30 giugno 2009

Scapigliati o soltanto bohémiens?

A Palazzo Reale si è aperta la più esaustiva rassegna mai allestita sul gruppo lombardo unito dal rifiuto dell’accademismo
di Andrea Beolchi
Il 5 maggio 1881, alla presenza della famiglia reale, si apre solennemente a Milano l’Esposizione nazionale dell’industria, dell’artigianato e del commercio italiani; presso l’Archivio di Stato viene allestita la sezione dedicata alle belle arti. Non vi sono invitati, naturalmente, quei giovani 'scapigliati' che mal s’acconciano col lustro della corona di 'capitale morale' del neonato Stato unitario che comincia a calzar bene sul capo della città lombarda. Di lì a pochi giorni la risposta, in stile rigorosamente antiretorico, da parte degli estromessi: una pirotecnica «Indisposizione di belle arti», promossa dalla Famiglia Artistica, il cui catalogo lascia pregustare – e del resto erano proprio loro che, più che 'scapigliati' o 'bohème', preferivano farsi chiamare 'avveniristi' – certi nonsense antiborghesi di marca surrealista («Tutte le persone», avverte infatti il Libro d’oro, per chi visita la famosa Indisposizione di Belle Arti, «dovranno depositare nel luogo a ciò destinato le loro ombre, onde evitare il soverchio affollamento»).
Ma chi sono questi 'scapigliati', da dove vengono, che cosa vogliono, e, soprattutto, da che cosa li si riconosce? La grande mostra (verrebbe da dire enciclopedica) curata da AnniePaule Quinsac mette ordine in un quadro complesso e, sul fronte delle arti visive, ancora di là da essere definitivamente composto.
Fra i prodromi, che hanno nel Piccio – in particolare quello tutto luce-colore degli anni Cinquanta-Sessanta – il nume tutelare, prima ancora del precursore storico che fu Federico Faruffini, e i postumi, tra cui quelle straordinarie sculture fatte d’atmosfera di Medardo Rosso di cui vengono esposti alcuni esempi superbi (due su tutti: Enfant au sein, del 1892, e Conversazione in giardino, del 1896-97), si estende infatti un vasto territorio, tutt’altro che omogeneo, che sotto un solo nome, quello appunto di 'Scapigliatura' (fu Cleto Arrighi a calzarlo per la prima volta, nel 1857, su quegli artisti «irrequieti, turbolenti, che si radunano in una casta sui generis, distinta da tutte le altre, pandemonio del secolo, serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti »), raduna in realtà anime distinte, l’una più marcatamente bohème, che divide il proprio campo d’azione, in quella che già s’annuncia «la città che sale», tra gli abbaini e le osterie; l’altra più socialmente impegnata e 'democratica', l’altra ancora a un passo dal verismo con intonazioni pre-decadenti, l’altra (e forse non l’ultima) fieramente positivista. Sul fronte delle arti visive hanno in comune, però, oltre a un’innata idiosincrasia per l’accademismo in tutte le sue forme, la pratica di quella tecnica sfumata che ha per padri Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni, che insieme con Giuseppe Grandi formano negli anni Sessanta il terzetto di testa della volata scapigliata.
Se infatti fu proprio il Ranzoni (lo annota la curatrice nel suo saggio in catalogo, edito da Marsilio) sullo scoccare degli anni Settanta, col suo Ritratto di donna Maria Greppi Paduli, a convertire «le velleità scapigliate in uno stile, impostato sull’abolizione dei contours e sulla resa delle forme in uno sfumato che si fa trascrizione del sentimento», spettò a Cremona (che ha dalla sua, peraltro, la paternità di quel 'non finito' che diverrà un marchio dell’estetica scapigliata) il ruolo di anima trainante del gruppo, il quale fu detto per l’appunto dei 'cremoniani'; toccò infine a Giuseppe Grandi – l’autore del Monumento alle Cinque giornate di Milano è probabilmente una delle sorprese meno prevedibili della rassegna: penso alla sua Pleureuse e allo Studio di figura femminile del ’75 – fornire un contributo Luigi Conconi, «Coppia danzante» (acquarello, 1888) decisivo, e non soltanto per la storia della Scapigliatura, ma per quella visione nuova che apre al Novecento, portando nella scultura (e per questo Medardo Rosso lo dirà «artista da venerare») la rinnovata definizione luminosa della forma che Cremona e Ranzoni avevano consolidato sul fronte della pittura.
Morto poi nel ’78 Tranquillo Cremona, toccherà alla ' Famiglia Artistica' fondata nel ’73 da Vespasiano Bignami far da timoniere, e di fatto d’ora innanzi le due vicende, degli scapigliati e della Famiglia Artistica, diventano una storia sola.
La mostra registra tutto – doverosamente, anche il giovane Segantini del 'paesaggio urbano', il Morbelli e il Previati pre-divisionisti, ma anche il potente esistenzialismo, 'giacomettiano' ante litteram, di Filippo Franzoni, con quella piccola straordinaria tela che è la Paolina del 1890-95 –, cogliendo pienamente l’obiettivo di delineare della Scapigliatura un profilo a oggi sicuramente il più completo, pur correndo il rischio di mettere alla prova un pubblico dal gusto generalmente più avvezzo ad altra pittura, che proprio allora, in quei 'formidabili' anni Settanta, come si sa non era di casa in Italia. Ma questa è un’altra storia.
Milano, Palazzo Reale, Scapigliatura: un 'pandemonio' per cambiare l’arte, fino al 22 novembre
«Avvenire» del 30 giugno 2009

Le scelte dei genitori sull’equilibrio dei figli

Riflessione che gli adulti non amano
di Giacomo Samek Lodovici
L’agenzia Zenit ha riportato i dati di un recente studio canadese, che ha monitorato le ripercussioni, in termini di spesa sociale e ferite psicologiche, delle separazioni, dei divorzi e delle cessazioni delle convivenze. Ad esempio, per l’anno finanziario 2005/ 2006, l’impatto da esse prodotto sul bilancio del Canada è stato di circa 4,5 miliardi di euro. La ricerca comprende anche casi di madri single o che non vivono con i padri dei loro figli, bensì con altri uomini, e documenta che i figli vivono in condizioni migliori se crescono nel contesto di una famiglia con due genitori sposati, perciò « che le coppie siano sposate o no è un elemento straordinariamente indicativo per prevedere [ mediamente parlando] le condizioni future dei bambini (...), perfino al netto dei fattori economici » : i risultati scolastici ed accademici, lo stato di salute e di felicità, l’uso di droghe possono essere incisivamente influenzati dall’unione/ disunione dei propri genitori. Del resto potremmo citare molti altri monitoraggi. Ad esempio, la ricercatrice R. O’Neill ha registrato i seguenti dati: se il 40% dei bambini inglesi vive in famiglie a basso reddito complessivo, la percentuale sale al 75% tra quelli che vivono con un solo genitore. Tali bambini con un solo genitore, rispetto a quelli che vivono con entrambi, hanno una probabilità tre volte superiore di ottenere cattivi risultati a scuola, il doppio dei rischi di contrarre malattie psicosomatiche e di avere la depressione o comportamenti antisociali ed il triplo di probabilità di avere problemi nelle relazioni amicali.
Ancora, M. Fiorin (La fabbrica dei divorzi), si è concentrato sulle ferite psicologiche dei bambini che vivono senza il padre. Uno studio del 1995 ha evidenziato che gli adolescenti che vivevano con un solo genitore soffrivano più frequentemente di problemi psichici rispetto a quelli che vivevano in famiglie intatte ed avevano una probabilità maggiore di abusare di alcool e di usare droghe. Negli anni Ottanta, una ricerca di tre anni sui bambini piccoli del reparto di psichiatria dell’ospedale di New Orleans ha mostrato che nell’ 80% dei casi la patologia era causata dall’assenza del padre. Addirittura, il 90% dei bambini fuggito da casa si era allontanato da nuclei affettivi di questo tipo. Da tali nuclei proveniva anche il 71% degli abbandoni scolastici, il 75% degli adolescenti presi in cura per tossicodipendenza e il 70% dei minorenni internati in istituti. Infine, negli Usa, durante gli anni Ottanta, il 63% dei suicidi dei giovani si è verificato in contesti con il padre assente. Da notare che molte di queste rilevazioni sono state svolte su gruppi di figli omogenei dal punto di vista sociale e del reddito. Sono dati che dovrebbero farci riflettere, perché valgono analogicamente anche per il nostro Paese e ne ricaviamo ( anche se assai brevemente), almeno due suggerimenti. Primo, soltanto nelle famiglie dove i litigi sono gravissimi il bambino trae beneficio dall’eliminazione del conflitto, ma tale tipo di conflittualità è rara ( cfr. una ricerca di P. R. Amato e A. Booth), perciò nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe meglio per i figli se i genitori, invece di dividersi, rimanessero insieme ed affrontassero i loro problemi per cercare di risolverli. Secondo, tutte le forme alternative e concorrenziali al matrimonio ( pacs e simili) indeboliscono il matrimonio, cioè il legame che, pur nella sua attuale crisi, è – anche qui dati alla mano – il più stabile e dunque propizio per i figli.
«Avvenire» del 30 giugno 2009

29 giugno 2009

Gottoso, Crapun, Cinghialone, Papi: i nomignoli ai politici dal '400 a oggi

Con il passare degli anni soprannomi e sberleffi cedono il posto a battute da avanspettacolo
di Fernando Proietti
Se Caino e Abele sono alla genesi del delitto, non si è mai trovato il colpevole che nella contesa politica per primo usò l'arma sferzante del nomignolo per ferire l'avversario. Alcuni sospetti, caduti sul sommo Dante, non hanno trovato riscontri sicuri. Certo è che già nel Quattrocento al povero Piero de' Medici, spesso costretto a letto da un'invadente uricemia, i fiorentini non risparmiarono, in sovrappiù a sua Signoria, un indelebile «il Gottoso». Che per stare all'oggi, nella retorica dell'offesa, equivale a «il Gobbo» per Andreotti. Tradizione antica e popolaresca, dunque, quella di irridere l'avversario con parole che esprimono (o sottintendono) giudizi pesantemente negativi e irridenti. A volte anche un vezzeggiativo, il confidenziale e allusivo Papi, con cui la Noemi di Casoria ha voluto ribattezzare l'incauto Berlusconi, può avere effetti a dir poco opposti e indesiderati. Già, sosteneva Novalis: «Ogni parola è una parola di evocazione. A secondo dello spirito che chiama, uno spirito appare». Uno spiritello magari sotto forma di complotto? Del resto, aggiungeva Jorge Luis Borges: «L'uomo della strada indovina la stessa professione della madre di ogni passante». Tant'è. L'arte dell'insulto politico attraverso lo sfregio linguistico (soprannome, calembours, doppi sensi e giochi di parole) è stata la forma più antica e riparata di protesta popolare. Basti pensare a Pasquino nella Roma papalina.
Una vera e propria epidemia di nomignoli, insomma, ha scandito anche i Ventenni che si sono susseguiti in Italia. Da Mussolini, detto il Mascella, a Berlusconi, passato in fretta da Sua Emittenza a Caimano, il Belpaese forse è più riconoscibile anche dai soprannomi di Lor Signori. A volte l'investitura è diventata una sorta di sintesi biografica: l'Avvocato (Agnelli), l'Ingegnere (De Benedetti), il Contadino, (Gardini). E a dare ascolto a Groucho Marx, le caricature verbali servono pure a misurare il «tasso di Sodoma-Gomorra» di un Paese. Già, perché da donna Rachele Mussolini a Veronica Lario, altra costante storica degli «Italici piangenti» (Gaio Fratini) il frusciare delle lenzuola spesso ha fatto da colonna sonora alle vicende più segrete degli inquilini mascherati del Palazzo. Altro che «tintinnio di sciabole» del golpista De Lorenzo, che tanto spaventarono Antonio Segni. Proprio lì al Quirinale dove Re Vittorio Emanuele III, a causa della sua bassa statura, si era conquistato il titolo assai poco nobiliare di Sciaboletta. Caduto il tiranno, ma già qualcuno invocava: aridatece er Puzzone (Mussolini), in quei primi anni euforici succedutisi alla Liberazione — quando lo Zio Sam simboleggiava ancora gli Usa, e l'Urss era incarnata dal tiranno Baffone (Stalin) —, dalle urne spuntò un altro Crapun, De Gasperi. Ecco l'Italia democristiana e bacchettona (la Balena bianca). «L'era pro nobis» o «M'illumino d'incenso». Tanto tuonò in quella tempesta elettorale che di lì a poco la grandine del pettegolezzo si abbatté devastante sui Palazzi romani. Provocando il primo scandalo della serie «letto e potere»: il caso Montesi.
E sul palcoscenico gossipparo apparvero il Cigno Nero (Anna M. Caglio). La testimone che aveva incontrato il marchese Ciccio Patana Mio (Ugo Montagna), nell'anticamera del vecchio ministro Spataro (dimissionato). «Il successo fa scandalo/ lo scandalo fa successo», motteggiava il Signore di Mezz'età, Marcello Marchesi. Altri tempi, altri nomignoli. Nella via Veneto della «Dolce vita», intanto, gli intellettuali animati da Maccari (il Supercortomaggiore), Longanesi (il Carciofino sott'odio), Flaiano (il Redattore cupo) e Talarico (il Lepre), si sfidavano tra di loro con abili e sottili giochi di parole; con nomignoli al curaro, che passeranno alla storia delle patrie lettere. Neppure la politica era risparmiata. A Montecitorio il polemista del Pci, Giancarlo Pajetta era ribattezzato: l'Acido russico. Chiosava da par suo Longanesi: «Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce che rappresentano queste idee». Gli faceva eco Fratini: «Governi pendolari/ monocolori a vela/ governi di convergenza parallela/ tra il giovedì grasso e le ceneri...». L'aveva vinta, insomma, quella leggerezza invocata da Italo Calvino contro «la peste che colpisce anche la vita delle persone». Da anni ormai nell'arguta contesa di parole la mannaia ha sostituito il rasoio affilato di un Arbasino o dell'impertinente Roberto D'Agostino a cui si deve, tra gli ultimi nomignoli, il sublime Su-Dario Franceschini. La creatività e l'originalità della battuta, insomma stanno scivolando sul terreno militante del grossolano umorismo caricaturale d'antan. Solo battutacce e soprannomi d'avanspettacolo. Così, se a Berlusconi sono toccati Al-Tappone e Testa d'Asfalto, per par condicio a Prodi è stato rifilato un rozzo Er Mortadella. Della serie, insomma: er più pulito c'ha la rogna. Alla vigilia di Tangentopoli (era dei «nani e ballerini») non era andata meglio sia a Craxi (il Cinghialone) sia a De Michelis (Avanzo di balera). Su De Mita si esercitò con perfidia Gianni Agnelli definendolo un «Intellettuale della Magna Grecia». Il mite Forlani fu tramutato in Coniglio Mannaro. Nella «lite delle comari» tra Andreatta (Dc) e Formica (Psi), il primo diede del Commercialista di Bari al collega di governo. Che, di rimando, lo nominò a Comare-Lord dello Scacchiere. A guardare lo scenario odierno, non si può non provare un pizzico di nostalgia per gli stessi nomignoli dei protagonisti delle tangenti alla amatriciana: dallo Squalo (Sbardella) a Er Monaco (Giubilo). Con i loro inquietanti nomi di battaglia. Autentici, però, come le loro gesta malandrine.
Diceva Ennio Flaiano: «La lingua si arricchisce anche con gli apporti volgari, ma è anche vero che la lingua si guasta quando la volgarità non è schietta, vorrei dire popolana, ma compiaciuta e ammiccante...». Oggi di plebeo, nel senso di contributo alto «dal basso», c'è ben poco nel campo della satira politica. La battuta, il nomignolo, lo sberleffo o la freddura, le contaminazioni linguistiche rischiano allora, parafrasando il filosofo Arthur Schopenhauer, di ridursi soltanto in «calunnie abbreviate».
«Corriere della sera» del 29 giugno 2009

L’aborto e i fondamenti del diritto

Una riflessione che, in tempi non sospetti, evidenziava l'ispirazione gnostica dell'abortismo-ideologia mettendo a fuoco il reale obiettivo (consapevole o meno) delle campagne per la legalizzazione dell’aborto: scardinare l’ordinamento giuridico dalle sue basi etiche.
di Vittorio Mathieu
Il fenomeno che mi propongo di considerare non è la pratica dell’aborto, bensì la rivendicazione del diritto di praticarlo presentata da movimenti ancora ristretti, ma non per questo meno significativi. Questa rivendicazione e il fenomeno nuovo, rivelativo di un sottofondo che solo in parte è chiaro, forse, agli stessi protagonisti. Le interruzioni volontarie della maternità ci sono sempre state, e anche se oggi fossero molto più frequenti di un tempo la circostanza non sarebbe decisiva. Del resto è verosimile che in questo campo le cifre siano ancor meno attendibili che in altri; atte a confermare la teoria di Mark Twain, che suddivide le menzogne in tre classi di gravità crescente: piccole menzogne, grandi menzogne, statistiche.
Se una donna abortisce è comprensibile che non lo vada a raccontare; ma oggi pare accertato, qualche volta, anche il contrario: donne che non avevano abortito affatto, lo sono andate a raccontare. Ora, la novità che colpisce, e che, mi sia lecito dire, allarma più del fatto stesso, è appunto questa: che del fatto si faccia una bandiera. Bandiera di che cosa? Sembra abbastanza chiaro che il trauma fisico è divenuto un pretesto; e, probabilmente, ciò che si nasconde sotto questo pretesto è molto più importante del trauma stesso, per quanto grave esso sia in sé. Facciamo un paragone con un problema apparentemente lontano e, tuttavia, forse non senza legami con quello che ci occupa: l’adulterio. Vi sono state e vi sono società, o almeno ambienti sociali, che non solo tollerano l’adulterio, sia dell’uomo, sia della donna, ma lo incoraggiano con diversi generi di pressione: in particolare col considerare come cosa di poco buon gusto il rifuggirne, salvo che uno voglia distinguersi per la sua eccentricità. Può tuttavia accadere — anzi, è quasi sempre accaduto e, a volte, accade ancora — che queste medesime società non cessino affatto, per questo, di considerare l’adulterio come una colpa e come un reato insieme, e che, quantunque rare siano le volte che questo reato è punito, non invochino per questo la prescrizione estintiva. Se vogliamo essere scettici fino in fondo, può darsi che lo facciano perché temono che, insieme con la proibizione, venga meno una delle attrattive: ma il fatto resta.
A questo punto si può essere tentati di compiere un passo breve, quasi insignificante. Si può dire: prendiamo atto della situazione e, visto che le cose stanno così, cancelliamo l’adulterio dal novero dei reati. Condannare moralmente e giuridicamente un uso che si tollera, se pure non si incoraggia, è ipocrisia. Allora perfino chi depreca quell’uso può restare persuaso da un tal discorso, e considerare che l’ipocrisia, lungi dal salvare la situazione, la aggravi. Ma la verità è molto diversa: quel piccolo passo, tutt’altro che insignificante, porta una differenza immensa. In superficie non cambia nulla, e può darsi perfino che porti a un miglioramento; ma rispetto ai principii turba i costumi più di mille infrazioni impunite. È il manifestarsi, nella forma e nella misura in cui può manifestarsi, di una rivoluzione.

Di chi e l’ipocrisia?
Questo dell’ipocrisia è un punto molto importante anche per il nostro tema, e quindi conviene fermarcisi su. Si dice: è inutile punire sulla carta un reato, quando tutti sanno che è compiuto continuamente senza sanzione. È ingiusto colpire qualche sfortunato incidente, dovuto a ignoranza o a mancanza di mezzi, quando basta passeggiare per i quartieri alti di una città per scoprirvi una quantità di piccole cliniche dove e improbabile che qualcuno vada a farsi asportare un tumore o a richiedere il trapianto di un rene.
In realtà, il discorso sull’ipocrisia va esattamente rovesciato. L’ipocrisia non sta dalla parte di chi vuol conservare un principio pur sapendo benissimo che è continuamente violato; l’ipocrisia, sia essa inconsapevole o calcolata, e di chi pretende di abolire il principio e, in ultima analisi, qualsiasi principio, col pretesto che non trova più rispondenza nel costume. Poiché non d’altro che d’un pretesto si tratta.
Coloro che si appellano al costume per chiedere che si abolisca una norma presuppongono, tacitamente o no, che si tratti di una norma meramente positiva, o di una consuetudine dipendente da circostanze mutevoli. Se si trattasse di un principio inderogabile, invocare una prescrizione estintiva sarebbe vano. Ora, quando si attaccano con quel pretesto principii che la legislazione può, bensì, riconoscere o non riconoscere, ma la cui validità, in ogni caso, non dipende dal fatto che il legislatore li riconosca, l’obiettivo reale non è più di abbattere questa o quella norma singola, questo o quel divieto: è di mostrare precisamente che non esistono principii del tipo che s’e detto, divieti che il diritto oggettivo debba semplicemente riconoscere e far suoi, senza che la loro validità dipenda da tale riconoscimento. Il presupposto, tacito o manifesto, è che esistano solo statuizioni arbitrarie, dipendenti da un condizionamento storico che, in ultima istanza, si fa sentire attraverso la volontà del legislatore. Ogni statuizione, di conseguenza, potrà mutare, alla sola condizione che muti la volontà del legislatore. Equivalente edulcorato, ma tutt’altro che emendato, dell’affermazione che la legge non è che la volontà del più forte: una dottrina formulata già con molta chiarezza dai sofisti del IV secolo avanti Cristo, e che non muta in nulla per essere oggi riformulata con le tecniche più raffinate del giuspositivismo. Senonché la volontà del più forte non è altro che un fatto: e se la legge si riduce alla volontà del più forte, e non c’è altro diritto che questo, il diritto non si distingue più dai fatti, e non può più pretendere di regolarli. Questo, a mio parere, è il punto a cui veramente si vuole arrivare, quando si invocano certe prescrizioni estintive.

Spieghiamoci con un esempio. Sarebbe certo plausibile invocare la prescrizione estintiva contro il divieto di circolare a più di cinquanta chilometri all’ora negli abitati, dal momento che tale norma è violata senza sanzione milioni di volte ogni giorno. Ma, questo, perché quel limite è pura convenzione. Per contro la norma di mantenere in ogni circostanza una velocità presumibilmente non pericolosa per sé e per gli altri, pur potendo essere richiamata esplicitamente anche nella legge, è un principio che non dipende punto da questa, e che sussisterebbe anche in assenza di ogni legge, non si prescriverebbe quand’anche tutte le strade fossero percorse continuamente da orde di crazy drivers. Pretendere prescritta questa norma, sarebbe pretendere abolito il diritto. Cominciamo così a vedere dove punti l’ipocrita discorso sull’ipocrisia. Non a mutare questa o quella norma invecchiata, bensì ad attaccare principii necessari, per mostrare che non vi sono punto principii a cui la legislazione debba tassativamente ispirarsi, perché tutto dipende da convenzioni, storicamente variabili. Quando si pensa, come in Olanda, di cancellare dalla lista dei reati la detenzione e l’uso personale di stupefacenti, chiamati dolci (soft), col pretesto che è impossibile perseguire per questo centinaia di migliaia di persone del resto incensurabili, il discorso è palesemente diverso da quando si parla di abolire, ad esempio, un limite convenzionale di velocità. Poiché se fosse illecito per principio comportarsi in modo da divenire prima o poi, per sé e per gli altri, un pericolo molto peggiore che la morte, l’impossibilita di fatto dei pubblici poteri di fare rispettare la norma con sufficiente frequenza sarebbe irrilevante, rispetto al dovere di includere quel divieto nella legislazione. La bancarotta proclamata con quel pretesto dai pubblici poteri sarebbe bensì reale, ma non per questo meno fraudolenta, consistendo la frode nel far credere che, poiché molti, moltissimi o anche quasi tutti si comportano ormai in un modo che un tempo si considerava illecito, tutto si riduca a un mutamento storico nel sentire della generalità, a cui il diritto dovrebbe adeguarsi. La frode sta nel mascherare la vera conclusione a cui si vuole arrivare, dietro a una verità indubitabile. È verissimo, infatti, che una norma non è pensabile come norma giuridica se non conserva una qualche efficacia: ma se la norma divenuta impotente, o comunque non rispondente al costume, è una norma necessaria, e la legislazione non è più in grado di farla rispettare, ciò significa, semplicemente, che su quel punto il diritto ha cessato di esistere, e la società non è più in grado, per mancanza di volontà o di mezzi, di imporlo. Sicché la difesa del diritto alla vita va ben oltre il suo pur doveroso oggetto immediato: si iscrive infatti in una più vasta e non meno urgente difesa del diritto, della stessa esistenza e possibilità del diritto in quanto tale, e non solo del diritto alla vita.

Attentati al diritto
Senza dubbio in ogni legislazione vi è un gran numero di norme antiquate, non necessarie o dannose che, siano o no disattese di fatto, si potrebbero con gran vantaggio mutare. Se lo scopo fosse di ammodernare il diritto, su quelle converrebbe puntare. Invece non accade mai che un grande movimento d’opinione si scateni contro norme effettivamente arbitrarie, e batta in breccia i passatisti su quei punti, dove non avrebbero modo di difendersi. Nessuna crociata, nessun cartello, nessuna vittima pronta al martirio per abolire le norme che regolano la privativa del sale, o le imposte comunali di consumo; nessuno o quasi che le qualifichi come anacronistiche, medievali, antieconomiche, antisociali, come infatti sono.
È molto se, dopo secoli, qualche considerazione puramente tecnica riesce a farsi luce. Al contrario, tutti gli sforzi mirano ad abolire norme che, a torto o a ragione, si pensa per lo più che dipendano da principii superori alla legislazione medesima. Ciò sembra strano, ma è perfettamente spiegabile se il proposito non è già di ammodernare, bensì di scalzare il diritto. Allora occorre attaccare quelle norme che, bene o male, esprimono un principio necessario e non mutevole del diritto: un principio senza il quale il diritto è impensabile. Ciò che si vuole, infatti, è appunto questo: che il diritto risulti impensabile. Abbattute queste norme, la conclusione, lo si dica o no, non sarà che il diritto è mutato, bensì che ha cessato di esistere. Le leggi si saran ridotte a espressioni generiche di una volontà meramente utilitaria, come sosteneva, ad esempio, Benedetto Croce. Ed è questo, precisamente, ciò che si maschera in molti casi — sebbene non in tutti, è ovvio — dietro il proposito di adeguare la legislazione ai mutamenti di mentalità e di costume. Si finge — parlo sempre di una finzione per lo più inconsapevole e per dir così freudiana — di voler modificare norme disattese per renderle aderenti al concreto, ma si scelgono, non per caso, norme la cui caduta implichi la caduta totale del diritto, perché questo è lo scopo.
A volte lo spunto è tratto da materie meno tragiche, come l’adulterio, altre volte da materie più tragiche come l’aborto o gli stupefacenti, ma dietro c’è un unico disegno, coerente e radicale, anche se spesso inconscio, di contestare l’esistenza stessa del diritto come principio regolatore della vita dell’uomo.
Non dimentichiamo che, se per molti di noi la fine del diritto coincide con la fine dell’uomo, per altri — e oggi sono moltissimi — la fine del diritto sarebbe la rinascita dell’uomo, essendo l’ordinamento giuridico qualcosa di esterno, dunque di oppressivo, qualunque esso sia. Questa lotta contro il diritto oggi è condotta anche a viso aperto: e meglio sarebbe se fosse sempre così. Ma spesso essa si vale di ausiliari che la mascherano dietro il pretesto, assai plausibile, di rendere più moderna, più umana, più aderente alla realtà la legislazione; o anche dietro il pretesto, molto meno plausibile, di amministrare le stesse leggi vigenti in modo da piegarle in una direzione su cui il diritto non può che trovare la morte. Consapevole o no, questo è ancora un mascheramento. E il mascheramento è favorito, senza dubbio, dall’isolarsi della sfera giuridica dall’insieme della sfera morale: processo utile, anzi tecnicamente necessario, ma che offre il destro a qualsiasi sofisma, se non si tiene conto dei limiti entro cui quell’astrazione deve valere. Tutto ciò porta a quell’interpretazione del diritto come pura convenzione che riconduce il diritto alla forza: poiché solo dalla forza dipende la scelta di una convenzione piuttosto che di un’altra. Ed ecco attuarsi una distruzione tecnica del diritto, non più distinto dal fatto, meno pittoresca ma più efficace di quella che e perseguita, ad esempio, da una parte della contestazione giovanile.

Il boomerang puritano
Studiare il diritto come un sistema chiuso è come studiare in fisica un processo adiabatico: è un procedimento necessario; ma sarebbe illegittimo concludere che esista un diritto isolato dalla morale, come sarebbe erroneo supporre che in natura esistano trasformazioni adiabatiche. Cosi nel caso che ci interessa, si dice: il divieto di interrompere a proprio arbitrio la maternità può rimanere, non più in dipendenza dal diritto, bensì dalla morale. Senonché il rescindere del tutto la sfera giuridica da principii di questa specie, col pretesto che essi possono continuare a valere nella morale, porterebbe, non so se a vanificare la morale, ma certo a vanificare il diritto: che e appunto ciò che desiderano coloro che escludono norme giuridiche non convenzionali, bensì eticamente necessarie.
Codesta tendenza a sopprimere il diritto trova, poi, un alleato non meno prezioso nel rigorismo puritano. Questo può definirsi un atteggiamento che considera come assolutamente intollerabile l’eventualità che il comportamento si scosti dalla norma. Allora, per evitare un fatto così intollerabile, si possono seguire due vie: si può, in certi casi, premere sul comportamento perché rispetti la norma; ma si può anche, per quanto a prima vista appaia paradossale, premere sulla norma perché si adegui al comportamento. E poiché, per tutto un complesso di ragioni, in ciò che ha attinenza col sesso è difficile premere con efficacia sul comportamento, appunto qui è accaduto più di una volta che in nome del rigorismo si premesse sulla norma: si premesse sulla norma fino a distruggerla. La storia delle correnti catare e puritane è ricca di esempi, solo fino ad un certo punto paradossali, di un loro rovesciarsi in forme di libertinismo e, infine, di anomismo assoluto. Modificando o abolendo la norma si ottiene infatti, non importa a che prezzo, che il comportamento non si scosti più da essa.
Non c’è dubbio che anche l’aspirazione ad abolire il divieto di interrompere ad arbitrio la maternità rientri in questa più generale tendenza, che dal Nord dell’Europa sta rifluendo verso i suoi luoghi di origine, in una civiltà come la nostra che, per molti aspetti, torna a meridionalizzarsi e ad orientalizzarsi. Novità che sembrano venire da settentrione, sono, in realtà, il rifluire di tendenze antichissime medio-orientali, che ritornano per quella via.

Un principio lasciato a metà
Il caso dell’adulterio, quanto a questo, è esemplare. Per una mentalità catara e puritana esso è assolutamente intollerabile. Ma poiché non è facile modificare su questo punto le inclinazioni degli uomini, e neppure delle donne, ecco che si modifica l’istituto matrimoniale. Se una semplice telefonata all’ufficio di stato civile può annunziare unilateralmente un divorzio, e un’altra, consensuale, un matrimonio, ecco che quel problema, apparentemente cosi difficile, di evitare che si commettano adulteri, almeno in teoria, è risolto. Poiché il peccato originale, o i suoi surrogati laici, possono bensì impedire ad un uomo di resistere alle tentazioni della carne, ma non possono impedirgli di fare un paio di telefonate. Qualcuno crederà che io scherzi: ma in paesi settentrionali siffatti snellimenti del rito sono allo studio; e non c’è dubbio che, in luogo di quella specie di sacerdote che è l’ufficiale di stato civile, all’altro capo del filo apparirà più razionale installare il terminale di un computer, che immagazzini nella propria memoria gli scambi matrimoniali con la stessa rapidità con cui il nostro casellario fiscale centrale dovrebbe registrare le transazioni di affari. A questo punto ad evitare l’adulterio basterà un po’ di buona volontà, anche se alcuni penseranno che sia una buona volontà sprecata, del matrimonio non essendo rimasto altro che il nome.
Questo è ciò che mi son permesso di qualificare come ipocrisia: questo svuotare il diritto fino ad annientarlo, sotto la maschera del renderlo aderente alla realtà e praticabile. Ma questo non è tutto: perché puntare precisamente sulla legalizzazione dell’aborto, e non su altro, per mettere in forse i principii? La scelta manifesta altre spinte e moventi profondi, oltre a quello, comune a vari movimenti d’opinione, di abolire il diritto. Lo si può costatare notando una sua caratteristica: essa rovescia, per certi aspetti, la direzione più comune dei paradossi morali.

Il filosofo morale, infatti, è abituato a paradossi che, se urtano il senso comune, piacciono almeno per la loro radicalità. I paradossi degli stoici, come quello che sarebbe ugualmente grave uccidere un cittadino o una gallina, erano argomento di piacevoli discussioni nell’antichità, perché portavano unilateralmente un principio alle sue estreme conseguenze, e appunto perciò davano scandalo alla coscienza comune. Ma il caso dell’aborto è l’opposto, esso rifugge dalle estreme conseguenze, e il filosofo morale vi trova un diverso motivo di scandalo: un principio lasciato a metà. Un aborto è, per antonomasia, una cosa non portata a compimento; e che proprio di questo si faccia una bandiera, a tutta prima non può non lasciare perplessi.

Il rigorismo kantiano
Delle due l’una. O la soddisfazione dell’istinto genetico ha da essere isolata, per ragioni di opportunità, dal suo fine naturale che è la procreazione, e allora sembrerebbe plausibile provvedere a monte, ed evitare che le donne si trovino nella necessità di abortire. O, al contrario, considerato che tutti i mezzi che evitano il concepimento fanno violenza, in un modo o nell’altro, alla natura, si vuole che il processo naturale segua il suo corso, pur escludendosi di poter nutrire ed educare tutti i bambini che naturalmente verrebbero al mondo: e allora la soluzione, radicale e naturale insieme, sarebbe di lasciare che la donna porti a termine la gravidanza — con giovamento, tra l’altro, per la sua salute — e provvedere a valle, con l’infanticidio. Forse che, per scalzare il diritto e urtare la coscienza comune, l’infanticidio non avrebbe gli stessi vantaggi dell’aborto? In più, la natura sarebbe rispettata e, con essa, la coerenza. La Rupe Tarpea suggerisce associazioni popolari, sebbene non controllate, in questa direzione. E a chi obiettasse che — a parte le ben diverse motivazioni — il ius vitae et necis appartiene ad età lontane, posso rispondere citando Emanuele Kant, il quale a proposito del cosiddetto infanticidio d’onore così si esprime: «Il bambino venuto al mondo fuori del matrimonio è fuori della legge e, di conseguenza, è anche fuori della protezione della legge. Egli si è, per dir così, insinuato nella società civile come una merce proibita, e la società civile può ignorare la sua esistenza e, conseguentemente, anche la sua distruzione». Kant pensa pur sempre che l’infanticidio d’onore sia meritevole di punizione, ma, parrebbe, non da parte della società civile: perché, in tal caso, la società civile non potrebbe ignorarlo. Per Kant, che è un rigorista, irrogare la pena è un dovere stretto, tanto che tre pagine prima egli aveva detto: «Quand’anche la società civile si sciogliesse col consenso di tutti i suoi membri, l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe prima essere giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta, e il sangue versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione».
Ebbene se l’infanticidio e scusato qui da un filosofo sul piano giuridico come un modo, in verità assai curioso, di salvare l’onore, non potrebbe essere giustificato da altri filosofi con altri motivi analoghi a quelli per cui le rondini buttano fuori dal nido i piccoli che non riescono a nutrire? Questo fenomeno osservato da Kant in tarda età, lo avrebbe indotto, secondo la testimonianza del suo biografo Wasiansky, ad esclamare: «Es ist ein Gott» (c’è un Dio). Eppure la campagna per la legalizzazione dell’aborto rinuncia al vantaggio di coerenza che le deriverebbe dal trasformarsi in una campagna per la legalizzazione dell’infanticidio. Quale può esserne la ragione? Perché, trascurando le possibilità estreme, punta su una soluzione intermedia che non salva né la capra, né i cavoli, né la natura né i principii?
L’esigenza di una soluzione più radicale, in verità, è ben sentita da circoli femministi più spinti (dal punto di vista del costume), che giustamente respingono l’aborto, lecito o illecito che sia giuridicamente, come un rimedio non meno lesivo della donna di qualsiasi altro proposto alla sua soggezione. Questi circoli si sono resi conto che, fin quando si ammetta a fatti una disimmetria tra i sessi non importa quanto negata a parole, una questione della donna esisterà sempre: di conseguenza, caldeggiano un tipo di rapporto erotico — che sarebbe improprio, ormai, chiamare sessuale — per cui non si pone neppur più il problema di evitare il concepimento. Anziché a valle, la natura sarebbe questa volta salvaguardata a monte: ma a monte, addirittura, di quella caduta dell’uomo che e simboleggiata nel racconto del peccato originale, poiché, secondo una ben nota interpretazione gnostica e neognostica, dal peccato originale dipenderebbe, insieme con la perdita della genuina natura, anche lo staccarsi di un sesso dall’altro. Senza che chi professa quella soluzione spinta, in pratica, lo sappia, in essa ritorna l’antica concezione dell’androgino divino, inteso come vera natura originaria dell’uomo: natura che senza dubbio per il momento siamo in grado di ritrovare solo in forme imperfette ed allusive, ma che in ogni caso ci dà la direzione in cui guardare per sfuggire alle conseguenze deleterie di quella che Von Baader, nel secolo scorso, chiamò la Entzweiung, o lo spalarsi dei sessi. Per quanto aberranti rispetto alla comune coscienza queste proposte hanno, per lo meno, il pregio della coerenza e di una profonda, anche se inconsapevole, significatività metafisica: due cose che all’aborto sembrano completamente mancare.

Diritto fondato sul desiderio?
Eppure c’è, a mio parere, una ragione per cui una parte più o meno grande del movimento per la liberazione della donna ha preso di mira, sia pure come momentaneo e falso scopo, quella soluzione intermedia: ed è che essa urta il meno possibile il sentimento. Non urta il sentimento di chi ama, che può trovare espressione nelle forme consuete della natura che conosciamo, anziché nella natura originaria di un androgino fantasticato dalla mente di visionari. Non urta i sentimenti della madre, a differenza dell’infanticidio, che non potrebbe non scatenare in lei lo spaventoso dramma evocato dal monologo di Margherita. E non urta in modo visibile i sentimenti del feto, che quasi non ne ha, e di cui viene soltanto delusa quella che l’Allara, in una polemica col Carnelutti su tutt’altro problema, chiamò una volta, con ironia, «la legittima aspettativa di vedere la luce». Potendosi dunque supporre che non urti sentimenti di particolare rilievo, la soluzione viene caldeggiata come la meno cattiva di tutte, e come tale la legislazione dovrebbe accettarla.
È questo, a mio parere, un altro tratto caratteristico della mentalità contemporanea, che la campagna per la legalizzazione dell’aborto rivela: l’importanza attribuita al sentimento, non già come oggetto, bensì come fonte del diritto. William James, in un passo riguardante i fondamenti della morale, afferma che qualsiasi desiderio ha, come tale, un certo diritto ad essere soddisfatto. Rovesciando l’affermazione si ottiene che qualsiasi diritto nasce dall’esigenza di dar soddisfazione a un desiderio; ed e appunto questo secondo criterio quello che tende ad affermarsi nel concetto che oggi i più hanno del diritto. Laddove un desiderio non c’è, o non si manifesta, non sorge il problema di riconoscerlo giuridicamente e di renderlo compatibile con la soddisfazione dei desideri di tutti gli altri. Così, ad esempio, il desiderio di sopprimere la suocera non può essere giuridicamente protetto solo perché esso urta col desiderio della suocera di conservarsi in vita, o col desiderio che, per avventura altri abbia, di assecondarla: se cosi non fosse, avrebbe diritto ad essere soddisfatto. Del resto, esattamente per un ragionamento di questa specie, Raskolnikov si induce a sopprimere la vecchia usuraia che risulta essere priva, o quasi, di sentimenti.
Nel caso che ci riguarda direttamente e molto probabile che l’incoerenza della soluzione proposta, Il suo rimanere a mezzo tra il rovesciamento totale della natura quale la conosciamo e una affermazione esplicita del diritto di uccidere, sia dovuto a una sorta di rispetto: non già della legge morale, ma del sentimento. Sotto questo riguardo può sembrare che la soluzione non danneggi nessuno: a patto, s’intende, che la comune coscienza si allinei su quell’insensibilità che può avere, per un semplice intervento chirurgico, chi è del mestiere.

Una strategia più complessa
Per questo io penso che la campagna per la legalizzazione dell’aborto abbia, in realtà, una posta più importante di quella, già rilevante per sé, che viene messa esplicitamente in gioco. Questa posta è il concetto stesso del diritto. Se il diritto è semplicemente un’espressione generalizzata di certi desideri, da parte di persone o di gruppi che, per una qualsiasi ragione di fatto, abbiano la forza di farli valere e di imporli come legge dello Stato, non c’è dubbio che quella campagna sia rettamente impostata. I desideri contrastanti che essa può incontrare sono facilmente rovesciabili, superabili col mostrare che derivano da un mal inteso attaccamento al passato, se pure non da una gratuita tendenza a interessarsi dei fatti altrui. Ma, appunto per questa ragione, la campagna per la legalizzazione dell’aborto può essere efficacemente contrastata solo se non si acconsente a seguire gli avversari sul loro piano: sul piano del sentimento come fonte del diritto, quand’anche oggi, nei più, il sentimento suscitato da quella proposta fosse di indignazione. Essa può essere contrastata solo se si ritorna a pensare che ciò che è giusto o ingiusto in un rapporto giuridico, va desunto dalla natura del rapporto stesso, per quanto grande sia in certi casi la necessità di desumerlo, e non da ciò che ad uno accada o no di desiderare. I sentimenti dei consociati, è ovvio, sono un elemento importante della materia che il diritto deve regolare, né si avrebbe mai ragione di prescinderne, ma non sono la fonte, la ragione della norma che, pure, ne tiene conto. Oggi forse riesce difficile ammetterlo: eppure il fatto che i giuristi, magari senza accorgersene, si siano lasciati affascinare da Rousseau è la principale ragione per cui il diritto offre il fianco ai suoi nemici, che vogliono abbatterlo perché lo considerano nient’altro che un’ipocrita imposizione.
Kant, che pure ammirava Rousseau, non lo seguì su questo punto. Lo si vede persino, dai passi in cui ragiona di storto, come il primo di quelli che abbiamo citato. L’eccezione che fa per l’infanticidio, infatti, tiene conto, bensì, di un sentimento dell’onore che oggi — e in questo caso, direi, per fortuna — è mutato, ma non si fonda punto per questo sul sentire, bensì su una ragione tutta oggettiva: sul fatto che il figlio nato fuori del matrimonio è nato fuori della legge. Dato che questa premessa è vera solo secundum quid, non simpliciter, la conseguenza che Kant vorrebbe trarne non regge. Ma altro è condurre ragionamenti sofistici su questo o quel punto, altro è stravolgere il fondamento stesso del ragionare giuridico, come quando, per fondare il diritto, ci si appella al sentimento. Allora per un po’ ci si compiace di vedere che il diritto si va facendo via via più bonario e più tenero, più umanitario, financo filantropico e assistenziale; che, deposto il cipiglio con cui minacciava sanzioni punitive, aiuta, al contrario, ciascuno a realizzarsi nel modo più pieno, secondo le sue aspirazioni. Poi si scopre con sorpresa che, buttata la spada, Temi trova necessario liberarsi anche della bilancia. Infine si costata che, contro ogni previsione, l’umanitarismo, invece di diffondere i sentimenti favorevoli alla conservazione dell’umanità, promuove tendenze che minacciano di distruggerla.

Ma ciò non avviene a caso. La distruzione dell’uomo vecchio è precisamente il presupposto della rinascita dell’uomo nuovo; e questa distruzione può bene assumere un aspetto anche fisico, per chi crede che la rinascita, che in origine si indirizzava al Regno del Cieli, debba compiersi qui, su questa terra. L’uomo vecchio si affidava alle norme estrinseche e formali del diritto, l’uomo nuovo si libererà dalla legge per unirsi ad ogni altro uomo nella comunità dell’amore. Questa la meta ultima di chi, svellendo il diritto dalle sue vere radici, lo ancora alle inclinazioni e ne vanifica, così, il concetto. Le sue intenzioni ultime sono buone, non dimentichiamolo, e questa è la sua forza, anche se i mezzi usati per attuarle sono più o meno coscientemente pretestuosi. Se non riconosciamo queste buone intenzioni, e non scorgiamo questa sorta di buona fede che soggiace ai pretesti mutevoli accampati via via per perseguirle, rischiamo di trovarci disarmati. Però tutte queste buone intenzioni dipendono da un’ipotesi che nulla ci dice che sia vera, o comunque verificabile: l’ipotesi che la volontà dell’uomo possa ritrovare su questa terra l’originaria perfezione che, secondo la teologia cristiana, avrebbe avuto prima della caduta. Solo a quel patto, infatti, il diritto potrebbe perdere la sua potenziale repressività, anzi cessar di esistere come norma esterna. Questa traduzione laica di una speranza già caratteristica di una fede religiosa va certamente rispettata e, in ogni caso, sarebbe inutile cercar di debellarla con una polemica moralistica. Ma ciò non deve distoglierci dal cercare le implicazioni ultime che si celano dietro prese di posizione dettate da una fede che nessun uomo ragionevole e rispettoso dell’esperienza e tenuto a condividere.

Legge morale e ordinamento giuridico
La mia conclusione è che difendere la vita umana è importante, ma che vana sarebbe questa difesa se ci si muovesse su un piano meramente biologico, e per ragioni puramente sentimentali. Per quanto mirabile sia come opera della natura, e per quanto ci possa essere cara soggettivamente, la vita umana, come fatto biologico, è ancora un fatto come qualsiasi altro. Di attribuire alla propria vita una dignità superiore l’uomo avrà una qualche ragione solo se la sua vita è una attestazione, sia pure sempre labile, incerta, precaria, della legge morale. Se, invece, le norme giuridiche si preoccupassero solo di tutelare biologicamente la vita, in un primo tempo cominceremmo col domandarci in nome di chi e di che cosa lo facciano, in un secondo tempo ci accorgeremmo che, non senza ragione, hanno cessato di farlo. Se il diritto tutelasse la vita solo perché tutela gli interessi, non sarebbe irragionevole che smetta di tutelarla, quando quella vita non interessa a nessuno. Ma il diritto tutela gli interessi che siano, anzitutto, giusti, e la sua fonte prima non è l’interesse, bensì la legge morale, che esso traduce in norme esterne. La traduce con difficoltà, incertezze e molte limitazioni, ma su di essa si fonda, e non sui desideri di chi lo instaura. Sicché può ben accadere, nel caso della maternità interrotta, che nessuno sia in grado di presentarsi a fare opposizione, e potrà anche accadere, al limite, che essa non offenda più i desideri e i sentimenti di nessuno, ma il punto decisivo è un altro: se il legislatore abbia o no l’obbligo di tradurre in una norma anche esterna il divieto morale di disporre ad arbitrio della vita nostra e dell’altrui. Se cade questo principio, non sarà certo un interesse — come, poniamo, il preteso interesse dell’integrità della stirpe — quello che si potrà invocare contro l’aborto (interesse, del resto, che in certi casi potrebbe anche richiederlo). Ma se cade l’assunto che la legislazione debba far valere certi principii per un dovere superiore alba legislazione medesima, per un dovere morale del tutto indipendente dagli interessi, è dubbio che possa rimanere in piedi una legislazione qualsiasi.

Ecco perché, a mio parere, prima ancora di combattere per la vita, occorre proporsi di combattere per il diritto. Non certo per questa o quella norma antiquata, non più rispondente alla realtà, e che può benissimo essere modificata con vantaggio di tutti: ma certamente per ogni norma senza la quale l’intero diritto cesserebbe di esser tale. In questo caso mutare la legge col pretesto che sia anacronistica sarebbe, in realtà, un negare il diritto: come giustamente vuole, dal suo punto di vista, chi pensa che il diritto altro non sia che espressione di interessi e di desideri, ma come non c’è ragione di concedere se si pensa che il diritto esprima lo sforzo stesso dell’uomo per essere uomo, e non soltanto un congegno biologico più raffinato di altri. Allora, quando la legge sia espressione di questo sforzo, converrà obbedire a quanto comanda il frammento 44 dell’antico Eraclito: «È necessario che il popolo combatta per la legge, come per le mura della città».
Da AA.VV., Aborto No, Edizioni Ares, Milano 1975, pp. 71-95

28 giugno 2009

Afrodite chatta e Dioniso fa il dj: ecco gli dei riveduti e scorretti

di Ezio Savino
Dalla mitologia all’attualità, il passo è più breve di quanto si possa pensare. Lo spiega un gustoso romanzo che mescola vizi e virtù classici e moderni
Metropolitana londinese. Fermata di Angel. Un posto come tanti. Shopping, cinema, qualche fast food, autobus che scaricano gente, metà con l’ombrello aperto, siamo a Londra. Là sotto sferragliano i convogli. Upper Street, è l’indirizzo: «Di sopra». Se c’è un «di sopra», vuol dire che c’è anche un «di sotto». Eccome, se c’è. Si attraversa l’ultima banchina, si va al di là dello strato di piastrelle e compare un’altra fermata, un marciapiede che sembra non finire da nessuna parte.
La folla che si raccoglie lì - come foglie cadute dai rami in una bufera - è immensa. Una babele di lingue. Età diverse. Ragazzi con la testa fracassata dall’incidente, soldati in frantumi, tossici in overdose e loro, i più rassegnati, i più tranquilli, i vecchietti con il pigiama dell’ospedale o il vestito stirato dell’ultima apparizione in società. Perché siamo al «portale». Passerà un treno, e i defunti andranno a destinazione, un quartiere incolore, casette neo Tudor fatte con lo stampino, sotto un cielo uggioso, in una luce fievole, in un silenzio da cimitero di ovatta. I greci antichi l’avrebbero chiamato Tàrtaro o, dal nome del signorotto locale, Ade.
Ci avviamo al punto di svolta del romanzo di Marie Phillips, Per l’amor di un dio (Guanda, pagg. 290, euro 16,50, traduzione di Elisa Banfi), ma il guizzo poetico e il metodo dell’autrice sono ormai lampanti. Il barnum della mitologia è dislocato ad Hampstead Head, in un fatiscente olimpo vittoriano che ospita gli dei superstiti. Il gioco è fatto. Si tratta di inventare, riga per riga, la trasposizione accettabile. La Phillips lo fa, con ironia e smalto, divertendosi (anche se il tono è serio, e la storia è lacrimosa, edulcorata solo dall’happy end): chi legge procede anche per la curiosità di scoprire come quel mondo irrigidito dalla venerazione del tempo possa ingranare, nella «laica» sarabanda dell’oggi.
Gli dei formano una famiglia rissosa (ci sta, è così anche in Omero, tanto per cominciare), inquilini annoiati di un mausoleo che, per batacchio, ha una corona di alloro scrostata dall’uso. Occupazioni e incarichi sono in scala. Apollo è un playboy arrapato (metamorfizza le amate riottose in alberi del parco, come quello vero fece con Dafne). Afrodite è una ninfomane addetta a una chat erotica. Ermes un motociclista con casco e stivali alati. Prende sul sellino i trapassati e li accompagna al portale. Per forza, è «psicopompo», guida di anime. Ha un da fare indiavolato, perché c’è sempre qualcuno che muore. Gli sta a pari, per impegno lavorativo, soltanto Ares, guerrafondaio, che passa ore sulle carte geografiche studiando le occasioni più ghiotte per scatenare conflitti. La guerra fredda è fuori tempo massimo? Peccato, c’è sempre l’Africa in ebollizione, e poi l’Iran promette più che bene. Dioniso è un dj disoccupato, che mixa e scratcha, mentre Zeus è un patriarca isolato in solaio, la pelle cascante, le gambe scheletrite, ma gli occhi ancora di diamante azzurro e il fulmine vibrante.
Inventiva romanzesca, da parte della Phillips. Ma il dettaglio è tornito con l’accuratezza di chi i testi di mitologia «vera» li ha compulsati parecchio, e con acume. Artemide (lavora da dog sitter, ci mancherebbe) irrompe in casa e, infastidita dalle performance di Dioniso, lo apostrofa: «Ubriacone d’un caprone!». Nell’insulto si condensano pagine di antropologia dionisiaca, perché il nume dei baccanali, oltre ad alzare il gomito, era anche alla testa di una brigata di Satiri, mostri caprini con una notevole aura religiosa, se è vero che dai loro cori, all’inizio sgangherati, fiorì poi il prodotto più austero e classico, la tragedia greca.
La parte umana della storia tocca ad Alice, una tenera ragazza delle pulizie che prende servizio nella divina bicocca. E comincia a soffrire. Gli dei, con i mortali, si comportano male (nel titolo originale, Gods behaving badly, il taglio è esplicito), il contatto devasta. Anche qui il ricalco non fa una grinza, le fonti greche sono concordi, meglio stare alla larga dall’Olimpo, i viventi sono gli zerbini su cui quelli di lassù scaricano nevrosi, rivalità e gelosie. Alice attizza Apollo, ma è scontrosa, e lui la fa fulminare da Zeus. La ragazza è stesa sul selciato. In una scena da Ghost, la sua larva aleggia, eccola sulla moto rosso fiammante di Ermes, al «portale». Qui, deve pagarsi la corsa con l’«obolo» (una monetina che gli antichi ponevano sotto la lingua del morto, per il nolo di Caronte, il tetro traghettatore degli spettri), un biglietto ordinario, da obliterare alla stazione d’arrivo.
Sono atmosfere che ricordano Orfeo negro, il film di Camus ispirato a Vinicius de Moraes. Anche perché Alice, in realtà, è Euridice, e il suo Orfeo, Neil, il ragazzo innamorato, ma un po’ spento, riuscirà da perfetto antieroe a strapparla dalle grinfie di Ade e dagli artigli di Cerbero, un cagnaccio da fumetto manga, con cui Artemide ingaggia uno scontro finale stile arti marziali. Si sente sulla pagina la preoccupazione, un po’ pedante, di non sgarrare: dislocare, va bene, ma con le proporzioni esatte al millimetro, quasi con il timore di una matita blu da classicista pronta a denunciare lo svarione.
Apriamo Il mito greco, nuovissimo Meridiano Mondadori (pagg. LXXIV-1525, euro 55) per scoprire che la Phillip si è informata bene, prima di sbrigliare la fantasia. L’opera è curata da Giulio Guidorizzi, grecista, accademico, che si è proposto di confezionare sulla materia (per ora gli dei, gli eroi sono annunciati in un secondo tomo) un «libro bello», nel senso di completo, scientifico, con gli apparati, ma gradevole. Lo è. Qui il mito è racconto puro. Interpretazioni e scavi psicanalitici sono lasciati ad altri. Le fonti, greche e latine, sono accorpate sui temi, per narrare: i poeti, gli storici, i mitografi, gli enciclopedisti, i biografi collaborano all’enorme affresco. Ritroviamo tutti i personaggi della Phillips, ma nel conio originario. Pausania nella sua Guida della Grecia ci descrive l’inferno dipinto da Polignoto: più o meno, la fermata di Angel. Joseph Campbell l’aveva scritto, in L’eroe dai mille volti: l’ultima incarnazione di Edipo è lì, aspetta che il semaforo diventi verde all’angolo tra la Quarantaduesima e la Quinta. Il mito è psichico, fiorisce, eterno, nei recessi della mente.
«Il Giornale» del 28 giugno 2009

E Risé «psicanalizza» la mentalità abortista del mondo di oggi

di Marrina Corradi
L’ aborto in Occidente è legale da oltre trent’anni. L’aborto è 'normale'. È normale, ormai, assumere pillole che espellono il prodotto del concepimento. È normale anche, in molti Paesi, selezionare, tra i figli possibili, quello sano, e cancellare gli altri. Ma quale forma mentis, quale visione del mondo sta dietro questa 'normalità', al suo tacito favor mortis? L’aborto, è vero, clandestinamente c’è sempre stato. Ma non avrebbero pensato, i nostri genitori, che le nipoti adolescenti avrebbero avuto a disposizione una pillola che elimina un figlio come si elimina un mal di testa. In cosa, profondamente, siamo cambiati? In La crisi del dono. La nascita e il no alla vita (San Paolo, pagine 154, euro 12,00) lo psicoanalista Claudio Risé compie un viaggio alla ricerca delle radici di questa metamorfosi, di questo 'no' alla vita che, oltre le scelte individuali, è diventato costume collettivo. Psicoanalisi, dunque, della mentalità abortista: di quella oscura tendenza ad avversare il nuovo che è rappresentato da un figlio, da una vita in divenire che si presenta, ansiosa di vedere la luce. C’è sempre stata, sostiene Risé, negli uomini questa tendenza a difendere tenacemente l’esistente, a preservare lo status quo del proprio potere e dei propri averi dall’incognita di nuove vite che trasformino il mondo. È una vecchia storia, che comincia con Crono, il dio che divorava i suoi figli. Figli fagocitati, figli salvati con l’inganno, pianti da madre e ancelle come morti in culla, per proteggerli da padri minacciosi: la mitologia è piena di queste immagini terrifiche. Ed è singolare come la figura di Crono, poi divenuto Saturno, simboleggi da millenni la malinconia. Colui che divora i suoi figli, viene divorato da una cupa tristezza. Come nella famosa Malinconia di Albrecht Dürer, che regge una borsa, e un mazzo di chiavi: la borsa, annotò l’artista, è la ricchezza, e le chiavi il potere. Abbondano poi, in quella stessa famosa incisione, gli strumenti di calcolo geometrico e matematico. Crono-Saturno è un calcolatore, è colui che pretende di tracciare la propria vita pianificandola oculatamente solo secondo la propria misura. Il materialismo malinconico di Saturno assume la veste di icona del nostro tempo: di un tempo che calcola, controlla, seleziona, ammette o no alla vita, si chiude in uno sguardo che in fin dei conti reifica l’altro nascente in una valutazione utilitaristica: tu, mi convieni o no? L’archetipo del potente, del ricco che si oppone alla nascita di un nuovo che potrebbe travolgerlo si incarna anche, agli albori del cristianesimo, in Erode: un vecchio pauroso e avido, tendente a un controllo paranoide della realtà, che tenta disperatamente di mantenere il suo potere mediante una strage di infanti fra cui, gli è stato annunciato, c’è un nuovo re. E certo è nel cristianesimo che l’archetipo del Bambino come inizio di un nuovo mondo, di nuova vita, ha la sua espressione più straordinaria e potente. Ma la proposta di Cristo, la rinascita che coinvolge dinamicamente l’uomo, è accolta con curiosità e timore da Nicodemo, che da Cristo si reca, vergognoso, di notte, che esita: «Come può un uomo nascere quando è vecchio?». E anche nella paura di Nicodemo, tracce di quel movimento oscuro che invecchia il mondo: la difesa ossessiva dell’esistente, la definisce Risé.
Ma perché, nell’oggi, questa difesa sembra diventata una muraglia, una roccaforte da cui è abituale gettare le vite dei nascituri inopportunamente affacciatisi al mondo?
Risé individua l’anello spezzato del nostro tempo nella secolarizzazione del rapporto fra uomo e donna: «Il rapporto di amore tra uomo e donna è stato separato dal terzo che nella visione religiosa è la sua sorgente originaria: Dio e la sua natura amorosa». Nella eliminazione del Terzo viene meno la disponibilità al reciproco donarsi. Troncata l’originaria dipendenza creaturale, l’Uomo senza Padre è libero, scrive lo psicoanalista, ma solo: e guarda all’altro in un’ottica fortemente utilitaria. Cambiare sguardo, rivoltare alla radice questa cultura mortifera significa, per Risé, accettare di donarci: al figlio che nasce in contrapposizione al nostro potere sulla realtà; alla vita intesa come continua trasformazione che ci trascende e oltrepassa, invece che come sterile, impotente pretesa di possesso. Un libro profondo, che si inoltra dentro le radici della cultura che ci domina.
«Avvenire» del 25 giugno 2009

Condom nelle scuole? Scorciatoie

L’educatrice Rosangela Carù: «I distributori automatici sono una falsa risposta Serve più relazione con l’adulto»
di Antonella Mariani
Il distributore di merendine e bibite calde, almeno, risponde a un bisogno elementare, quello di soddisfare la fame. Ma il distributore di preservativi, a quale bisogno risponde? Al di là di facili risposte, la domanda di Rosangela Carù è provocatoria: a lei, che di professione tiene corsi di educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole pubbliche, la 'trovata' della Provincia di Roma – installare distributori automatici di condom negli istituti superiori – appare come una risposta sbagliata (e anche un po’ triste) a un bisogno dei giovani che pure esiste. «Ci chiedono ascolto, attenzione; vanno alla ricerca del senso delle cose e noi adulti gli rispondiamo con una macchinetta automatica. Gli neghiamo, ancora una volta, una relazione umana, un confronto, un affiancamento. È come se gli dicessimo: vuoi fare sesso? Bene, non ho tempo di parlare con te di questa tua scelta; allora in cambio del mio tempo ti do un oggetto. Allunga la mano, prendi ciò che ti serve senza pensarci troppo. Avvilente». La Carù, che lavora per il Consultorio per la famiglia del decanato di Gallarate e opera in tutta la provincia di Varese, critica la decisione della Provincia di Roma, «perché distribuire preservativi in un ambiente che per sua natura è educativo non risponde affatto a un bisogno di educazione sessuale e in certo senso legittima e incoraggia all’uso indiscriminato della sessualità anche a scuola».
Insieme alle colleghe Monica Pinciroli e Luisa Santoro, Rosangela ha scritto un libro appena edito da In dialogo (la casa editrice dell’Azione cattolica ambrosiana) Amore, sesso & Co, per vivere al top la tua adolescenza (pagine 88, euro 7,90): un volume rivolto ai ragazzini delle medie che hanno già cercato di capire qualcosa di amore, sessualità, emozioni, magari sfogliando libri o riviste o navigando in rete, o forse hanno provato a chiedere agli adulti, ricevendo risposte vaghe o imbarazzate. «La richiesta dei nostri corsi è in crescita continua. Negli ultimi tre anni delle elementari proponiamo 5 incontri con gli alunni e uno con i genitori. In prima e seconda media gli incontri sono due e in terza media sono tre. Il nostro metodo è interattivo quindi incoraggiamo gli studenti a porre domande. Le mie conclusioni? Loro operano una netta distinzione tra fare sesso e fare l’amore. L’atto sessuale in sé è considerato un divertimento e un piacere legato alla corporeità, la prova di una competenza, di cui parlare poi con i compagni. 'Fare l’amore' invece è completamente diverso, assume significati affettivi e sentimentali; è, in fondo, una cosa che sembra riguardare il futuro, l’essere adulti».
« Nei limiti del possibile – continua Rosangela Carù – cerchiamo di aiutarli ad andare oltre, a capire che la persona non è fatta solo di corpo ma di sentimenti, emozioni, interiorità. Qualcuno ci dice: ho paura di fare il grande passo. E allora spieghiamo che la paura del primo rapporto sessuale è un segnale da ascoltare: è la prova che non sono pronti, che non è ancora tempo. Aggiungiamo che non devono aver fretta di prendere dal mondo degli adulti quello che ancora non gli appartiene e che la vita è fatta di tappe, una dopo l’altra, senza accelerazioni brusche... ».
Se invece di parlare di sentimenti, Rosangela offrisse la moneta per acquistare il preservativo, sarebbe la giusta risposta alla loro domanda? «No, assolutamente. E non sarebbe nemmeno educazione alla contraccezione perché non c’è la mediazione di un adulto. Il distributore di preservativi è un modo per fare ancora più in fretta, coerente con la cultura del 'tutto e subito'. Il preservativo, in questo caso, è l’oggetto che sostituisce il dialogo e la relazione con l’adulto educatore».

«Avvenire» del 25 giugno 2009

Condom nelle scuole? Scorciatoie

L’educatrice Rosangela Carù: «I distributori automatici sono una falsa risposta Serve più relazione con l’adulto»
di Antonella Mariani
Il distributore di merendine e bibite calde, almeno, risponde a un bisogno elementare, quello di soddisfare la fame. Ma il distributore di preservativi, a quale bisogno risponde? Al di là di facili risposte, la domanda di Rosangela Carù è provocatoria: a lei, che di professione tiene corsi di educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole pubbliche, la 'trovata' della Provincia di Roma – installare distributori automatici di condom negli istituti superiori – appare come una risposta sbagliata (e anche un po’ triste) a un bisogno dei giovani che pure esiste. «Ci chiedono ascolto, attenzione; vanno alla ricerca del senso delle cose e noi adulti gli rispondiamo con una macchinetta automatica. Gli neghiamo, ancora una volta, una relazione umana, un confronto, un affiancamento. È come se gli dicessimo: vuoi fare sesso? Bene, non ho tempo di parlare con te di questa tua scelta; allora in cambio del mio tempo ti do un oggetto. Allunga la mano, prendi ciò che ti serve senza pensarci troppo. Avvilente». La Carù, che lavora per il Consultorio per la famiglia del decanato di Gallarate e opera in tutta la provincia di Varese, critica la decisione della Provincia di Roma, «perché distribuire preservativi in un ambiente che per sua natura è educativo non risponde affatto a un bisogno di educazione sessuale e in certo senso legittima e incoraggia all’uso indiscriminato della sessualità anche a scuola».
Insieme alle colleghe Monica Pinciroli e Luisa Santoro, Rosangela ha scritto un libro appena edito da In dialogo (la casa editrice dell’Azione cattolica ambrosiana) Amore, sesso & Co, per vivere al top la tua adolescenza (pagine 88, euro 7,90): un volume rivolto ai ragazzini delle medie che hanno già cercato di capire qualcosa di amore, sessualità, emozioni, magari sfogliando libri o riviste o navigando in rete, o forse hanno provato a chiedere agli adulti, ricevendo risposte vaghe o imbarazzate. «La richiesta dei nostri corsi è in crescita continua. Negli ultimi tre anni delle elementari proponiamo 5 incontri con gli alunni e uno con i genitori. In prima e seconda media gli incontri sono due e in terza media sono tre. Il nostro metodo è interattivo quindi incoraggiamo gli studenti a porre domande. Le mie conclusioni? Loro operano una netta distinzione tra fare sesso e fare l’amore. L’atto sessuale in sé è considerato un divertimento e un piacere legato alla corporeità, la prova di una competenza, di cui parlare poi con i compagni. 'Fare l’amore' invece è completamente diverso, assume significati affettivi e sentimentali; è, in fondo, una cosa che sembra riguardare il futuro, l’essere adulti».
« Nei limiti del possibile – continua Rosangela Carù – cerchiamo di aiutarli ad andare oltre, a capire che la persona non è fatta solo di corpo ma di sentimenti, emozioni, interiorità. Qualcuno ci dice: ho paura di fare il grande passo. E allora spieghiamo che la paura del primo rapporto sessuale è un segnale da ascoltare: è la prova che non sono pronti, che non è ancora tempo. Aggiungiamo che non devono aver fretta di prendere dal mondo degli adulti quello che ancora non gli appartiene e che la vita è fatta di tappe, una dopo l’altra, senza accelerazioni brusche... ».
Se invece di parlare di sentimenti, Rosangela offrisse la moneta per acquistare il preservativo, sarebbe la giusta risposta alla loro domanda? «No, assolutamente. E non sarebbe nemmeno educazione alla contraccezione perché non c’è la mediazione di un adulto. Il distributore di preservativi è un modo per fare ancora più in fretta, coerente con la cultura del 'tutto e subito'. Il preservativo, in questo caso, è l’oggetto che sostituisce il dialogo e la relazione con l’adulto educatore».
«Avvenire» del 25 giugno 2009

27 giugno 2009

L'amicizia sul Web contagia gli scettici

La traccia in breve: « Social Network, Internet e New Media attraverso i testi di Bajani e Benkler»
Di Gianluca Nicoletti
La fase più recente del social networking è una gara collettiva a mollare gli ormeggi, oltre ogni barriera generazionale. E' sempre più frequente un uso diffuso a praticare robuste relazioni incorporee, anche in chi ha sempre avuto resistenze a frequentare il web. La modalità stessa dell'interazione attraverso Facebook, Twitter e sistemi analoghi facilita la conversione anche dei più scettici. Ogni invito all'astinenza digitale è debole, le macchine che ci imprigionano al rigore del lavoro sono spesso le stesse che, allo stesso tempo, ci suggeriscono la via per evadere. Temo che sarà una battaglia improba quella di chi vorrebbe arginare l'emotività multitask, è una singolarità mai provata dagli umani quella di sentirsi espansi a dismisura, pur restando ancorati ai propri microcosmi abituali. Il potere di fuoco di un medium partecipativo è infatti spesso usato al minimo, si cercano connessioni nel raggio del proprio ufficio, della propria città o poco oltre. E' quasi una fase adolescenziale che corrisponde alla scoperta di altre possibilità di relazione, perchè non basta più quella limitata dal nostro corpo. E' pur vero che l'euforia dello strapaese telematico fa spesso dimenticare cautele e salvaguardie del proprio privato, è facile la perdita di senno nel gioco del tag, della riga di status, di foto di case, figli, vacanze, vizi e virtù di cui facciamo gloriosa diffusione. Non sarei però troppo severo verso le sventatezze degli immigrati digitali. Per la prima volta una fase dell'evoluzione è visibile in corso d'opera. L'uomo è mediamente consapevole dell'inadeguatezza dei propri sensi organici alle richieste della contemporaneità, così deve abituarsi a convivere con l'idea che la sua futura «release» sia già in corso di progettazione.
«La Stampa» del 26 giugno 2009

Le parole al vento di Zeno

di Elena Loewenthal
La traccia in breve: «Commento di un passo della Prefazione della Coscienza di Zeno di Svevo»
«La coscienza di Zeno» è un atto di tradimento. Nella miglior tradizione del delitto, il colpevole confessa soltanto alla fine. Acquattatto nella sua muta poltrona, il dottore dichiara di aver creato tutto lui: il soggetto, la malattia. La diagnosi feroce. La terapia della psico-analisi dalla quale il romanzo scaturisce, lento e avvitato eppure avvincente. E' stato lui, il dottore, a indurre l'inquieto Cosini a scrivere la propria autobiografia come strumento di cura. La confessione del medico, che il lettore trova all'inizio del romanzo benché sul piano cronologico e mentale stia alla fine, porta allo scoperto la relazione quasi pericolosa che s'è intessuta fra il terapeuta e il suo soggetto. Fra il male - in questo caso di vivere, o meglio di non saper vivere - e la cura fatta di parole. Esponendo il suo malato, il medico lo tradisce. Mail tradimento è doppio, perché anche Zeno ha fatto lo stesso: si è «sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie». Traditore tradito, il medico ha deciso di pubblicare la storia di Zeno. Per questo, il ritratto che Svevo ci dà dell'inettitudine moderna, dell'uomo smarrito ma anche e soprattutto annoiato, non ha nulla di innocente. E' una storia fitta di allusioni, di reciproci sgambetti psicologici. Il romanzo risale al 1923 e pare provenire da un altro mondo: la suggestione che desta viene dal suo anacronismo. I ruoli si dipanano tutti attraverso la parola: è questa che tiene le redini del racconto, con le sue sfumature e le sue ambiguità. Manoi, ormai, non siamo più una civiltà che si esprime attraverso la parola, né tantomeno che attraverso le parole comprende e guarisce (o finge di guarire, come Zeno). La parola è ormai titolo generico in un sistema di comunicazione che si esprime su altri territori: suoni, immagini, numeri. Anche qui, fra le pagine di questo enunciato della prova d'italiano, ricco di parole «sommario» onnicomprensive - libertà, democrazia, amore, creatività -, dove i verbosi tormenti dell'inetto Zeno con la sua ennesima, ultima sigaretta stanno come un pesce fuor d'acqua.
«La Stampa» del 26 giugno 2009

La sorpresa dell'amore

La traccia in breve: « L’innamoramento e l’amore attraverso i testi di Catullo, Dante, Gozzano, Leopardi e altri»
di Massimo Gramellini
Gentile prof.ssa Gelmini, per concedermi l'attestato di persona matura lei mi prega di comporre un saggio breve o un articolo di giornale su innamoramento e amore. E accompagna la sua richiesta con una serie di citazioni illustri: Catullo, Dante, Leopardi, Gozzano, Alberoni. (I primi quattro ne hanno scritto senza avere mai letto Alberoni, e si sente). Avendo io compiuto da poco diciotto anni, ho sull'amore idee ancora piuttosto nette. L'amore è quella forza potente che ci attrae verso tutto ciò che concepiamo, temiamo o speriamo fuori di noi, quando scopriamo nei nostri pensieri l'abisso di un insaziabile vuoto e cerchiamo di risvegliare in tutte le cose che esistono una consonanza con quello che proviamo dentro. C'è qualcosa in noi che aspira a quanto gli è simile. L'incontro con un'intelligenza capace di stimare con chiarezza le deduzioni della nostra, con un'immaginazione che sappia impadronirsi delle sottili intimità che è stata nostra gioia coltivare in segreto, con un corpo i cui nervi, come le corde di due squisite lire che accompagnano un'unica deliziosa voce, vibrino insieme ai nostri: ecco il fine irraggiungibile cui l'Amore aspira. Perciò nella solitudine, o in quello stato di abbandono in cui siamo circondati da esseri umani che tuttavia non ci comprendono, noi proviamo amore per i fiori, per l'acqua e il cielo. Anche nell'aria azzurra si scopre allora una segreta corrispondenza con il nostro cuore. Quando questo bisogno o questa facoltà sui estingue, l'uomo diventa il sepolcro vivente di se stesso e ciò che sopravvive è solo il guscio di quel che egli era un tempo. Ecco, prof.ssa Gelmini, questo è più o meno ciò che penso dell'amore. Casualmente ciò che penso io è ciò che già pensava un certo Percy Bysshe Shelley, le cui parole ho copia-incollato da Internet, aggiustandole un po'. Shelley era un grande poeta romantico (così ho letto su Wikipedia) e mi duole che lei non lo abbia inserito nella lista delle citazioni. Perciò, se adesso mi boccerà, io griderò alla censura e al complotto. Mal che vada, rimedierò una comparsata in televisione. Sono abbastanza maturo per fare strada in questo Paese, non trova?
«La Stampa» del 26 giugno 2009

Se l’eugenetica nazista torna in Cina

di Sabino Acquaviva
La Cina è un immenso laboratorio in cui si progetta un futuro diverso, ma ben lontano dagli ideali di un tempo.
Cosa è rimasto della Cina comunista? Quasi nulla, se prescindiamo dalle bandiere e da qualche slogan. Questo paese, ex comunista, che aveva tentato, con la rivoluzione culturale, di realizzare una società fondata su una specie molto particolare di socialismo reale, è oggi l’esempio di un capitalismo esplosivo che ricorda da vicino la Germania nazista. In Germania c’era una razza superiore, quella tedesca, un partito unico che, anch’esso, si definiva socialista, e un capitalismo esplosivo. Ma l’espansione rapidissima, fondata su questo trinomio, fu soffocata dalla guerra. E la Cina di oggi?
Anzitutto anche in Cina esiste una razza superiore alle altre, la razza Han. Nei territori appartenenti alla Cina ma abitati da altri popoli le identità etniche vengono annientate con l’immigrazione massiccia di cinesi Han. I cinesi non usano i metodi dei nazisti, non massacrano gli altri popoli, li diluiscono nella marea Han. È accaduto nel Sink Kiang, sta accadendo nel Tibet. Ma esiste anche, come in Germania negli anni Trenta, un partito unico che mantiene l’ordine, assicura uno sviluppo economico senza scosse, riduce al silenzio contestazioni politiche, sociali, sindacali, che potrebbero rallentare il ritmo dell’espansione. In Cina risorge anche il Confucianesimo, più adeguato ai programmi di sviluppo dell’impero cinese, in quanto si tratta di una filosofia che valorizza e dà dignità al lavoro della classe dirigente. Ma sta accadendo un fatto più grave, di cui tuttavia in Occidente ci si occupa poco. In Germania la teoria della superiorità razziale aveva dato vita a delle teorie e a degli esperimenti intesi a rendere superiore la razza superiore. Chi non ricorda Mengele e i suoi esperimenti? Purtroppo in Cina sta accadendo qualche cosa di simile, però senza che tutto questo allarmi il resto del mondo.
Si parte dalla biogenetica per individuare un gruppo di bambini superdotati. Sembra che il materiale genetico superiore sarà certificato da uno dei laboratori più avanzati della repubblica. Su questi bambini sarà eseguita una serie di esperimenti e interventi, genetici, psicologici, formativi. È come dire che il bambino della nuova Cina dovrà essere un prodotto di laboratorio. In questo modo per costruire il nuovo bambino cinese saranno applicate le più moderne conquiste della tecnica e della scienza, senza – ovviamente – ripensamenti di tipo etico. I due colossi asiatici, l’India e la Cina, con una popolazione di oltre un miliardo di abitanti ciascuno e ritmi di espansione inusuali nel resto del mondo, affrontano il futuro in modo diverso. L’India è una democrazia tormentata, ma dotata di senso critico e con una pluralità di scelte politiche, religiose, etiche. La Cina appare come un gigantesco monolite, che partendo dal partito unico, dal capitalismo rampante, dal culto della razza Han, sembra ricavare una filosofia della vita e della razza che ricorda gli anni più cupi della nostra storia.
«Avvenire» del 26 giugno 2009

Nei voti assegnati ai temi la scuola intera sotto esame

Tutti i professori sanno parlare d’amore?
di Davide Rondoni
Ai nostri ragazzi impegnati per la maturità quest’anno il Ministero ha proposto, oltre a Svevo per il tema di commento letterario (fin troppo viziato da domande e schemi analitici che uccidono la letteratura), una serie di questioni tra l’esistenziale e il sociologico. Dal problema d’amore, a quello della cosiddetta cultura giovanile, fino al tema dell’innovazione, fino al ruolo dei social network. Parrebbe quasi una ansia di svecchiamento, che ha portato gli inventori delle tracce dei 'saggio breve' o 'articolo' ad affiancare con la disinvoltura tipica dell’era delle ricerche su internet una frase di Alberoni a un brano decontestualizzato di Dante o un pezzo di Leopardi, o le foto di tante icone 'giovanili' dagli anni ’50 a oggi - da Elvis a Facebook, da James Dean ai Rave party. Per l’ambito socio-economico si è dato peso all’Anno della creatività proposto dalla Ue, e tra le altre, una frase del noto 'creativo pubblicitario' A.Testa che invitava a considerare meno banalmente la parola 'creativo'.
A riguardo di storia i ragazzi son stati chiamati a riflettere sul tema dei diversi tipi di regime e della democrazia e della libertà, visti gli anniversari in corso e futuri della caduta del Muro e della Unità d’Italia. Forse volutamente mischiando, o forse volutamente attenendosi alla 'iconografia' più ufficiale e scontata e alla forza degli anniversari, la validità della proposta ministeriale sta nell’aver provato a mettere i ragazzi, in sede di esame di maturità, di fronte a qualcosa che li riguarda. Come a dire: quel che impari a scuola ti riguarda. Niente di strano, anzi quasi 'banalmente' giusto.
Ma non è forse bello avere una scuola 'normale'? Dove, appunto, si legge Dante per scoprire cosa è l’amore? Certo, forse una minor attitudine alla combinazione di elementi tanto difformi e un po’ scontati (l’icona di un rave party indica veramente la cultura giovanile più di una giornata mondiale della gioventù con il Papa? o di un ritrovo in una piazzetta?) o una minor necessità di ricorrere al sociologo, pur ottimo, accanto alla poesia per parlare di amore, avrebbe indicato un coraggio maggiore e una essenzialità più forti. Si ha un po’ l’impressione di aver voluto fare una cosa 'carina', che potesse piacere. Come spesso accade a quelli che fanno le cose 'per' i giovani.
Ma resta il fatto che guardando queste tracce i ragazzi possono aver avuto la conferma, speriamo, che i cinque anni passati a scuola servono a imparare a vivere e non sono un pedaggio alla cosiddetta 'cultura' o alla preparazione tecnica a a un mestiere. Certo, se l’istituzione scolastica si espone a chiedere ai ragazzi di dire la propria su argomenti tanto importanti e delicati, significa anche che è disposta a giocare la propria autorevolezza su questi terreni.
L’esame oggi l’hanno fatto questi ragazzi, ma in qualche modo è un autoesame per tutta la scuola. Ci sono professori che possono parlare d’amore ai ragazzi con la passione e la verità che chiede Dante? E ci sono professori che possono parlare di storia e di libertà con l’autorevolezza che la caduta del Muro e il laborioso processo di unificazione italiana richiedono? Se ci sono lo si vedrà dalla qualità degli elaborati dei ragazzi. Che dunque meriteranno un voto per loro stessi, ma indirettamente lo daranno anche a chi li ha chiamati a questo esame. Oggi la scuola italiana si è messa sotto esame su temi importanti e delicati. E’ un atto di coraggio.
«Avvenire» del 26 giugno 2009

La legge naturale è un denominatore comune a tutti gli uomini

di Benedetto XVI
Sessant’anni or sono, il 10 dicembre, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi, adottò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che costituisce ancora oggi un altissimo punto di riferimento del dialogo interculturale sulla libertà e sui diritti dell’uomo. La dignità di ogni uomo è garantita veramente soltanto quando tutti i suoi diritti fondamentali vengono riconosciuti, tutelati e promossi. Da sempre la Chiesa ribadisce che i diritti fondamentali, al di là della differente formulazione e del diverso peso che possono rivestire nell’ambito delle varie culture, sono un dato universale, perchè insito nella stessa natura dell’uomo. La legge naturale, scritta dal Creatore nella coscienza umana, è un denominatore comune a tutti gli uomini e a tutti i popoli; è una guida universale che tutti possono conoscere e sulla base della quale tutti possono intendersi. I diritti dell’uomo sono, pertanto, ultimamente fondati in Dio creatore, il quale ha dato ad ognuno l’intelligenza e la libertà. Se si prescinde da questa solida base etica, i diritti umani rimangono fragili perché privi di solido fondamento.
La celebrazione del 60.mo anniversario della Dichiarazione costituisce pertanto un’occasione per verificare in quale misura gli ideali, accettati dalla maggior parte della comunità delle Nazioni nel 1948, siano oggi rispettati nelle diverse legislazioni nazionali e, più ancora, nella coscienza degli individui e delle collettività. Indubbiamente un lungo cammino è stato già percorso, ma ne resta ancora un lungo tratto da completare: centinaia di milioni di nostri fratelli e sorelle vedono tuttora minacciati i loro diritti alla vita, alla libertà, alla sicurezza; non sempre è rispettata l’uguaglianza tra tutti né la dignità di ciascuno, mentre nuove barriere sono innalzate per motivi legati alla razza, alla religione, alle opinioni politiche o ad altre convinzioni. Non cessi, pertanto, il comune impegno a promuovere e meglio definire i diritti dell’uomo, e si intensifichi lo sforzo per garantirne il rispetto. Accompagno questi voti con la preghiera perché Iddio, Padre di tutti gli uomini, ci conceda di costruire un mondo dove ogni essere umano si senta accolto con piena dignità, e dove i rapporti tra gli individui e tra i popoli siano regolati dal rispetto, dal dialogo e dalla solidarietà. A tutti la mia Benedizione.

Discorso pronunciato in occasione del concerto promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, nel 60° anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti dell'uomo (12 dicembre 2008

La religione della costituzione

di Marcello Pera
Per decidere sul caso Eluana e sui molti altri simili se sia lecito togliere alimentazione a un individuo in coma permanente tutti si sono appellati all’art. 32 della Costituzione. Ho ragione di credere che non sia stato letto con attenzione, perché quell’articolo, assieme a quelli che lo sostengono, porta a concludere esattamente nel senso opposto a ciò che è accaduto. L’art. 32 fissa tre punti. Primo: esiste libertà di scelta della terapia o di rifiuto delle cure: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». Secondo: la libertà terapeutica può essere regolata per legge: «... se non per disposizione di legge». Terzo: qualunque legge sulla libertà terapeutica o di rifiuto delle cure ha limiti invalicabili: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona». A questi limiti invalicabili la nostra Costituzione dà più di un nome, tutti con significato equipollente: all’art. 32 il nome del limite è la «persona umana», all’art.41 il nome è la «dignità umana». E poi c’è l’art. 2, che apparentemente nessuno legge più. È così lapidariamente bello l’inizio di questo articolo che conviene citarlo: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo».
Sono parole e concetti pesanti. Se la Repubblica questi diritti li «riconosce», allora essa non li crea: esistono prima della Repubblica stessa, indipendentemente dallo Stato, anteriormente allo Stato. Se sono «inviolabili», allora nessuno li può toccare né può disporne: né il malato, né i suoi congiunti, né la magistratura, né il Parlamento. E infine se sono diritti «dell’uomo», allora competono a lui in quanto uomo, sono propri della sua essenza di uomo, innati nella sua natura umana.
Il problema che i casi Eluana ci pongono è: togliere alimentazione a un malato terminale viola il diritto intoccabile alla vita e alla dignità dell’uomo? Alcuni rispondono: no, non lo viola perché quella non è più vita e non ha più dignità. Ma è un errore. Il malato terminale, quell’individuo in coma permanente che non ha più plausibili speranze di riprendersi, è ancora una persona, ha ancora la sua intrinseca dignità. Perché è soggetto dell’attenzione di chi lo cura e assiste, il quale soffre con lui e per lui. Perché emana affetto, chiede pietà, reclama solidarietà, instaura una relazione di comunità fra sé e noi. Perché è un uomo simile a noi, anche se le sue condizioni sono disperate. Ma allora, se costui è un uomo, è protetto dall’art.2 della Costituzione sui diritti dell’uomo: il suo diritto alla vita è intoccabile e non gli si può negare alimentazione.
Altri dicono: togliere alimentazione è sì provocare la morte, ma questo lo si può fare per rispetto alla sua «libertà personale». Anche questo è un errore: togliere alimentazione è togliere la vita e togliere la vita è togliere il presupposto stesso della dignità dell’uomo. Ma questo è proibito proprio dall’art.2 della Costituzione. E poi: che razza di concetto è mai questo della «libertà individuale»? Che cosa vuol dire libertà? Vuol dire arbitrio, discrezionalità sconfinata, licenza capricciosa, gratuita, illimitata? Può esserci libertà senza responsabilità e perciò senza limiti? Ancora un errore.
Ecco allora che la Costituzione ci offre gli strumenti giuridici e culturali per trattare i casi Eluana. Non occorre invocare la religione, né rivolgersi alla Chiesa, né ancor meno occorre la supponenza di insegnare alla Chiesa come essere Chiesa. Ai laici autentici è sufficiente la religione dell’art. 2: tutti gli uomini sono uguali in dignità e hanno gli stessi diritti inviolabili rispetto alla loro dignità. Certo, i laici autentici sanno qual è il nome della religione dell’art.2 della Costituzione. È il cristianesimo. E sanno che senza il cristianesimo non ci sarebbe mai stato l’art.2. I laici anticristiani si dimenticano invece sia il nome che la cosa. Perciò chiedono che sia autorizzata la morte, perciò sollecitano che sia interrotta l’alimentazione, perciò polemizzano contro la Chiesa. Altro grave errore.
Ai laici sinceri, ripeto, basta la religione dell’art.2, la sua intangibilità. Chi vuole disfarsi anche di questa pietra miliare per assecondare la «libertà individuale» non è solo fuori della pietà cristiana, è - e ciò per un Parlamento laico conta assai di più - contrario alla Costituzione italiana.
«La Stampa» dell’11 febbraio 2009

La mappa delle commissioni

1974 E 1986 UGANDA
A un decennio d’intervallo, due commissioni diverse hanno indagato sugli eccidi sotto il regime di Idi Amin Dada. Create da esecutivi militari (nel ’74, quello dello stesso Amin che indaga sull’esercito) e poco credibili all’estero, contribuiscono nondimeno in parte alla verità storica.
1982 BOLIVIA
Con un mandato molto ristretto,la commissione verità ha indagato sui casi di desaparecidos,le sparizioni forzate, durante il periodo delle dittature militari compreso fra il 1964 e il 1982.
1983 ARGENTINA
Commissione nazionale sui desaparecidos durante gli anni della dittatura di Videla dal 1976 al 1983. Conclusioni: 9mila casi repertoriati, accanto a 340 prigioni clandestine.Vengono individuati 1.500 responsabili sospetti.
1990 NEPAL
Una commissione verità è stata chiamata a far luce sulle persone scomparse durante il periodo dei panchayat, i 'consigli' locali verticalmente assoggettati alla monarchia introdotti nel 1962.
1990 CILE
Creata per far luce sui desaparecidos e le esecuzioni del periodo 1973-1990, la commissione ha stilato una lista di 2.279 morti o scomparsi, chiarendo il ruolo di istituzioni e media. Raccomandate riparazioni per le famiglie delle vittime di Pinochet.
1991 CIAD
Commissione sui crimini e sulla corruzione del regime del presidente Hissène Habré. Ha indagato sui sequestri, le incarcerazioni illegali, gli assassini, le torture e tutte le altre violazioni dei diritti umani.
1992 GERMANIA
Il Bundestag ha istituito una commissione verità sulla storia e le conseguenze del regime instaurato nell’Est tedesco dal Sed, il Partito socialista unificato creato nel 1946. La dittatura comunista è qualificata come uno 'Stato senza diritto'.
1992 SALVADOR
Sotto l’egida dell’Onu, sono stati designati tre prestigiosi commissari esterni, chiamati a indagare sulle spaventose violenze di Stato (omicidi politici, squadre della morte, massacri di contadini) a partire dal 1980. Indicata una lista di responsabili.
1994 SRI LANKA
Tre commissioni presidenziali al lavoro sulle persone scomparse nel quadro della guerra civile. Cronologicamente, sono considerate solo le violazioni posteriori al 1991. Ma per molti osservatori, si tratta d’istituzioni di facciata.
1995 HAITI
Col concorso dell’Onu, è stata istituita una Commissione verità e giustizia incaricata d’identificare autori materiali, complici e istigatori delle gravi violazioni commesse dopo il colpo di Stato del 1991.
1995 SUDAFRICA
Presieduta da Desmond Tutu, la commissione ha ricercato per due anni le violazioni dei diritti dovute al regime dell’apartheid (1960-1993). Le audizioni sono pubbliche e filmate. Ad alcuni responsabili è stata concessa l’amnistia. Nel rapporto finale, 250 raccomandazioni, fra cui le riparazioni per le vittime.
1996 E 2007 ECUADOR
A distanza di un decennio, due commissioni verità hanno esplorato rispettivamente le violazioni mai chiaritee a partire dal 1979 e poi, in particolare, su quelle sotto l’esecutivo di Febres Cordero, fra il 1984 e il 1988.
1997 GUATEMALA
Creata sotto l’egida dell’Onu e presieduta la una personalità esterna, un giurista tedesco, la commissione ha fatto luce sulle violazioni di massa dei diritti umani in particolare contro le popolazioni maya durante la lunga guerra civile.
2000 URUGUAY
Una Commissione per la pace creata con decreto presidenziale ma presieduta dall’arcivescovo di Montevideo, Nicolas Cotugno, ha indagato sui desaparecidos e le prigioni segrete risalenti al periodo 1973­85, sotto la dittatura.
2001 PANAMA
Una commisione verità ha scandagliato i crimini di massa del periodo 1968-88, legati ai regimi militari di Omar Torrijos e Manuel Antonio Noriega.
2001 JUGOSLAVIA
Viene costituita una commissione verità sui crimini della guerra. Ma l’esperienza rivela presto i propri limiti, restando lontana dagli esiti sperati.
2001 GRENADA
Una commissione è stata creata per ricostruire la drammatica svolta del 1983, quella del colpo di Stato e del successivo intervento americano. Al centro, i dubbi sulle responsabilità effettive dei '17 di Grenada', la fazione politica condannata dopo il golpe.
2001 PERÙ
Creata per decreto presidenziale, con membri designati anch’essi dal presidente, la commissione ha lavorato per due anni con audizioni pubbliche.Vengono identificati i responsabili delle gravi violenze di origine politica degli anni Ottanta e Novanta.
2002 TIMOR EST
Sotto l’egida dell’Onu, la commissione ha chiarito le violazioni (fra cui, esecuzioni e torture) durante il conflitto fra il 1974 e il 1999. Le audizioni sono pubbliche.Vengono designati dei responsabili, ma la lista resta protetta.
2002 GHANA
'Promuovere la riconciliazione nazionale del popolo del Ghana'. È lo scopo di una commissione che indaga sulle violazioni dei diritti umani durante tre fasi più che controverse della storia nazionale. I tre periodi: 1966­69, 1972-79, 1981-93.
2002 SIERRA LEONE
Il terribile conflitto interno degli anni Novanta ha spinto l’Onu a porre sotto la propria egida, oltre a un tribunale internazionale, anche una commissione attiva per due anni, con facoltà di designare i responsabili. Le audizioni sono pubbliche.
2004 MAROCCO
Sotto l’egida della famiglia reale, che designa anche i commissari, l’organismo 'equità­riconciliazione' lavora per due anni. Le audizioni pubbliche ritracciano le violazioni (scomparsi, prigioni segrete, torture) a partire dall’indipendenza.
2004 PARAGUAY
Per ben quattro anni, una commissione verità indaga sulle vittime e le violazioni dei diritti umani commessi dal dittatore Alfredo Stroessner alla testa del Paese dal 1954 al 1989.
2004 REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
Prevista dagli accordi di pace, una commissione verità e riconciliazione viene predisposta dal governo di transizione sugli anni della guerra interna. Ma il lavoro dell’organismo, anche per via dell’instabilità persistente nel Paese, ha suscitato critiche diffuse.
2005 INDONESIA
Una commissione verità viene creata per individuare le violazioni dei diritti umani durante il regime del presidente Suharto, ma nascono difficoltà giuridiche.
IN ATTIVITÀ
COREA DEL SUD
Una commissione verità presidenziale indaga sugli eccidi di sospetti comunisti all’inizio della guerra di Corea, anche attraverso l’analisi di fosse comuni.
LIBERIA
Chiamata a contribuire alla riconciliazione in uno dei Paesi più martoriati d’Africa, la commissione verità dovrà far luce sugli eccidi a ripetizione durante 14 anni di spaventosa guerra civile.
IN CORSO DI COSTITUZIONE
BURUNDI, KENYA,TOGO.
“Avvenire” del 7 giugno 2009