01 maggio 2009

Quale democrazia senza sapere?

Il filosofo Salvatore Natoli indaga il rapporto tra conoscenza e potere: «La crisi finanziaria mostra che esistono ancora oggi gli 'arcana imperi'»
di Salvatore Natoli
L’uso pubblico della ragione è una condizione certo non sufficiente, ma comunque necessaria perché vi sia democrazia. Per converso non c’è democrazia ove non c’è opinione pubblica. Ma l’uso della ragione esige conoscenza. Ora, che senza conoscenza sia impossibile gestire il potere, lo sapeva molto bene già Macchiavelli. Ma se non c’è un sapere che squarci gli arcana imperi, il potere non può essere neppure controllato. Sotto quest’aspetto il sapere è già potere.
Ma la democrazia non si risolve nel controllo, ma è piuttosto un esercizio. Il tratto peculiare della democrazia è il concorso dei cittadini nella produzione della legge, nella formazione delle decisioni. Il popolo questo potere lo esercita normalmente attraverso la rappresentanza che elegge e revoca. Gli arcana imperi erano prerogativa di una potere separato, discendente che pretendeva obbedienza senza esigere competenza. Anzi la temeva. E per competenza, in questo caso, non intendo una competenza che ha che fare con arti, mestieri discipline, ma la competenza democratica. Riteniamo che la società contemporanea – e in particolare il cosiddetto emisfero occidentale – sia democratica. Ma lo è davvero? Non esistono più arcana imperi? I recenti – e passati – crolli finanziari mostrano che non sono svaniti del tutto. Che informazioni hanno i cittadini quando accordano la loro fiducia?
E, ammesso che le informazioni le abbiano quanto sono competenti a valutarle. Ma la competenza democratica è ancora più rilevante quando i cittadini eleggono i loro rappresentanti. È una questione che bisogna porsi, se vale la definizione che Schumpeter dava di democrazia: una competizione di leadership innanzi alle masse; e le elezioni: accettazione di un capo o di un gruppo di capi, fatta salva la possibilità della loro revoca. Tutto ciò non infirma la procedura, ma caso mai esige maggiore conoscenza per rendere più qualificata la scelta, più adeguata la selezione. Pare evidente che senza conoscenza c’è un’inevitabile deficit di democrazia. Per evitare che la democrazia sia finzione è necessario che i cittadini siano sempre di più titolari di decisione e sempre meno masse, che siano società e non folla. A questo scopo il sapere da solo non è sufficiente, ma è principio di individuazione: sono, almeno in parte, quel che so. Mi oriento meglio nel mondo se mi padroneggio; ho un’idea meno vaga di dove dirigermi se ho cognizione di me. E allora: nella società in cui viviamo, quanto e su cosa davvero decidiamo? Quanto, invece, assecondiamo? Quanto eroghiamo prestazioni – magari di qualità e pure ben remunerate – quanto, invece, siamo titolari di azioni? Ma oggi è ancora più rilevante è il fatto che il potere è in ogni parte, ma non si sa esattamente dove. E dove appare c’è meno di quanto non si pensi. Quando poi appare si mostra spesso seducente ed insieme prepotente: s’impone spesso attraverso l’esternalizzazione del nemico, fantasmatiche paure o, come ha ben mostrato Girard, invenzione di capri espiatori. E questo nel tempo della democrazia. Nel mondo c’è fame e guerra, crisi energetiche e povertà, e, per quanto la cosa possa apparire paradossale non si sa molto, ma soprattutto non si vuole conoscere, si vuole dimenticare. E si delegano gli specialisti. Questa non è competenza democratica, altra cosa è l’uso pubblico della ragione. Gli scettici dicono: è stato sempre così.
Sarà anche vero, ma le altre società non pretendevano d’essere democratiche o della democrazia conoscevano appena il nome. Ma oggi viviamo in un flusso di cui per lo più ignoriamo l’origine e non vediamo la destinazione. Ci muoviamo dentro – o siamo mossi – senza capire bene chi e cosa ci muove: falsche Bewegung, un falso movimento. Comunque ci muoviamo e questo basta per farci sentire liberi. Ma questo spiega anche perché oggi una delle maggiori disuguaglianze risiede nel monopolio delle conoscenze, nell’esclusione dal sapere. E le conoscenze – oggi molto più sofisticate ed insieme più altamente specializzate – hanno aggravato questa condizione.
Bisogna saper di più. Per questo nelle società contemporanea il tasso d’esclusione è dato non solo dal reddito, ma dal grado e dal livello di conoscenze. Anche se reddito e conoscenza spesso stanno insieme. Si capisce, allora, perché si può essere sudditi senza patire violenza, si possono ignorare gli arcana imperi perché non se ne sospetta l’esistenza. E chi la sospetta viene spesso preso da sindrome d’impotenza. Per far fronte a tutto ciò ci vuole più conoscenza, anzi oggi è più che mai arma democratica. Ma la competenza democratica ha un tratto peculiare rispetto a tutte le altre conoscenze: non coincide con le competenze professionali o con mestieri, ma con l’attenzione per l’interesse generale e perciò con la ricerca degli strumenti e delle forme più adeguate per perseguirlo e realizzarlo. Per questo non può risolversi in una tra le tante tecniche e non può esserne neppure la somma. D’altra parte è noto che le tecnocrazie non sempre hanno implementato la democrazia, anzi talvolta l’hanno limitata o comunque non l’hanno estesa. La competenza democratica non è, dunque, separabile dall’etica.
«Avvenire» del 9 ottobre 2008

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