09 luglio 2009

Così la rivoluzione del Web 2.0 ha distrutto la nostra povera economia

Il nuovo libro del nemico numero uno di Wikipedia e dei blog
di Mariarosa Mancuso
Sarebbe buona norma non chiedere informazioni sulla religione agli spretati, sulle signore agli ex mariti, sugli imprenditori ai soci che hanno girato le spalle all’azienda. Sarebbe buona norma, ma è difficile resistere. Quando Andrew Keen annuncia “ero convinto che il Web 2.0 fosse una meravigliosa rivoluzione, ora ho restituito la tessera e da fedele sono diventato scettico”, la nostra curiosità per il libro Dilettanti.com (DeAgostini) è già piuttosto alta. Si impenna quando leggiamo dei suoi due giorni al campeggio con gli utopisti dalla Silicon Valley, nel 2004, e scopriamo che fu la parola “democratizzazione” a urtargli i nervi. Aveva partecipato all’esclusivo e molto alternativo raduno della O’Reilly Media – un po’ Woodstock e un po’ Burning Man, il festival della creatività diffusa, condita con tonnellate di autostima, si tiene ogni anno nel Nevada – pieno di speranze. Scappò via terrorizzato, deciso a smascherare le illusioni degli ex correligionari.
Aveva immaginato il Web 2.0 come un mezzo per far arrivare alle masse le canzoni di Bob Dylan e il Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach. Scoprì con orrore che alle masse non importava: preferivano metter su un complessino nel garage, filmare le esibizioni e postarle su Youtube. Come se l’universo mondo fosse in spasmodica attesa di quel che i parenti e gli amici sopportavano solo per affetto (e perché a loro volta avevano un romanzo, una poesia, le diapositive delle vacanze da spacciare). Andrew Keen è il nemico pubblico numero 1 di Wikipedia, dei blog e della teoria della “coda lunga” formulata da Chris Anderson, direttore della rivista Wired (edizione americana: quella italiana ha sparato sulla copertina del numero inaugurale Rita Levi Montalcini, non un bel biglietto da visita per chi vuole spiegare il mondo nuovo).
Significa che è tramontato il tempo delle hit parade, del talento, delle competenze, delle barriere d’entrata. Chiunque può pubblicare un libro, senza dover mettere di mezzo un editore. Chiunque può farci sapere la sua opinione sul mondo, senza cercare un giornale che lo assuma. Chiunque può girare un film, senza doversi trovare un produttore. L’utopista esulta: finalmente siamo liberi dalla dittatura degli esperti e dei professionisti. Il realista ribatte: il talento non è illimitato, il tempo neppure, il senso critico meno che mai. Orientarsi nel mare magnum del fai da te può creare qualche problema a chi vorrebbe leggere libri, ascoltare musica, guardare film e consultare enciclopedie basandosi sul principio che chi li produce è più bravo di noi che siamo stonati, sappiamo raccontare solo i nostri brufoli, e interrogati su una data la sbagliamo sempre.
“Il Web 2.0 è la più grande esplosione dell’esibizionismo di massa nella storia dell’umanità”, attacca Andrew Keen, alienandosi le ultime simpatie di chi sogna il libro-remix. “Pagine spezzettate e rimescolate a piacere, in librerie virtuali, in modo da produrre una rete di nomi e una comunità di idee”: questo vorrebbe Kevin Kelly, altro utopista che fa impallidire i teorici del decostruzionismo, già seppellito sotto una risata come “un picnic in cui lo scrittore porta le parole e il lettore porta il senso”. In tutta evidenza, uno che non ha mai letto un romanzo o visto un film per sapere come va a finire. E sicuramente non ricorda le feroci lotte contro il nozionismo in nome della libera espressione, condotte guarda caso da chi ora si stupisce perché le tesi di laurea sono fatte copiaincollando da Internet. Se l’enciclopedia la può scrivere tuo cugino, non si capisce che male ci sia a copiarla, anche lui avrà pure copiato da qualcuno. Ai disastri culturali, insiste Keen, si aggiungono i disastri economici, che per nostra mancanza di competenze specifiche riportiamo in un riassunto da serva: se tutti sono capaci di fare tutto, perché qualcuno dovrebbe essere pagato perché sa fare bene qualcosa? Cercasi dilettante per riscrivere su Wikipedia la voce “Adam Smith”, che legava la ricchezza delle nazioni alla divisione del lavoro.
“Il Foglio” del 4 giugno 2009

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