30 luglio 2009

Inciviltà che deforma la giustizia

Pene torturanti
di Giuseppe Anzani
Teoria virtuosa della pena, certezza della pena, tragedia della pena con­creta, certezza della tragedia. Rileggete adagio questa sequenza, respirando do­po ogni virgola: è il percorso sapienziale- demenziale del nostro sistema puni­tivo. Tra le più ricorrenti professioni di fede civica, tra le più condivise espres­sioni di etica retributiva, campeggia da qualche tempo la «certezza della pena». E non si fatica a capire il perché, per chi pensa che la devianza dipende dalla «sterilizzazione degli elementi infetti». Ma non ci si dà più cura di capire da do­ve è entrato il virus, e quant’è pandemi­co, e come si guarisce, e se quanto si fa lo sconfigge o lo rafforza.
Certezza della pena, ma sì, è diventato ormai un motto da convocazione di massa in piazza, alla bisogna. Da bravi, servono catene, pietre aguzze, staffili? O basterà plaudire, da cittadini che ten­gon nette le mani, al lavoro degli addet­ti? Sta di fatto che serpeggia un umore che pare un volontariato da ausiliari del­la pena, se si potesse. Certezza si vuole, ma certezza di che cosa, infine? Che co­s’è la pena, verbalizzata nei codici e nel­le sentenze; e che cos’è la pena scodel­lata sulla pelle dei reclusi delle carceri i­taliane? Anche i giudici non lo sanno. Non glielo fanno sapere, tengono inuti­le che lo sappiano. I giudici quando de­vono condannare alla galera dicono «vi­sti gli articoli» e certamente gli articoli li hanno visti e li sanno a memoria e san­no che dicono proprio così, e quando dicono «reclusione» è reclusione. Ma i giudici che cos’è la reclusione non l’han­no mai vista. E invece quelli che l’han­no vista, nell’Italia civilissima di Verri e Beccaria, non possono tenerla oggi più civile delle scudisciate sulla pubblica piazza, ma peggior barbarie prolungata se è divenuta tortura quotidiana di am­masso di corpi in scatole blindate.
Alla breve: leggiamo dalle statistiche ag­giornate che oggi ci sono 63mila dete­nuti, e che si trovano rinchiusi nello spa­zio di 43mila posti. Dunque sono spin­ti a forza, in spazi inesistenti, compres­si, condivisi. Spazi godibili 'a turno', se­condo quanto ci vanno informando le cronache dei turni di passaggio a terra e dei turni di riposo in branda, fra loro non compatibili. Spazi coatti esposti alla coa­zione aggressiva, spazi rinchiusi alla condivisione di una promiscuità assur­da, spazi di bestie nei quali il profilo u­mano finisce in fioca invocazione, com­patibile a stento con la voglia di vita.
Io non cerco neppure più di leggere 'vi­ta' (gioia di vita, o persino patimento che tende alla vita come doloroso tra­guardo di una gioia da raggiungere) di fronte alla obliqua imprecazione della morte che nei primi mesi di quest’anno ha eguagliato tutti i suicidi in carcere dell’anno scorso.
Torna dunque il soprassalto della con­cretezza, insieme con il fremito della co­scienza scossa. E chiede di rimeditare anzitutto la proporzione fra condanna (o solo accusa, per metà gente) e pri­gione così, proprio per la sua tragica se­rietà. Metà dei carcerati è affetta da e­patite, il 30% è tossicodipendente, il 10% malata di mente e il 5% ha l’Hiv. Il rap­porto fra la pena torturante per questi in­felici, e la loro infelicità raddoppiata nel­la crudeltà dell’attuale caienna dice che questa non è giustizia. Per un canile, gli animalisti chiederebbero riforme. Non è un sistema penitenziario questo, è u­na inciviltà.
"Avvenire" del 26 luglio 2009

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