, mettendole in mano i testi di L' antologia di Spoon River, di Foglie d' erba di Whitman e l' autobiografia di Sherwood Anderson, fino a che la ragazzina sua allieva non ha deciso, unilateralmente, di tradurre il capolavoro di Edgar Lee Masters, fino a che lui non lo ho scoperto per caso, e fino a che questa traduzione clandestina non è stata presa da Einaudi su suggerimento dello scrittore, diventando anche per l' Italia il classico che è. Fernanda Pivano era nata a Genova, da una famiglia borghese e colta, con un padre banchiere e agente di cambio dalle incerte fortune. A dodici anni la famiglia si era trasferita a Torino, lasciandole una grande nostalgia della luce e degli alberi della sua Liguria. Era carina, molto carina, la giovane Nanda, come ha continuato a esser anche nel corso del tempo, con una grazia un po' da elfo, e la curiosità di una adolescente vorace. A Torino, al Liceo d' Azeglio, ha avuto la straordinaria avventura di essere allieva di Cesare Pavese, che l' ha tirata su a dosi di Momigliano e di De Sanctis e più tardi l' ha introdotta alla letteratura americana (ma nessun amore, ci teneva a dire Fernanda, leggende, come per Hemingway), e le ha insegnato, con la matita rossa e blu in mano, quel mestiere del tradurre che lei avrebbe portato ad altissimi livelli. Nella grigia Torino degli anni di guerra è stata arrestata dalle SS, che avevano trovato nella sede della Einaudi il contratto per la traduzione di Addio alle armi - e raccontava di essere stata liberata perché li aveva imbambolati con le sue chiacchiere. Da Torino è partita, dopo la laurea (per la verità ne aveva due), con una borsa di studio alla volta degli Stati Uniti, dove il suo grand tour è stato un giro delle case degli scrittori che amava - Faulkner, Dos Passos, Hemingway, il cimitero di Edgar Lee Masters. Dall' America, con cui aprì allora un canale di amicizia e di scambio che non si è mai chiuso, è ritornata con un carico di esperienze, di contatti e di conoscenza che ha arricchito la cultura italiana del dopoguerra di voci e di presenze fondamentali. Ha creato amicizie indistruttibili con Hemingway, che di passaggio a Cortina la mandò a chiamare per conoscere la sua audace traduttrice italiana saldando così un rapporto che durerà fino alla morte di «Papa», con Ginsberg, con Jack Kerouace tuttii ragazzi della Beat Generation, con Henry Miller, con Bukowski, con Burroughs. Si potrebbe pensare che, viste queste frequentazioni, anche a Fernanda piacessero i Martini e dintorni. E invece no, resisteva graniticamente, sempre lucida, sempre al servizio del talento degli altri, lontana dall' accademia e vicino ai lettori, cronista e storica di un momento della cultura che ha raccontato, appunto, con la finta civetteria di mettersi al centro delle sue storie letterarie per poi parlare degli altri, «tusitala» (per usare la parola che usavano per Stevenson il narratore) del mondo della scrittura, affabulatrice capace di incantare per ore una platea con i suoi ricordi, parlatrice semplice e mirabilmente diretta. Sempre mettendo in ombra la realtà del suo impressionante lavoro «scientifico», che accumula (vedere la sua bibliografia per credere) traduzioni su traduzioni, testi su testi, libri di ricordi, saggi. Sempre curiosa - basti vedere le sue escursioni nel campo della musica, da De Andrè a Vasco Rossi fino a Jovanotti e Ligabue - , qualche volta difendendo anche la causa sbagliata (gli ultimi Mc Inerney, per esempio). Ma sempre con profonda onestà e generosità. E ricordo ancora il sostegno e i consigli che diede a me, disastrosa traduttrice in erba, in tempi ormai lontanissimi. Con Ettore Sottsass Jr., che aveva sposato e da cui divorziò con profondo dolore, ha formato una coppia di elettrica simpatia. Fernanda non si è mai risposata, ma, dividendo per molti anni la sua vita tra Milano e Roma, sempre pronta a intervenire in pubblico, sempre aperta a trasmettere le sue esperienze, ha trovato ovunque amici, allievi, ammiratori pronti a dividere le sue ore e ad attingere alla sua sapienza. Meno sostegno ha trovato nelle istituzioni, visto che la sua straordinaria biblioteca di trentacinquemila volumi - soprattutto letteratura americana, il meglio che si possa trovare sulla Beat Generation, e poi ritagli, autografi, documenti - esiste ancora e ha trovato una sede solo grazie all' intervento dei privati (la Fondazione Benetton, nello specifico) dopo essere stata rifiutata da molte istituzioni pubbliche. E' stata una gentile, appassionata, vorace, generosa militante della buona letteratura. E la sua scomparsa apre un vuoto che sarà difficile colmare. - IRENE BIGNARDI
«La Repubblica» del 19 agosto 2009