27 giugno 2009

Commissioni Verità, la voce delle vittime

Dal Sudafrica al Perù, sono ormai oltre 30 gli istituti che hanno regolato i conti con la storia superando la giustizia dei tribunali. Un avvocato fa la mappa
di Daniele Zappalà
« In molti Paesi, i tribunali penali stanno evolvendo e ciò è dovuto anche all’influenza delle commissioni Verità e riconciliazione, molto più attente alle vittime rispetto alle istituzioni della giustizia tradizionale». Ad esserne convinto è l’avvocato e militante dei diritti umani Etienne Jaudel, di cui fa molto discutere in Francia l’ultimo saggio Justice sans châtiment («Giustizia senza castigo», edizioni Odile Jacob). Già segretario generale della Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo, Jaudel analizza il ruolo vieppiù cruciale delle commissioni durante il crollo di regimi coperti d’obbrobrio, come in Sudafrica, e in generale dopo l’abominio di crimini di massa. «Anche se la riconciliazione è un obiettivo che solo il tempo può aiutare a raggiungere, le commissioni facilitano spesso almeno la coesistenza».
Professor Jaudel, cosa distingue le commissioni rispetto alle altre istituzioni di giustizia?
«Non si tratta di organismi giudiziari. Rappresentano in teoria un complemento ai tribunali, anche se di fatto sono state spesso create in Paesi dove la giustizia non funzionava. In effetti, i giudici non entrano in gioco e non si può neppure dire che i membri delle commissioni siano disinteressati. Del resto, non viene chiesto loro di essere obiettivi. Basta ricordare, in proposito, le celebri scene di Desmond Tutu che bacia i testimoni: scene inconcepibili in un tribunale. Lo scopo primario delle commissioni non è di condannare i colpevoli, ma di ascoltare le vittime».
La creazione delle commissioni serve a colmare certi limiti dei tribunali penali?
«Direi di sì, soprattutto se si pensa alla promozione delle vittime, i cui interventi restano spesso secondari nella giustizia tradizionale, così attenta invece alla parola dei colpevoli. C’è poi un altro aspetto. Di fronte ai crimini di massa, sanzionare i responsabili risulta sempre estremamente difficile. Le prove sono difficili da ottenere, i mezzi della giustizia si rivelano spesso insufficienti, i responsabili sono innumerevoli. Le commissioni si distinguono inoltre per la loro flessibilità di funzionamento, che le rende particolarmente adattabili ai diversi contesti».
Nel lavoro delle commissioni, che tipo di riparazione è in gioco?
«La compensazione appartiene soprattutto al registro dell’emozione. Le vittime spesso non reclamano vendetta, ma vogliono innanzitutto conoscere la verità. Credo si tratti dell’aspetto essenziale di questa nuova forma di giustizia. Rispetto a questa ricerca collettiva della verità, passa in secondo piano persino la condanna dei responsabili».
Organismi quasi sempre non neutrali, le commissioni debbono nondimeno conservare una forma d’indipendenza?
«Il problema dell’indipendenza resta, ma è di natura particolare. È assolutamente indispensabile che gli esperti e i membri delle Commissioni siano totalmente indipendenti dall’autorità pubblica. In altri termini, non sono accettabili compromissioni col potere, che fra l’altro le commissioni si preparano a sanzionare simbolicamente. Non viene richiesta, al contrario, alcuna neutralità nei confronti delle vittime. Anzi, un rapporto ravvicinato con le vittime può spesso giovare. In Marocco, del resto, la commissione era presieduta da un ex prigioniero politico».
Data la gravità dei singoli contesti, la ricerca di un presidente ideale per queste commissioni pare un’impresa ardua…
«In effetti, è una scelta molto difficile e lo stesso vale per tutti i membri. In Togo, dove una commissione è in corso di formazione, si è trattato a lungo di uno dei problemi cruciali. Solo nei giorni scorsi si è designato un presidente nella persona di Nicodème Barrigah, vescovo di Atakpamé. In alcuni Paesi, i commissari sono stati designati non a caso dalle Nazioni Unite. In altri, da istanze religiose o tradizionali. Non c’è uno schema fisso».
È già possibile tracciare un primo bilancio generale?
«Non si può certamente parlare di un successo generalizzato. In Sierra Leone, ad esempio, la commissione non ha ben funzionato, anche perché abbinata in modo probabilmente improprio con un tribunale internazionale. Nondimeno, ogni volta che si giunge a transizioni politiche particolarmente gravi, o quando emergono crimini di massa, viene posto il problema della costituzione di una commissione verità. Esiste dunque un reale bisogno e la tipologia istituzionale gode di un crescente successo. In questo momento, se ne discute anche in Madagascar, dov’è in corso una difficile transizione. O ancora in Libano e in Algeria. Un altro innegabile successo riguarda il dovere di memoria, data la straordinaria documentazione a disposizione degli storici prodotta dalle commissioni».
La popolarità attuale delle commissioni risente anche dell’esperienza ormai celebre del Sudafrica?
«Il successo mediatico della commissione sudafricana, fondato anche sul carisma personale di Desmond Tutu, ha contribuito largamente alla diffusione della formula. L’esperienza sudafricana ha dimostrato più di altre che il fatto di non ricercare in primo luogo dei responsabili consente delle testimonianze molto più complete e molto meno contestabili. Ma è al contempo vero che la commissione sudafricana, ancor oggi non poco criticata nello stesso Sudafrica, resta per molti aspetti unica. In particolare, per via della sua facoltà di concedere l’amnistia. Una scelta rischiosa molto raramente applicata altrove».
“Avvenire” del 7 giugno 2009

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