30 maggio 2009

Chi più stupra vince la partita: così i media "vendono" l’orrore

Videogame dove ogni omicidio fa punti, film "monstre" per teen ager. Un saggio del criminologo Ceretti: "Attenti al fascino della malvagità"
di Tommy Cappellini
E stupra che ti passa. Questo devono aver pensato alla Illusion Soft di Yokohama i soliti programmatori giapponesi bulimici di manga erotici e poco altro. E allora si sono messi lì e hanno inventato e realizzato Rapelay, un videogioco il cui nome è tutto un programma: rape è stupro, e replay è replay. Traduzione: vince chi stupra di più. Ci sono anche dei benefits per gli stupratori più entusiasti e per quelli che riescono a far abortire le vittime, giusto per evitare vendette. Bene. Dopo tanti videogame basati sull’«ammazza-squarta-staccagli la testa-tiralo sotto con l’auto», questo potrebbe essere un delicato passo avanti nella formazione morale ed estetica dei videogiocatori e della civiltà tutta, anche se alla Illusion Soft vi diranno che questa ironia è fuori luogo, la civiltà non è affare loro e che «business is business». E poi, non ha niente di meglio da fare il Parlamento italiano, che c’è la crisi? Perché perde tempo a discutere se vietare o meno questo Rapelay, peraltro già censurato in Spagna, Germania, America e Gran Bretagna?
Come se prima non ci fosse stato Alemanno. Criticato da tutti per aver puntato il dito contro la fiction Romanzo criminale, accusata di favorire sul velluto - via mimesi, à la René Girard - comportamenti violenti. Fiction tra l’altro visibile solo su Sky. «L’arte non si censura! Così si censurerebbe anche Arancia meccanica!». Nessuno, però si è chiesto se Romanzo criminale fosse davvero questa opera d’arte insostituibile e non un semplice prodotto mediatico: portatore, però di fascinosa quanto inutile violenza. Ad ogni modo, gli attori della fiction hanno pubblicamente raccomandato di non imitare quel che loro si sono prestati soltanto a recitare. Comunque nulla a confronto di San Valentino di sangue 3D: tra i film più visti dell’ultimo mese. Schizzi di sangue e colpi d’ascia che vi piombano direttamente addosso: vi abbracciano, quasi.
Entriamo nell’argomento: la violenza è virale? Si propaga forse per contagio, come volevano gli psicologi comportamentisti e come a volte si sperimenta dal vivo durante certe manifestazioni (in Occidente) o certi linciaggi (in Oriente) o certe aggregazioni facinorose (su internet)? I mass media possono ritenersi sempre autorizzati a rappresentarla? Siamo sicuri che allenarsi a stuprare «virtualmente» a casa propria con tastiera e mouse non abbia qualche micro o macro conseguenza nel mondo reale?
È appena uscito Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (Raffaello Cortina, pagg. 432, euro 29), un esteso saggio che indaga con quali parole e quali fantasie chi mette in atto la violenza narra a se stesso i propri gesti. Ceretti è professore ordinario di criminologia alla Bicocca di Milano, si è occupato del massacro di Novi Ligure e di quello di Jucker, ed è da anni mediatore tra i rei e le vittime dei reati. Gli abbiamo sottoposto i nostri dubbi. «Se la violenza è virale?», ci risponde. «Se i mass media la fomentano? Il presidente americano Lyndon Johnson spese un milione di dollari per finanziare una commissione che rispondesse precisamente a questa domanda, e la questione è ancora aperta. Tutto dipende dalla “matrice simbolica” di chi sta davanti allo schermo, del cinema o del pc: intendo il filtro che ciascuno fa attraverso il suo sé di tutti i significati del mondo. È però chiaro che oggi sono disponibili numerosi percorsi di “violentizzazione” attraverso prodotti mediatici, sebbene alla fine sia il concreto contatto con la violenza - di un famigliare, dei coetanei - la goccia che porta la fantasia interiore a diventare atto reale. Posso guardare un film violento, ma fino a quando non ci sarà qualcuno in carne e ossa che mi indichi che proprio quel modo violento è il migliore di tutti per risolvere i conflitti, difficilmente passerò all’azione. Tuttavia... I mass media rafforzano tantissimo questo modo di essere, per osmosi emotiva e intellettuale. Abbattono un argine dopo l’altro. Ho fatto il giudice minorile per anni e ho visto la violenza degli adolescenti spostarsi dai ceti deprivilegiati a quelli medi: fruitori, per noia, per depressione, per mancanza di un futuro credibile, di prodotti mediatici basati su comportamenti asociali. Non è un caso. So che alcuni degli attori di Gomorra, un film in cui i protagonisti hanno una visione abominevole del mondo, sono diventati davvero delinquenti. Un caso anche questo?».
Senza voler tirare in ballo l’insolubile e paolino dilemma della predestinazione - se si nasce già «segnati» verso il bene e verso il male - occorre però far mente laica e locale. Difendere la libertà, anche quella con la «l» minuscola che ha inventato lo stupendo e stupido motto «O pensi che tutti siano liberi di fare quello che vogliono o hai torto»? Oppure virare verso il duo de Maistre-Cacciari, «l’uomo è troppo cattivo per essere libero»? Come dire, chiunque guarda una donna per desiderarla, in cuor suo ha già commesso adulterio?
Sì, e il mercato è ben cosciente di questo. Tant’è che la Rockstar Games ha eliminato dal suo nuovo videogioco Grand theft auto IV, prima di rilasciarlo, la possibilità di fare sesso con qualsiasi cosa si muovesse sullo schermo, bambini e animali inclusi, per non alimentare pedofilia e altre aberrazioni. Ha lasciato attiva solo la possibilità di accoppiarsi solo con prostitute consenzienti. «Questo perché - ci spiega Ceretti - il mercato attinge senza remore dall’immaginario collettivo generato dal nostro tempo, e produce soltanto ciò che si vende, ciò che riesce a “passare”. Alla fine guardacaso “passa” una visione non bella dei rapporti personali. Ci sono delle frontiere mobili che stiamo lentamente spostando, verso il peggio. Chi è fuori dal pericolo, se ne accorge, e subito. Ma chi è nel mercato no, e razionalizza certe scelte con inammissibili motivi, come quello che questi videogiochi o queste fiction possano esorcizzare o neutralizzare alcune fantasie».
In un romanzo di Isaac Bashevis Singer, il protagonista adolescente si ribella al proprio padre: «Ma chi ha detto che gli ebrei devono portare la barba?». «Nessuno - gli risponde pacato il genitore. Ma oggi ti tagli la barba e domani vai a letto con una donna sposata». Già si sente in questa risposta tutta l’amarezza di chi prevede un mondo dove gli atti esteriori, e non solo quelli interiori, «virtuali», non conteranno più nulla.
«Il Giornale» del 30 maggio 2009

La crudeltà non è in video ma nei cuori

di Claudio Risè

La rappresentazione della violenza la moltiplica? Dunque riducendo le immagini violente, la loro riproduzione mediatica, nei video, film, o narrazioni varie, potremmo costringerla a contrarsi, a sparire? Se fosse così, sarebbe bellissimo. Un po’ di buona volontà, di cooperazione, qualche leggina, qualche regolamento... e oplà, la violenza non c’è più, sparita, come le galline dai cappelli dei prestigiatori estivi negli alberghi delle Dolomiti, quando ero bambino. E, appunto, il prestigiatore in cambio di un gelato mi nascondeva sotto al tavolo, perché vi aprissi una botola e facessi scappare la gallina rinchiusa nel cilindro appoggiato sopra. Sono passati troppi anni, i prestigiatori mi hanno annoiato con le loro storie, sono vecchio, devo dire ciò che vedo. Osservo allora che la violenza, purtroppo, ha ben poco a che fare con la sua spettacolarizzazione. Non nasce dai video, o dalla carta stampata, ma dal cuore dell’uomo, come si era intuito da sempre, e soprattutto negli ultimi due millenni (quelli dopo Cristo).
Sarebbe come dire che il consenso a Berlusconi nasce dai video. In realtà i video, quelli Tv, o dei giochi, o dei computer non creano nulla; si limitano a mostrare ciò che di bene o di male già esiste nelle tendenze delle emozioni umane. Violento non diventerà necessariamente quello che vede troppi video horror, che comunque non aiuteranno la sua educazione sentimentale. Rischia invece di diventarlo quello che ha sperimentato la violenza distruttiva nella sua infanzia. Fin da quando era nella pancia della mamma, circondato da figure genitoriali inaffidabili, fuori controllo, a loro volta violente come dimostrano innumerevoli lavori sulle esperienze prenatali e perinatali.
La violenza, come si spiega anche in Cosmologie violente (di cui si parla qui accanto), nasce dalla paura. Se temi di essere ucciso, sei pronto a sparare per primo; è il famoso «colpo in canna» autorizzato dalla legge sulle armi americana. Ma il luogo di incubazione delle prime, profondissime paure, e quindi dei più profondi nuclei di violenza, è addirittura (non casualmente se si pensa al numero degli aborti) la pancia della madre. La psicoanalisi ha abbondantemente osservato come il mito del diluvio universale (presente in gran parte delle culture), venga associato alla rottura delle acque amniotiche. Episodio, questo, vissuto come una grande violenza, che si conclude con l’altrettanto violenta espulsione dal corpo della madre, in cui per lunghi mesi si era sviluppata la vita, ed anche le prime strutture della persona umana (a questi forti scenari è dedicato, tra l’altro, il recente L’origine della paura, Edizioni Magi, dello psicoanalista svizzero Franz Renggli).
Il fatto che la paura, e la violenza che essa genera, affondino le loro radici nel corpo (e nel cuore che le conserva), non offre dunque ricette facili. In compenso, però, ci può liberare da alcuni problemi inutili. Confermandoci, per esempio, che la violenza c’entra poco coi discorsi, ed anche con le immagini. È meno un problema del Ministero della Cultura insomma, di quanto lo sia di quello della Sanità, e naturalmente della Giustizia. Giustamente il diritto postmoderno non bada alle sensibilità, ma alle vie di fatto. Aiutare davvero le donne che non vogliono abortire, curare veramente i folli, garantire la sicurezza dei cittadini, sono tutte iniziative che, proteggendo i corpi degli esseri umani, affrontano la violenza, più di mille discorsi sulle diverse violenze mediatiche.
Bersaglio della violenza sono i corpi. Proteggiamoli, mettiamoli in sicurezza, e ridurremo la violenza.

«Il Giornale» del 30 maggio 2009

29 maggio 2009

Il viaggio di Ulisse è sempre senza ritorno

Il mito omerico nella versione dello scrittore ebreo tedesco Lion Feuchtwanger, che sottolinea il rapporto tra arte e potere
di Claudio Magris
Il destino dell’eroe moderno incapace di ritrovare se stesso
Lion Feuchtwanger non è propriamente un classico, uno di quegli autori le cui pagine colgono una volta per sempre qualche volto essenziale della vita, individuale e collettiva, e rimangono esemplari nel fluire del tempo. È un vigoroso - talora anche troppo - romanziere, coinvolto, in particolare quale ebreo tedesco, nelle tragedie del Novecento e nelle passioni ideologiche che le hanno accompagnate e alle quali ha saputo dare voce e risonanza. Nato a Monaco nel 1884, dopo aver lasciato la Germania nazista ha pubblicato a Mosca insieme ad altri autori esuli la rivista «Das Wort»; amato nella Ddr, è morto a Los Angeles nel 1958. Scrittore di piglio e di effetto, ha fra l’altro narrato, con sanguigno realismo, il torvo antisemitismo (Süss l’ebreo, 1925) e l’eroica e sanguinosa resistenza ebraica ai Romani (La guerra ebraica, 1932). Ma il suo libro forse più bello è fra i meno noti e meriterebbe di essere proposto ai lettori italiani; è una ripresa del tema di Ulisse, che dopo Omero attraversa la letteratura dei più diversi secoli e Paesi, ponendosi soprattutto la domanda, squisitamente moderna, se Ulisse possa tornare a Itaca, ossia se il viaggio della vita possa ricondurre a casa l’individuo, confermato nella sua identità e nei suoi valori - oppure se egli sia destinato a non ritornare, a ripartire, a perdere se stesso e il senso della vita in un viaggio che può essere solo naufragio. Tranne il capolavoro del classico e conservatore Joyce, che fa ritornare il suo Ulisse alla casa, agli affetti e ai valori di sempre, l’odissea dei moderni è in genere un’odissea senza ritorno, una dissoluzione dell’eroe navigatore ossia dell’Io. Nel suo romanzo Odysseus und die Schweine (Ulisse e i maiali, 1950), Feuchtwanger si sofferma originalmente su due momenti essenziali dell’Odissea. Anche Ulisse sale sul letto di Circe, come poco prima i suoi compagni trasformati subito in porci, ma, lungi dal farsi sopraffare dal pure intenso desiderio animale, è lui a domare la maga e a costringerla a tramutare di nuovo in uomini i suoi marinai imbestiati. Fin qui, Omero. Ma nel romanzo di Feuchtwanger uno di questi marinai non vuole tornare al dolore dell’esistenza umana. Vorrebbe restare animale, in grembo a una natura che non conosce ancora la dignità e il tormento della coscienza, in un beato abbandono. È Ulisse che lo costringe a tornare uomo contro la sua volontà; che lo obbliga, con la prepotenza di chi comanda e si arroga di stabilire il bene e il destino degli altri, a riassumere la dignità e il peso dell’umanità; poco dopo, per sua fortuna - e forse non involontariamente - il marinaio morirà. Per Feuchtwanger - come mezzo secolo prima, con altissimi risultati poetici, per il Pascoli dell’Ultimo viaggio - l’odissea umana è nostalgia della regressione, vana fuga dal disagio della civiltà. Ulisse stesso paga le sue vittorie con l’autocontrollo: «Tu devi essere Ulisse, colui che non si lascia affascinare», gli dice Circe, quando si accorge che non le riesce di risucchiarlo nel gorgo del sesso. È una vittoria che si accompagna ad una perdita, perché non lasciarsi affascinare è una difesa che preclude tanti abbandoni e tante felicità. Ma Feuchtwanger è ancor più grande - e sorprendentemente attuale - nel finale. Ulisse, tornato a Itaca, restaura il suo potere, sterminando i Proci e i loro complici - i collaborazionisti, si direbbe oggi - comprese le dodici ancelle che vengono impiccate. Risparmia però Femio, il cantore, pur più gravemente compromesso - visto il suo ruolo - con gli usurpatori; lo risparmia forse perché ogni potere ha bisogno dell’intellettuale ovvero dell’arte ovvero dell’autorità mediatica che lo glorifichi e lo consacri. Femio dunque compone il canto che celebra il ritorno vittorioso di Ulisse e la strage dei suoi nemici. Una vittoria ha bisogno di vittime: quelle realmente cadute per mano di Ulisse sono 39 - troppo poche, per il canto ufficiale, perché la gloria ha bisogno di un numero imponente di morti. Femio corregge il canto e parla di 200 vittime - troppe, rischierebbero di rendere poco credibile l’intera vicenda. Femio sceglie dunque un numero intermedio, 118 - abbastanza grande, secondo le dimensioni di allora, per dar lustro al trionfo, ma non troppo esagerato, per non apparire gonfiato. Sembra di leggere la conta delle vittime della storia recente, continuamente contestata e corretta. Per il giornalista moderno si tratta di una riga in più o in meno spostata su una pagina del quotidiano, per l’aedo di famiglia di Ulisse si tratta di qualche sillaba in più o in meno, a seconda dei numeri composti di poche o molte lettere, da adattare alla metrica e alla melodia del canto. Anche i poeti, come proclama un antico detto greco, dicono molte menzogne.
« Corriere della Sera» del 17 maggio

Attualità di Omero

Ulisse segna la nascita dell'Io e della sua inesausta domanda di autonomia, di avventura e di superamento di sé. L'eroe dell'Odissea è l'incipit della modernità, delle sue contraddizioni, delle sue nevrosi, del sentimento morale
di Eugenio Scalfari
Al Salone del libro di Torino, dove sono stato per un paio di giorni più per curiosità letterarie che per impegni editoriali, ho notato che in numerose occasioni è stata ricordata l'importanza di Omero e dei suoi poemi ancora attuali come non mai sebbene siano passati tre millenni da quando cantò le imprese degli eroi sotto le mura di Troia e il ritorno avventuroso di Odisseo ad Itaca.
Quei due poemi e quanto fiorì attorno ad essi con inesausta attenzione hanno dato il tono alla civiltà letteraria occidentale scavalcando le epoche, le religioni, le scuole. Noi parliamo spesso di cultura greca, giudaica, cristiana, islamica indicando con questi riferimenti le radici della nostra civiltà occidentale, ma meglio ancora potremmo dire con una sola parola che in buona parte le comprende ponendosi all'origine di esse: cultura omerica.
In essa c'è infatti il divino, l'eroico, il mito della forza e quello del coraggio, il mito dell'intelligenza, il mondo della magia, quello oscuro delle anime morte, l'amore, la fedeltà, la gelosia, la vendetta, la pietà. Ma c'è anche, incredibile a dirsi, l'embrione della modernità incarnata da Odisseo e dal suo viaggio senza fine.
Ha scritto qualche giorno fa Claudio Magris sul 'Corriere della Sera' che Ulisse è il primo eroe moderno. Ha ragione e del resto siamo in molti ad aver già segnalato l'attualità dell'eroe dalle molte astuzie che attraverso le sue molteplici e perigliose esperienze arricchisce la sua natura e la sua umanità.
Il richiamo ad Ulisse comincia con Virgilio che modella il suo Enea sulla figura dell'eroe omerico, pur senza arrivare alla complessità drammatica del prototipo. Seguono infiniti altri riecheggiamenti nelle saghe dei miti fenici, nibelungici, vichinghi, ma è nel XXVI canto dell'Inferno che Ulisse conquista la sua dimensione completa di simbolo di 'virtute e conoscenza' raggiunte attraverso il viaggio. L'eroe errante per antonomasia, l'eroe delle tentazioni che subisce il fascino dell'avventura, il rischio di restarne preda, la capacità di controllarne la misura e l'esito.
Infinite altre interpretazioni si sono susseguite nelle epoche successive fino ad una sorta di capolinea che ha rilanciato su due diversi livelli il mito odissiaco: il superuomo d'ispirazione nietzschiana e dannunziana, e il borghese Leopold Bloom creato dalla fantasia letteraria di Joyce.
Il viaggio, l'eroe errante, l'idea fissa del ritorno e la necessità, invincibile come tutte le necessità, di ripartire tentando ancora la vita e lasciandosi tentare dall'appuntamento con la morte. E la dea che sempre l'ha protetto, Pallade Atena dagli occhi cerulei, la dea misteriosa dell'intelligenza e della 'polis'.
Non c'è Odisseo senza Atena. Si direbbe, modernizzando una mitologia trimillenaria, che tra i due ci sia stato un amore come non era insolito che avvenisse nei rapporti ravvicinati tra gli umani e gli dèi olimpici. Le tracce di quell'amore sono largamente presenti in tutta l'Odissea come nella sua versione novecentesca joyciana. La dea è gelosa di Calipso che è anche lei invaghita dell'eroe e gli ha promesso l'immortalità se resterà per sempre nella sua isola ai confini del mondo.
Atena impone a Zeus di liberarlo dalla malia di Calipso, così come lo aveva già reso invulnerabile dalla magia erotica di Circe. Ancora Atena lo salva dall'ira di Poseidon, lo nasconde al suo arrivo in Itaca, lo incita a massacrare i Proci che avevano invaso la sua reggia credendolo morto e volendo sostituirlo con uno di loro. Ed è ancora Atena a portare a compimento il massacro nella notte della vendetta e della purificazione.
Una dea e un eroe di tremila anni fa che il poeta dell'Odissea ci propone come 'incipit' della modernità, delle sue contraddizioni, delle sue nevrosi, del sentimento morale. Odisseo-Ulisse segna la nascita dell'Io e della sua inesausta domanda di autonomia, di avventura e di superamento di sé.
Ricordate Zarathustra? "L'uomo è un ponte teso tra l'animale e l'oltre-uomo. L'uomo è una transizione". Questo è l'Ulisse moderno, del quale quello omerico rappresenta l'inizio.
«L’Espresso» del 21 maggio 2009

Un 'maestro del sospetto' di oggi

Un senso
(G.Curreri, S.Grandi, V.Rossi - V.Rossi, S.Grandi)

Voglio trovare un senso a questa sera
Anche se questa sera un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa vita
Anche se questa vita un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa storia
Anche se questa storia un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa voglia
Anche se questa voglia un senso non ce l’ha

Sai che cosa penso
Che se non ha un senso
Domani arriverà...
Domani arriverà lo stesso
Senti che bel vento
Non basta mai il tempo
Domani un altro giorno arriverà...

Voglio trovare un senso a questa situazione
Anche se questa situazione un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa condizione
Anche se questa condizione un senso non ce l’ha

Sai che cosa penso
Che se non ha un senso
Domani arriverà
Domani arriverà lo stesso
Senti che bel vento
Non basta mai il tempo
Domani un altro giorno arriverà...
Domani un altro giorno... ormai è qua!

Voglio trovare un senso a tante cose
Anche se tante cose un senso non ce l’ha


Tratta dall'album: Buoni O Cattivi (2004)

Ispirazione poetica, cos’è?

di Bianca Garavelli
L’ispirazione poetica è un fenomeno affascinante, studiato già in tempi antichi, per esempio da Platone, il quale ne osserva il carattere spesso di inconsapevolezza in chi ne è toccato, pur risultandone profondamente cambiato. Per questa natura quasi magica, il filosofo le attribuisce un’origine divina, in cui include dunque anche la poesia. In seguito, già con Aristotele, l’ispirazione perde i contorni luminosi del divino per rientrare in schemi razionali, classificabili e rassicuranti. È soprattutto 'tecnica' nutrita di retorica, e non più 'creazione'. Nei secoli successivi il processo continua, sia pure con alterne vicende. Oggi uno studioso che è anche poeta, Alberto Casadei, docente di Letteratura italiana all’Università di Pisa, rimette in campo i termini più antichi della questione, ma soprattutto attinge a piene mani agli studi più all’avanguardia negli ambiti delle cognitive poetics e delle neuroscienze. Casadei arriva a risultati molto interessanti e indubbiamente di stimolo per futuri approfondimenti in un densissimo libriccino, intitolato appunto Poesia e ispirazione: per esempio, illustra come nell’opera di Dante il fenomeno dell’ispirazione sia centrale, assumendo caratteri originali e, nuovamente, divini. Non più un’ispirazione come «forza sovrastante », ma «un sostegno all’opera dell’autore», come appare soprattutto nel canto XXXIII del Paradiso.
Infatti nella terza cantica della Commedia Dante riesce a raccontare il suo viaggio nella dimensione divina, pur con un mezzo linguistico inadeguato: e in questo senso raggiunge il risultato straordinario di «ricostituire una piena corrispondenza fra la lingua umana e le Leggi assegnate da Dio alla Natura ». In altri termini, ritrova quell’essenza pre-umana, o almeno pre-logica del linguaggio che già Platone attribuiva alla creazione poetica, che la avvicinava alla creazione divina. Da Dante viene la nostra letteratura, ma passando attraverso Petrarca. Un passaggio che lascia il segno. In Petrarca infatti «l’io che rivolge a se stesso lo sguardo non può essere animato e sostenuto da una potenza superiore». Così nei successivi episodi della storia letteraria dell’Occidente l’idea di ispirazione perde forza o interesse, fino alla situazione odierna in cui la poesia è doppiamente svilita, dal mercato editoriale e dalla taccia di inconsistenza o ingenuità dei suoi possibili risultati in termini di conoscenza. Ma Casadei propone un recupero della tradizione antica dell’ispirazione alla luce dei risultati scientifici dei nuovi studi sul funzionamento del cervello. E rilancia la poesia ipotizzando, su ottimi fondamenti, che condivida la natura dei percorsi neuronali del nostro encefalo, in una fase che precede quella della consapevolezza e della logica. Se tale ipotesi fosse vera la poesia, linguaggio in cui ogni parola assume significato dall’insieme ritmico che contribuisce a creare, sarebbe un processo alternativo di conoscenza, non antiscientifico ma autonomo, originale e intuitivo, parallelo a quello della scienza.
«Avvenire» del 16 maggio 2009

Scuola senza poesia, cioè senza storia

di Roberto Mussapi
Ho seguito con interesse il dibattito su poesia e scuola aperto da Davide Rondoni su queste pagine. È una questione seria perché la poesia non è un optional ma una componente del nostro Dna, e non è soltanto un genere letterario, ma, come scrisse per sempre Shelley, anche una dimensione antropologica, una necessità, direi, una fame da parte di chi non scrive. Insomma la poesia è l’insieme dei versi memorabili scritti ma anche l’infinito potenziale di quelli non ancora concepiti, basti pensa che abbiamo avuto il coraggio, cioè la necessità, di scrivere versi anche dopo la «Divina Commedia». La situazione è tragica: la televisione (in blocco quella prevalente e più forte) non considera la poesia una realtà, ma una strana disciplina paraaraldica, una sorta di innocente massoneria tra l’enigmistico e il beato. I giornali, nella stragrande maggioranza, fanno peggio: hanno imposto il luogo comune che i poeti sono Fabrizio De André, Ligabue e vari altri loro colleghi canterini. La stampa in gran parte diseduca, la televisione, con i talk show, le veline, i pagliacci vestiti da guru, ha già da tempo operato il suo sterminio a livello di cellule. La scuola dovrebbe resistere. Ma come è possibile? Che ne sanno gli insegnanti? Che cosa gli hanno insegnato all’università?
Come si regolano su antologie che nella sezione epica, accanto a Omero, mettono un cantautore milanese? Ma il problema è più grave: la poesia non è una branca dell’enigmistica, né una parente di quello che era il diario sentimentale un tempo e oggi Maria de Filippi.
Non è quella roba. È una strana realtà (sì, realtà) in cui fisico e metafisico s’intrecciano indissolubilmente, e misteriosamente, ma con la misteriosità magica del tappeto persiano. È l’espressione di domande e realtà astoriche e immateriali attraverso una lingua storica che agisce in un tempo e una realtà anche materiali. Quindi è indissolubilmente legata alla storia (se la storia è avventura e mito) alla filosofia (se questa è conoscenza in moto), alla fisica (se questa è brivido della scoperta), all’aritmetica (quando si manifesta come mistero pitagorico, adombrando la perfezione astrale del verso). Come può questa scuola parlare di poesia se presenta una storia demitizzata (dove sono Alessandro Magno, Colombo, Carlomagno, il Saladino?), una filosofia orientata al marketing, tendente alla psicologia aziendale, una fisica di formulette? La poesia non è una 'materia' o 'disciplina'come invece queste sono, ma semmai è il loro collante, e il segreto che le ha fatte e viste nascere. Se la scuola non può parlare con stupore, avventura, incanto, sgomento, rapimento del mondo, a che serve, in quella scuola, la poesia, messa in un angolo umiliata? Come può la nostra attuale scuola parlare di poesia se non è in grado di affrontare qualcosa di pari alla vita?
«Avvenire» del 23 maggio 2009

Su Galileo troppi «massimi sistemi»

Al convegno del IV centenario gli echi dei pregiudizi ideologici che ancora viziano un dialogo serio tra «cattolici» e «laici»
di Andrea Galli
Avrà mai fine il «caso Galileo»? O meglio, arriverà il momento in cui si potrà discutere delle peripezie dell’inquieto, geniale pisano in modo paritario tra laici e cattolici? Qualcuno lo aveva evidentemente auspicato e sperato. « Galileo 2009 » , il convegno che si tiene in questi giorni a Firenze, al Palazzo dei congressi, e che si chiuderà sabato con una tavola rotonda presso la villa «Il Gioiello» di Arcetri, dove Galileo visse dal 1631 fino alla morte nel 1642, era stato pensato proprio a questo scopo.
Promosso dalla gesuitica Fondazione Stensen, voleva mettere insieme per la prima volta, in un incontro di livello internazionale, 18 istituzioni coinvolte direttamente o no nell’affaire Galileo – dall’Università di Pisa all’Archivio storico della Compagnia di Gesù, dall’Accademia dei Lincei alla Specola Vaticana – e soprattutto studiosi di matrice sia laica, sia cattolica. «Il lavoro è stato faticoso, è durato quasi due anni – racconta il gesuita Ennio Brovedani –, ma pensavamo che fosse arrivato ormai il tempo di impostare un dialogo serio, un’iniziativa che fosse condivisa tra storici di diverso orientamento ». Che però il progetto non fosse semplice lo si è capito ancora meglio poche settimane fa, quando agli organizzatori è arrivata una email a nome di alcuni esponenti dell’ala laico-intransigente – tra cui Paolo Galluzzi, docente di Storia della Scienza all’Università di Arezzo – che minacciavano di ritirarsi dal convegno se non fosse stata cambiata una parte del comunicato stampa, per altro uscito a gennaio, che presentava l’evento di questi giorni. Motivo dell’indignazione era un titolo che qualificava il caso Galileo come una «secolare incomprensione», sottinteso fra Chiesa e mondo scientifico.
Non sia mai. Se di incomprensione si vuol parlare, secondo il club galileiano doc, questa ha da essere solo quella della Chiesa, onde evitare inaccettabili revisionismi.
Come commenta a margine dei lavori Federica Favino, ricercatrice presso il dipartimento di Storia moderna e contemporanea alla Sapienza di Roma, e autrice ieri di un interessante intervento sulla fortuna incontrata da Galileo nell’aristocrazia romana a lui contemporanea, sulla vera questione galileiana «anche da questi lavori non sembrano emergere novità sostanziali » . Se non discordanze su singoli punti.
Per esempio la versione del 1632 dell’ingiunzione fatta a Galileo nel 1616, quella in cui allo scienziato veniva proibita la difesa delle tesi copernicane, ritenuta più dura dell’originale e secondo alcuni falsa, scritta per aggravare la posizione dello stesso Galileo nel processo che poi lo vedrà condannato (contro la tesi della falsificazione è intervenuto l’accademico dei Lincei Annibale Fantoli, a favore Francesco Beretta, del Laboratorio di ricerche storiche di Lione).
Quella che invece si allarga è sicuramente la conoscenza del contesto storico e della ricezione dell’opera di Galileo nell’Europa moderna, dall’Inghilterra – che, come ha mostrato Franco Giudice, dell’Università di Bergamo, si infatuò irresistibilmente del «martire» dell’Inquisizione – alla Francia dei «filosofi e libertini» (che, ha ricorda- to Isabelle Pantin, docente di letteratura all’Ecole Normale Supérieure, fu il primo Paese europeo, fatta eccezione per l’Olanda, in cui fu dato alle stampe e circolò il testo della condanna di Galileo).
Anche se l’equilibro di alcune analisi storiche lascia più che dubbiosi. Per Vittorio Ferrone, ad esempio, l’idea espressa da Giovanni Paolo II nel discorso del 1992 di fronte alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze, secondo cui il caso Galileo sarebbe stato un mito creato nell’età dei Lumi, è inaccettabile. Ovvero, secondo lo storico dell’Università di Torino, «oggi sappiamo che fu principalmente la cultura italiana del secolo XIX a costruire il mito del Galileo perseguitato e di una Chiesa geneticamente ostile alla scienza moderna: ed essa lo fece rispondendo, legittimamente io credo, alla Chiesa cattolica della Restaurazione, all’offensiva di quei settori più reazionari della gerarchia ecclesiastica decisi a imporre il principio dell’infallibilità pontificia e rilanciare la cultura repressiva e autoritaria del Tridentino ». Spendere parole di interesse e apprezzamento per la « cultura repressiva e autoritaria del Tridentino » è toccato a una ricercatrice israeliana, Rivka Feldhay, che ha messo in luce come il sistema educativo elaborato dai tanto vituperati figli di sant’Ignazio di Loyola fosse tutt’altro che oscurantista o «immobilista». Secondo la storica della scienza dell’Università di Tel Aviv, «la strategia educativa dei gesuiti di allora aveva creato una condizione da Alice nel paese delle meraviglie: un mondo in cui ognuno sembrava fermo nel rispetto scrupoloso della tradizione, anche della scienza aristotelica, ma in cui, in realtà, venivano trasmesse le nozioni più avanzate in campo filosofico, tecnico e scientifico».
Infine, a spostare decisamente l’attenzione dalle vicende inquisitoriali o dall’impatto culturale che queste ebbero in Occidente, su un piano meno battuto, cioè quello teologico, è stato Pietro Redondi dell’Università Bicocca di Milano. Redondi ha invitato, appunto, ad approfondire l’idea di Dio e di natura proprie del Galileo «teologo», poco definite e conosciute: « La rappresentazione della natura che Galileo dà nella famosa lettera a Cristina – ha detto lo studioso nel dibattito con il pubblico – è davvero inquietante: è una natura indifferente all’uomo, che non si occupa di essere conosciuta, ma segue esclusivamente i fini per i quali è stata programmata da Dio. Un Dio abbastanza ' parsimonioso', perché di lui Galileo ha bisogno per passare dal moto caotico dei corpi primordiali a un universo ordinato e gerarchico. Ma, dopo questo miracolo iniziale, ci si chiede a cosa serva Dio: forse soltanto, appunto, a fare dei miracoli».
Una « natura macchina » , in sostanza, e un Dio che – in controluce – sembra avviato all’evanescenza. «Non è Dio, in fondo, la misura di tutte le cose nell’universo di Galileo: è l’uomo».
«Avvenire» del 29 gennaio 2009

28 maggio 2009

Ma la poesia è diventata relativista?

di Gianfranco Lauretano *
Nell’interessante dibattito sull’insegnamento della poesia a scuola, ospitato dalle pagine di «Agorà», una questione non è stata ancora posta: la poesia è sempre insegnabile? Si tratta cioè di rovesciare la questione e cogliere le colpe dei poeti. Se infatti parliamo di classici - Dante, Leopardi, Ungaretti - il problema si riduce alla capacità dell’insegnante di proporre ai suoi ragazzi testi acclaratamente validi, non foss’altro che per la tradizione di insegnamento di generazioni di docenti. Diverso è il discorso per la poesia del Novecento: ci sono autori che, pur avendo compiuto la parabola della loro opera e della loro esistenza, ancora non riusciamo a collocare. In Italia abbiamo un problema di canone, non riusciamo cioè a dire quali sono gli scrittori esemplari, quelli che hanno cantato con verità e bellezza l’anima del nostro tempo. Per quanto riguarda la poesia siamo fermi a Montale e Ungaretti i quali, sarà utile ricordarlo, sono nati nel XIX secolo.
Sul dopo non abbiamo idee e le canonizzazioni variano da antologia ad antologia. Eccetto che per la buona volontà di qualche docente e progetto d’istituto, i poeti contemporanei sono assenti dalla scuola italiana. Anche gli autori proposti agli esami di Stato sono sempre gli stessi. È successo qualcosa che ha rotto una continuità. Quando Montale era ancora vivo, la sua opera era già oggetto di studio al liceo e antologizzata sui libri di testo. Una cosa del genere è impensabile per gli autori viventi. Di solito dell’incapacità di individuare un canone si dà la colpa alla scuola e all’università, ed in parte è vero; ma qual è il ruolo negativo dei poeti?
Quando si propone un autore ad una classe di venti-trenta studenti, si capisce bene se esso sia insegnabile o meno. I ragazzi, certo, cercano in una poesia la parola bella, quella particolare intensità di voce e dizione che li possa emozionare e che è tipica della poesia, ma non basta. Cercano anche risposte.
Nell’età dell’adolescenza e della giovinezza, finché la televisione non ha del tutto piallato la ricerca esistenziale, le domande fondamentali di vero, di bello, di giusto, di eterno ancora battono nel cuore della persona: essere giovani tutta la vita significa proprio continuare ad ascoltare quel cuore.
La poesia parla esattamente ad esso, per questo è il campo dell’intelligenza, come diceva Pasolini. Ora, succede che molti poeti non credano più a quelle domande. Si chiama relativismo: non c’è nulla di universalmente valido, neppure le domande di senso. Ma per la poesia , sia per chi la scrive sia per chi la insegna, è una posizione mortale. I poeti reagiscono in modo diverso a questa mancanza: da una parte l’oscurità della poesia di matrice simbolista ed ermetica, che rende incomprensibile il 'messaggio' (questa parola così vituperata), come se attingesse a sfere troppo profonde della psiche; oppure la poesia sperimentale, in cui le tecniche e il gioco linguistico sono centrali, ma che alla lunga rendono tediosa e inutile la lettura; infine la recente proliferazione della poesia da performance, adatta più alle letture pubbliche che al libro, come se il futuro della poesia potesse essere in un adeguamento alla società dello spettacolo anziché un’intelligenza del mondo (e quindi anche ad una critica dello spettacolo stesso, come giustamente avvertiva Cucchi su queste pagine). Tutte strade che rendono la poesia improponibile a scuola, appunto, se non per soddisfare una superficiale curiosità sulle tendenze moderne.
Ma la sostanza della poesia è altrove, sta proprio in quel nucleo di domande fondamentali, antropologiche, a cui la poesia deve tentare di rispondere, o almeno affermare, come faceva Leopardi, per poter tornare ad essere interessante per insegnanti e studenti.
* direttore della rivista «clanDestino»
«Avvenire» del 16 maggio 2009

Ritorna il Montale di «Satura», capitale lezione di post-moderno

di Alfonso Berardinelli
Esce negli Oscar Mondadori un’edizione fittamente annotata e commentata di Satura di Montale, a cura di Riccardo Castellana. Il volume sarà molto utile a docenti e insegnanti che vogliano far leggere questo libro di poesia : se non il più bello, certo il più storicamente importante della seconda metà del Novecento, accanto alle Ceneri di Gramsci di Pasolini.
Satura uscì nel 1971, le Ceneri erano uscite nel 1957. Le differenze di cultura, di temperamento, di situazione fra i due libri e i due autori non potrebbero essere maggiori. Eppure in tutti e due i casi abbiamo a che fare con un sorprendente, coraggioso, rischioso sperimentalismo semantico che sposta decisamente il linguaggio della poesia verso un’ampia discorsività molto vicina la parlato, alla prosa, al monologo diaristico, alla variazione su temi ideologici. In definitiva con questi libri la tradizione postsimbolista ed ermetica è definitivamente esaurita. Pasolini torna al poemetto romantico (Foscolo, Shelley). Con Montale ricompaiono i poeti satirici latini (da Orazio a Marziale) perfettamente reinventati e adeguati a tempi ormai postmoderni.
Satura suscitò grandi entusiasmi: finalmente (si pensava) un Montale elegantemente leggibile, un coltissimo poeta aristocratico, eletto, sorpreso e incontrato a casa sua, in pantofole, in dichiarata, meditabonda, apocalittica e sentenziosa senilità. Alcuni poeti e critici furono invece delusi. Questa edizione rende conto dell’impatto del libro riproducendo, in apertura e in chiusura, un saggio di Romano Luperini e uno di Franco Fortini. Anche Pasolini trovò antipatico e inaccettabile il Montale di Satura.
Ciò che infastidiva nel libro era la convivenza ambivalente di signorilità e modestia comunicativa, di nichilismo antistorico da un lato e sorniona leggerezza dall’altro. Comunque si giudichi il libro, va detto che Montale qui non si nasconde, non allegorizza, non gioca con l’oscurità, non allude. Capiva che il Novecento era già alla sua fine. Un classico della modernità come lui diventava così un maestro di postmodernità. Riuscì a restare se stesso diventando un altro.
«Avvenire» del 16 maggio 2009

Il capitalismo? «Tecno-nichilista»

«La crisi viene da una fede cieca nella potenza della tecnica a discapito dei valori, ossia delle cose che contano al di là della loro redditività» L’analisi del sociologo Mauro Magatti
Di Gerolamo Fazzini
«L’economia mondiale è stata colpita da un infarto, tamponato grazie a interventi opportuni e tempestivi. Ora siamo al bivio: tornare a condurre l’esistenza di prima, fingendo di essere completamente guariti, oppure cambiare stile di vita ». Non ha dubbi il professor Mauro Magatti, sociologo dell’Università Cattolica e preside della facoltà di Scienze politiche: è questo il nodo cruciale che gli attori politici e il sistema economico debbono affrontare se si vuole uscire dalla crisi con un orizzonte lungimirante. «In caso contrario, si perpetuerà l’instabilità attuale e potremmo assistere a crisi ben peggiori nel prossimo futuro». Classe 1960, laureato alla Bocconi in Discipline economiche e sociali, Magatti è un osservatore qualificato sulla crisi in atto: docente, fra l’altro, di Analisi e istituzioni del capitalismo contemporaneo, negli ultimi anni ha concentrato la sua attività di ricerca sullo studio della globalizzazione e dei suoi effetti.
Come legge, da sociologo, la crisi economica in atto?
«Paragono questa crisi a quanto accaduto negli anni Settanta; allora abbiamo avuto dieci anni di conflitti sociali derivanti dalla crisi dello Stato nazionale. Un modello, beninteso, che ha prodotto molti aspetti positivi, ma degenerato, con il tempo, nello statalismo. Analogamente, la crisi economica in atto, a mio avviso, rappresenta il segnale forte di un’altra crisi: quella del modello economico degli ultimi trent’anni, che – non dimentichiamolo – ha avuto il merito di migliorare i parametri economici e le condizioni di vita di milioni di persone. Ma, come ieri abbiamo visto i limiti dello statalismo, oggi assistiamo alla crisi del mercatismo e alle sue contraddizioni. La portata della crisi e la sua natura possano costituire l’occasione per avviare un processo di revisione profonda di alcune distorsioni progressivamente prodottesi in tale modello ».
In un libro di prossima pubblicazione da Feltrinelli, lei sostiene essere entrato in crisi un modello economico che lei chiama «capitalismo tecnico-nichilista». Che significa?
«La contraddizione di fondo di quel modello è racchiusa precisamente nell’espressione 'tecnico-nichilista' e nelle illusioni da esso generate. Quel tipo di capitalismo ha creduto ciecamente alla potenza della tecnica, indebolendo così la capacità dei soggetti di condividere valori, ossia le cose che contano al di là della redditività economica. La crisi finanziaria è l’emblema di questa contraddizione: i valori finanziari erano del tutto fittizi, in quanto slegati dalla realtà: come un uovo sbattuto, il cui volume aumenta artificialmente, per poi sgonfiarsi improvvisamente. Oggi che tutto questo è sotto i nostri occhi, bisogna aver voglia di imparare le lezione. Tradotto: la crescita economica è un bene, ma non può essere un fine in sé. Redditività e profitto vanno associati a uno sviluppo sociale, altrimenti producono architetture finanziarie che si rivelano essere, l’abbiamo visto, autentici castelli di carta, destinati a crollare. L’unico sviluppo economico solido è quello che accetta di andare un po’ più piano, ma fa crescere la società».
Uno sviluppo in qualche modo 'temperato', assoggettato a regole comuni…
«Negli ultimi decenni abbiamo costruito un legame stretto tra sviluppo economico e sociale a livello di Stati nazionali; ora occorre estendere tutto ciò su una scala più vasta. Di qui il problema delle regole, di cui tanto si parla. Il punto è: siamo disposti ad accettare di correre un po’ meno e di crescere, come collettività, un po’ di più? Non si può, perciò, non immaginare un’autorità in grado di stabilire dei limiti alla crescita. Per uscire dal vecchio capitalismo serve trovare nuovi equilibri e assetti istituzionali adeguati allo scopo ».
Che tipo di autorità immagina? Di natura economia o politica?
«La difficoltà è proprio questa! Non penso a un super-Stato, beninteso. Dico però che gli accordi di Bretton Woods sono un prodotto della Seconda guerra mondiale. Immaginare una nuova architettura economico- finanziaria che non sia figlia di una guerra è molto difficile. Sono richieste grande intelligenza politica e una visione di lungo respiro».
Dai segnali che osserva, stiamo andando in tale direzione? O non s’avverte, fra le righe di certe prese di posizione, una gran voglia di archiviare tutto e tornare allo status quo?
«L’economia ha subito un infarto, l’abbiamo detto. Tornare allo stile di vita di sempre non mi pare prudente. La fretta di dire che la crisi è superata, perciò, rappresenta un brutto segnale. È del tutto evidente, infatti, che ripensare l’orientamento economico complessivo è un lavoro che richiede anni, non mesi. Una crisi di questa portata può forse essere risolta in un anno, ma gli effetti sociali si protrarranno a lungo. E l’errore più grave sarebbe fingere che queste conseguenze di medio termine non esistano. Vedo il rischio concreto che si inneschi un processo di instabilità di lungo periodo».
Di recente lei ha dichiarato che «dopo anni di individualismo, forse è arrivato il momento di capire che c’ è un filo che ci lega gli uni agli altri. Come in montagna: essere in cordata aiuta, non è un limite alla libertà ». È ottimista sul futuro o pessimista, da questo punto di vista?
«Non si tratta di atteggiamenti... Mi limito a constatare che la crisi ha attestato che le risorse morali nella nostra società ci sono ancora (in Europa come negli Usa). Naturalmente, queste hanno bisogno di essere attivate e guidate; occorrono visioni culturali e politiche che le supportino. Certo è che nei momenti di decadimento morale le lezioni si imparano attraverso le sofferenze: lo dice la storia. Speriamo che prevalga la saggezza, così da evitare che si paghino alti costi sociali».
In un intervento di poche settimane fa lei si è soffermato sull’urgenza di coniugare in modo nuovo libertà e responsabilità come via per uscire dalla crisi. Perché?
«Al fondo di tutto, io credo, c’è precisamente il rapporto fra libertà e responsabilità. Di qui il titolo del mio prossimo libro, Libertà immaginaria. La vera partita, in futuro, si giocherà nel modo in cui pensiamo la libertà, in un mondo che ha prodotto lo sviluppo economico-sociale che abbiamo conosciuto, ma che ora domanda un surplus di responsabilità. Oggi ci troviamo – per così dire – nell’età dell’adolescenza dal punto di vista della libertà. Dopo aver pensato che libertà significhi fare quello che si vuole, sciogliendo tutti i legami, ora è tempo di farla maturare nella direzione della responsabilità, perché senza quest’ultima non esiste nemmeno la libertà. Credo si apra qui un grande spazio per un neo-personalismo, oltre le derive tecnico-nichiliste».
«Avvenire» del 28 maggio 2009

Coinvolgere la scuola nella poesia

di Davide Rondoni
La proposta che vado facendo in giro per l’Italia e anche su queste colonne di smettere di insegnare letteratura in modo obbligatorio alle scuole superiori sta sollevando diverse reazioni.
Alcune, qualificate e acute, sono arrivate anche su «Avvenire». La mia proposta è, in sintesi, di proporre all’inizio dell’anno ai ragazzi da parte di insegnanti veramente motivati la lettura e lo studio di alcuni autori, di alcuni testi esemplari. I ragazzi che vorranno e vedranno nei loro insegnanti qualcosa che li persuade, dedicheranno 3, 4 ore facoltative a settimana alla lettura di poesia, di narrativa, alla scrittura, mentre gli altri si dedicheranno – che so – alla botanica, o approfondiranno altre materie. Le parti importanti di storia della letteratura entreranno – per quel che rileva – nel programma di storia.
Qualcuno ha reagito temendo che in questo modo si smantelli l’insegnamento della letteratura.
È esattamente ciò che intendo.
Gli esiti dell’attuale impostazione che è obbligatoria, idealista, strutturalisteggiante e social­sentimentaloide, sono evidenti: i grandi autori vengono uccisi dalla scuola; difficilmente dopo 5 anni in classe o grazie ad essi si coltivano passioni di lettura; i ragazzi e gli adulti che pur l’hanno studiata a scuola non conservano né il gusto, che potrebbe preservare da certe generali cadute, né il senso critico che solo la letteratura dà nei confronti delle umane cose. Le statistiche parlano chiaro almeno quanto l’esperienza in giro nei corridoi delle scuole. Di fronte a una situazione del genere allargare le braccia, affidarsi alle occasionali genialità di qualche docente o, peggio, smettere di pensare, sono atteggiamenti colpevoli. Non solo verso Dante, Manzoni e tutti i grandi. È una colpa soprattutto verso i giovani, privati di una delle grandi risorse educative e delle grandi avventure umane. Non a caso mi hanno risposto su queste pagine soprattutto dei poeti. Che sono sempre i cani lupo del futuro, lo fiutano, ne vedono i tratti. Come se il problema riguardasse loro, e non invece insegnanti, di scuola e di università, dirigenti scolastici, ministeriali… Dove sono con la testa, e con il cuore costoro? Non uno che dica nulla. Neanche un’ammissione di responsabilità nel concorso a creare una situazione del genere… Oh, certo, forse non si abbassano a discutere di queste cosa con uno che scrive poesie. Hanno i loro consulenti specialisti, pedagogisti, professoristi, schedatoristi, imbalsamatori… Hanno da fare. Il tiepidume di fronte a questa faccenda da parte di Ministero (anche quello della Cultura che fa?), insegnanti, presidi, eccetera è orrendo. Come se non gliene fregasse più se un ragazzo a scuola possa amare il Cantico delle creature o Leopardi, o i Promessi Sposi. Ma se la ministra Gelmini e il ministro Bondi non vogliono discuterne, ho trovato in giro per l’Italia un sacco di gente che s’è accesa all’idea, condividendola, correggendola, rilanciandola. Sia Maurizio Cucchi che Roberto Mussapi, intervenendo su queste colonne, hanno riaffermato la necessità dell’insegnamento della poesia. L’uno in quanto materia al pari della matematica o di altre nell’orizzonte dello scibile umano che deve formare un ragazzo; l’altro, Mussapi, insistendo sulla natura antropologica e «mitica» della poesia come dimensione senza la quale le stesse materie come storia, scienza, eccetera, risultano poco interessanti e impoverite. Entrambi, mi è parso, non contestano la mia «rivoluzione». Del resto, amare la poesia e la letteratura, per sé e per i nostri figli, significa puntare tutto sulla libertà. C’è chi vuole, per questo, correre il rischio di cambiare qualcosa.
«Avvenire» del 28 maggio 2009

Darwin non ci dice che cos’è l’etica umana

Le celebrazioni rettamente intese
di Francesco D’Agostino
L’anno ' darwiniano' è ormai giunto alla metà del suo corso e quasi tutte le iniziative assunte per celebrare degnamente il padre dell’evoluzionismo sono state realizzate o comunque presentate.
Non è ancora tempo di consuntivi, ma qualcosa è già possibile rilevare: la vivace connotazione antireligiosa, anzi esplicitamente ateistica, ribadita ed esasperata negli ultimi mesi da molti darwiniani, ha fatto ben poca presa sull’opinione pubblica, che continua a lasciarsi affascinare più dal Darwin ' naturalista' che dal Darwin anticreazionista: per verificarlo basta visitare la grande mostra allestita a Roma per celebrare il viaggio intorno al mondo del Beagle e osservare la reazione del pubblico e in particolare quella dei giovani. Anche così si può toccare con mano il fatto che le ragioni del credere ( o del non credere) non dipendono assolutamente dalla biologia. I conti col darwinismo la Chiesa li ha fatti da tempo: si tratta ovviamente di conti da rimettere continuamente a punto, ma comunque ben radicati in una duplice convinzione: la religione non ha titolo per sindacare la lettura scientifica della natura e la scienza non ha titolo per sindacare la pretesa ( strettamente religiosa) che il mondo abbia un senso, in quanto prodotto dall’opera creatrice di Dio. La Chiesa non ha mai condannato Darwin ( evitando così di ripetere l’errore del caso Galileo), né Darwin, da parte sua, ha mai avuto la pretesa di ' condannare' la fede. Non solo la Chiesa, ma anche i darwiniani ( o almeno i meno dogmatici tra essi) continuano a fare i conti con Darwin e in particolare con la possibilità di costruire, a partire dalla prospettiva evoluzionistica, un’etica. Non è vero – sostengono molti ' darwiniani' – che il darwinismo costruisca un’immagine del mondo vivente caratterizzata solo da una spietata lotta per vita; solidarietà, affettività, cooperazione sono riscontrabili nella natura di tante specie animali, tanto quanto aggressività, sopraffazione, predazione. Il senso morale dell’uomo avrebbe anch’esso una radice ' evolutiva'. Le indicazioni in tal senso si stanno moltiplicando e appaiono senza dubbio interessanti.
Altra cosa è se siano convincenti. Chiaramente, siamo tutti contenti di apprendere che i bonobo ( o scimpanzé pigmei) sono ' buoni', come da anni continua a ripeterci Frans de Waal. Possiamo pure commuoverci quando leggiamo che nello zoo di Chicago un gorilla femmina di otto anni, Binti, ha messo generosamente in salvo un bimbo di tre anni che era caduto nello spazio di esibizione dei primati.
Che da queste narrazioni si possa dedurre però qualcosa di eticamente concludente mi sembra ben difficile. C’è infatti un punto irrisolto in tutte le etiche darwiniane: quando si manifesta ( ad es. in un bonobo) un comportamento ' malvagio' ( ed ammettiamo pure che sia non coerente con i caratteri altruistici della specie di riferimento) siamo legittimati a condannarlo moralmente o, astenendoci da ogni condanna, dobbiamo interpretarlo come una variante ( sia pur minoritaria) del modo ' naturale' di essere del singolo individuo? Il cuore del problema è tutto qui. A noi, che non siamo né biologi né naturalisti, interessa moltissimo conoscere la dinamica dell’evoluzione delle specie, ma ci interessa ancora di più conoscere qualcosa dell’animo delle singole persone, di quegli individui in carne ed ossa che ci stanno di fronte: vogliamo capire perché alcuni di essi siano operatori di pace e vivano nell’amore e perché altri tra essi si radichino nell’odio e esaltino la guerra; vogliamo sapere se sia giusto lodare e ammirare i primi, condannare e biasimare i secondi. A una domanda del genere Darwin non dà risposta ( né ha mai inteso farlo). È che l’etica ha ben poco a che fare con le generazioni di individui che si evolvono nei millenni; ad essa interessano solo i singoli individui, che vivono poche decine di anni. Darwin aveva, grazie alla sua straordinaria intelligenza scientifica, occhi adeguati a percepire solo le dinamiche delle specie. È per questo che per l’uomo comune, che non ha l’intelligenza di Darwin, ma ne condivide l’umanità ( cioè la percezione delle paure e delle speranze, dei dolori e delle gioie degli uomini), Darwin è un nome nella storia della scienza, un nome grandissimo, ma nulla di più.
«Avvenire» del 28 maggio 2009

23 maggio 2009

Rischioso progettare muri tra diritto positivo e valori universali

Non ci sarebbe più « laicità », ma una società indebolita e povera
di Carlo Cardia
Le parole del presidente della Camera sull’esigenza che le leggi dello Stato non subiscano il condizionamento di precetti religiosi hanno riaperto il dibattito su una questione cruciale dei nostri tempi, il rapporto tra religione, razionalità, diritto.
Esse evocano in trasparenza un altro concetto, secondo cui la legge non può imporre nulla a nessuno ma deve permettere che ciascuno si comporti come meglio ritiene. Lo slogan di questa concezione è noto, io chiedo l’eutanasia per me ma non voglio imporla agli altri, quindi gli altri non devono limitare la mia libertà, altrimenti la religione condiziona la legge. Questo, non altro, è il cuore del contendere. Alla limpidezza delle formulazioni, però, corrisponde una realtà del tutto diversa. Di precetti religiosi (cioè strettamente confessionali) imposti con la legge in Europa e in Occidente non c’è più neanche l’ombra, e ciò è il frutto di quella laicità positiva che ha reso le Chiese libere di ottenere consensi, e proporre impegni e vincoli che i fedeli liberamente possono seguire o meno. Se, però, si guarda più a fondo – e su queste colonne è già stato fatto –, i nostri ordinamenti giuridici sono pieni di precetti e valori che hanno origine religiosa, e da secoli sono a fondamento del vivere collettivo. Il non uccidere, non rubare, non fare violenza agli altri, non dire falsa testimonianza, può piacere o meno, ma prima che nelle leggi positive sono scritti nel Decalogo (oltre che in comandamenti di altre religioni). Allo Stato non può venire che bene dalla felice contaminazione tra religione e società, perché il diritto è storicamente il frutto di una tensione etica che nasce anche dalla religione e filtra attraverso la ragione per farsi legge. Di più, quel nostro essere attenti alle esigenze altrui, l’accorrere in soccorso dei deboli, di chi soffre, che regoliamo con leggi e regolamenti, e si manifesta nei momenti aspri della vita collettiva, ha precisa radice in quella carità cristiana che diviene solidarietà, apertura agli altri, e ispira il nostro ordinamento. Senza questi fondamenti, religiosi e razionali insieme, la società non reggerebbe, diverrebbe più egoista e povera. Sta qui il nodo centrale che deve pur emergere nella discussione di questi giorni. La religione produce razionalità, rafforza la ragione, mette le basi dell’agire comune. In materia di procreazione, tutela della vita, eutanasia, non esistono precetti religiosi da imporre a livello civile, ma orientamenti ideali, religiosi, etici, che si traducono in scelte e posizioni razionali e chiedono di essere valutati per ciò che sono, ciò che dicono, per i loro effetti. E allora si torna al merito.
È giusto, umano, saggio, stabilire che la fine della vita avvenga per mano d’uomo, diretta o indiretta, o non è importante difendere il valore della vita e soccorrere quanti sono in difficoltà per aiutarli, incoraggiarli, sostenerli nel momento della sofferenza? È giusto considerare l’aborto come ineluttabile, quasi una fatalità sempre più frequente, o non è saggio fare ciò che è possibile perché la scelta a favore della nuova vita sia positiva e gioiosa? Si tratta di precetti e indicazioni religiose?
Certamente, ma sono valori universali che parlano alla ragione e chiedono di essere discussi e valutati, senza che un muro stabilisca ciò che può filtrare e ciò che non può filtrare dall’altra parte, ciò che può ispirare o non ispirare la legge, si tratti o meno di cose buone e giuste. La seconda affermazione è apparentemente più subdola. Se trionfasse il principio per il quale la legge non deve mai proibire, o scoraggiare, ma rendere lecita ogni scelta, si potrebbe subito introdurre la poligamia con lo slogan, io non impongo a nessuno di essere poligamo, ma voglio che gli altri mi lascino fare una famiglia come piace a me. E si potrebbe approvare una legge che ammette il suicidio assistito, evocando lo stesso principio, io non impongo a nessuno di suicidarsi ma voglio semplicemente essere libero di por fine alla mia vita senza che alcun precetto me lo proibisca. L’argomento della libertà, se esposto per slogan, si ritorcerebbe contro chi lo propone perché non saprebbe cosa replicare, e avvertirebbe subito (nel cuore e nella mente) che in questo modo la nostra società si disgregherebbe definitivamente.
Per questo motivo, considerazioni valide nella loro astrattezza, possono riempirsi di contenuti diversi quando sono calate nella realtà sociale e giuridica. Un corretto rapporto tra religione, razionalità, diritto, si sviluppa se si discute apertamente, senza preclusioni, la sostanza dei problemi da affrontare e risolvere. È proprio la religione che negli ultimi decenni richiama gli uomini, i cittadini, il legislatore, a far uso della ragione, non impone nulla ma prospetta scelte che devono essere fatte confrontandosi senza muri o steccati di sorta.
«Avvenire» del 24 maggio 2009

Incontriamo davvero gli «altri» anche per le vie di internet

Giornata delle comunicazioni sociali
di Umberto Folena
Dove sono gli altri? Gli altri, i vicini, i più vicini: il prossimo. Coloro per i quali il nostro cuore palpita, per amore o (è brutto, ma accade) per odio, gli altri da aiutare, gli altri che ci aiutano. Gli altri con il loro universo da scoprire, dolori e sogni, delusioni e speranze. Gli altri che hanno visto cose che noi mai abbiamo visto e ce le raccontano facendocele vedere e sentire e toccare e annusare. Gli altri di cui ci innamoriamo e (è brutto, ma accade pure questo) disamoriamo.
Dove sono gli altri, con cui giocare all’ineffabile gioco della relazione? Grazie alle nuove tecnologie, grazie soprattutto al web, gli altri sono vicinissimi, mai così a portata di mano. Non caso Benedetto XVI, per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali di domani, ha scelto il tema «Nuove tecnologie, nuove relazioni. Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia ». Un’opportunità per tutti coloro che hanno a cuore gli altri, le relazioni, il vivere civile, la felicità. Guai se la Giornata scivolasse nel tunnel che a volte inghiotte altre Giornate, che nessuna traccia sembrano lasciare nelle comunità cristiane, nelle nostre parrocchie.
La posta in gioco è troppo alta. La posta in gioco sono gli altri. La posta in gioco è il ristabilimento delle giuste gerarchie. Lo psicanalista Luigi Zaja, nel suo ultimo libro La morte del prossimo, osserva come nel corso del Novecento gli altri, a poco a poco, si siano trasformati da ' sentimento' in notizie; e infine, aggiungiamo noi, in merce. Nella profezia compiuta del villaggio globale, resa possibile dalla tecnologia, gli altri ci sembra siano più prossimi che mai. Li vediamo nei video, gli altri. Li sentiamo, ci parliamo, stringiamo 'amicizia', e su Facebook sbocciano i collezionisti di amici, politici, artisti e semplici mortali: mille, duemila, diecimila... amici? No, collegamenti.
Tutti stretti gli uni agli altri, sommersi di informazioni sugli altri; eppure il nostro cuore è sempre meno sensibile e meno capace di patire e gioire accanto agli altri. Sembra che si stia materializzando, ma alla rovescia, l’auspicio delle prime righe della Gaudium et spes: oggi come mai siamo in grado di conoscere gioie e speranze e dolori e sogni degli altri, ma mai come oggi ci lasciano indifferenti. Notizie, merci. Ristabilire le gerarchie: la tecnologia, se idolatrata, tende a servirsi delle persone, non a mettersi al loro servizio. Siamo noi a seguire docili e anestetizzati i grandi riti collettivi proposti (imposti?) dalle tecnologie della comunicazione. Il Papa ribalta invece la prospettiva: le tecnologie sono mezzi e le persone fini, non viceversa.
Le nuove tecnologie sono a servizio di relazioni più ricche e profonde, del dialogo e dell’amicizia. Della comunità. Le nuove tecnologie devono far fronte all’individualismo arrembante, non stendergli il tappeto rosso. Eppure, la sensazione è che gli stessi social network, per alcuni 'amici', siano non un luogo di confronto e di dialogo, ma un palcoscenico dove esibirsi, un irresistibile richiamo per i nostri ego ipertrofici: gli altri come spettatori, gli altri come merce a nostra disposizione. Se crediamo di aver soprattutto bisogno di sempre nuove tecnologie capaci di violare lo spazio-tempo accorciando le distanze fino a ridurle a zero, ci sbagliamo.
Ciò di cui la nostra anima e il nostro corpo e la nostra vita hanno bisogno sono le relazioni. Sono gli altri in carne e ossa, pensieri e sentimenti, palpiti e tremori. Gli altri vivi, non certi loro simulacri che si moltiplicano sul web, illudendoci di appartenere a una community globale. Gli altri, dove sono gli altri?
«Avvenire» del 23 maggio 2009

22 maggio 2009

Pirandello / Truman show

- La tragedia d'Oreste in un teatrino di marionette! - venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. - Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis. - La tragedia d'Oreste? - Già! D'après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l'Elettra. Ora senta un po', che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. - Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle. - Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. - E perché? - Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta. E se ne andò, ciabattando. Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l'opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa. L'immagine della marionetta d'Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: " Beate le marionette, " sospirai, " su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.


(tratto dal capitolo "L'occhio e Papiano" del Fu Mattia Pascal, 1904)


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Spezzone finale del film The Truman show, film del 1998, diretto da Peter Weir e interpretato da un eccellente Jim Carrey (premiato con il Golden Globe) che narra una storia in cui il concetto di reality show è portato agli estremi.


Non noti delle analogie molto chiare?


Max Weber addio: l’America si scopre orfana

Saltato il modello, deve darsi nuove regole
Di Giorgio Ferrari
Una banca d’affari le cui azioni fino a un anno fa valevano 170 dollari collassa e si avvia al fallimento a causa degli sconsiderati investimenti finanziari. La rileva una consorella, a soli 2 dollari ad azione. È il capitalismo, bellezza, e tu non puoi farci niente, si potrebbe dire parafrasando la celebre frase di Humphrey Bogart. Peccato che le cose non stiano così: a salvare la Bear Stearns ci si è messa anche la Federal Reserve.
Aiuti di Stato belli e buoni, un soccorso clamoroso che ribalta alla radice il precetto di Max Weber e il suo famigerato L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, su cui l’America e intere generazioni di economisti, amministratori e uomini politici hanno costruito le proprie convinzioni e la propria orgogliosa diversità. Già perché questi affannosi interventi al capezzale delle banche che boccheggiano - interventi, è ovvio, tutti a spese del contribuente, mai a carico dei responsabili - ci trascinano fatalmente in un teatro che conosciamo molto bene: quello dell’economia allegra e irresponsabile di cui il nostro Paese (ma la Francia ci tallona da vicino e in Germania si scoprono bubboni di imbarazzante consistenza) è stato per anni un campione ineguagliato. Seppellito Weber, l’America si scopre orfana del proprio modello economico liberale e viceversa soggiogata da un’assenza di regole che è la causa primaria delle ondate di scandali e di fallimenti che si vanno accumulando da un anno a questa parte, quando la crisi dei mutui subprime (elargiti in totale inosservanza del buon senso e soprattutto mentre le authorities che avrebbero dovuto vigilare guardavano farisaicamente dall’altra parte) ha fatto scoppiare la prima bolla finanziaria. La prima, perché ora ne arrivano altre, a catena, nelle banche, nelle società finanziarie, in tutto quell’ingestibile universo di carta che ora trema nelle sue fragili fondamenta. E diciamo 'di carta' per alludere simbolicamente a quel mare di ricchezza che si muove da uno schermo di un computer all’altro, da un capo del mondo all’altro, senza che nulla di concreto e di reale si possa toccare con mano fino al momento in cui questo forziere virtuale esplode: allora, e solo in quel momento, i debiti diventano reali, le perdite prendono valore e consistenza. Di questo capitalismo pasticcione l’America, che è e rimane un Paese-guida nell’economia mondiale, dovrà forzatamente darsi ragione e trovare un rimedio. Forse accentuando la presenza dirigista dello Stato, forse ripristinando forme accettabili di protezionismo, forse ripensando al ruolo che la finanza ha assunto nel mondo globalizzato. Quanto a noi europei, finora protetti dallo scudo dell’euro senza il quale valute fragili come la lira avrebbero già collassato e svalutato da tempo, la lezione americana dovrebbe indurci a riflessioni ancor più profonde.
Sulla follia di un mercato che traffica in prodotti indecifrabili e incomprensibili per il consumatore medio, al quale tuttavia accolla regolarmente i propri fallimenti. Il risultato è una crisi globale di fiducia, che si innesta a sua volta sulla danza vertiginosa dei prezzi delle materie prime. Se questa è la mano invisibile del mercato di Adam Smith, essa è stata assai pesante.
«Avvenire» del 19 marzo 2008

20 maggio 2009

Nella fabbrica dell’immortalità

È la nuova frontiera della medicina e delle superscienze: la vita eterna. Genetica, nanotecnologie e robotica hanno sottoscritto un patto per creare l’uomo perfetto. Parla lo studioso Andrea Vaccaro
di Roberto Righetto
In un famoso racconto di Arthur Clarke, I nove miliardi di nomi di Dio, due tecnici dell’Ibm sono chiamati in Tibet per compiere per conto dei monaci buddhisti l’impresa di combinare le lettere dell’alfabeto per invocare Dio con tutti i suoi nomi. Impresa che se realizzata avrebbe innescato la fine del mondo. I due esperti di computer svolgono il loro compito svogliatamente ma, proprio mentre se ne vanno, l’universo perde a poco a poco la sua vita... L’intreccio possibile fra spiritualità e tecnologia, da Teilhard de Chardin a Philip Dick, ha affascinato teologi e scrittori e in tempi recenti anche gli scienziati. Fra cui i cosiddetti teorici delle «filosofie dell’immortalità», una corrente di pensiero incentrata sulle grandi scoperte della GNR Revolution, la combinazione di Genetica, Nanotecnologia e Robotica che promette risultati fino a pochi anni fa impensabili, ma che rischia di invadere la sfera fisica e spirituale dell’uomo. Andrea Vaccaro, giovane studioso che qualche anno fa fece discutere per aver scritto il pamphlet Perché rinunziare all’anima?, con chiaro riferimento alle neuroscienze, ora fa un passo avanti nella sua ricerca e manda in libreria sempre per i tipi delle Edizioni Dehoniane di Bologna il volume L’ultimo esorcismo. Filosofie dell’immortalità terrena (pagine 158, euro 14,60), in cui disegna un futuro un po’ inquietante ma su cui cerca di compiere un’analisi serena e non demonizzante. Una vera sfida per la teologia di oggi dinanzi a una possibilità di cui viene addirittura fissata una data, il 2029.
Che cosa si intende per filosofie dell’immortalità terrena?
«È inutile tergiversare: la filosofia dell’immortalità terrena è lo stile di pensiero e di vita di coloro che credono che, nell’arco di venti anni, il progresso scientifico e tecnologico condurrà a vincere le cause di ogni malattia e dell’invecchiamento, in modo tale da permettere all’uomo di restare in vita a oltranza, peraltro in uno stato di salute e giovinezza. Ho sperimentato, per primo su me stesso, che in prima audizione un tale messaggio è quasi repellente e il mittente è liquidato come uno squilibrato o uno a cui piace scherzare. A guardare, però, le menti eccellenti che ci sono dietro, il movimento mondiale di ricerca, il tasso quotidiano delle scoperte rilevanti, la prospettiva comincia lievemente a mutare. Senza considerare gli enormi finanziamenti che vi sono convogliati, perché la vita, oltre a essere un valore sacro, è anche un 'prodotto' che si vende bene. Su queste basi, i filosofi dell’immortalità terrena credono che saremo noi la prossima generazione. Che questo diventi davvero realtà, poi, paradossalmente è irrilevante dal punto di vista filosofico, perché ciò che conta è che l’idea sia già qui tra noi. Dio non era morto realmente quando lo Zarathustra di Nietzsche ne proclamava l’epitaffio, eppure il nichilismo ha permeato di sé un intero secolo».
Quali sono i principali esponenti di questa corrente di idee?
«Negli anni Novanta, John Brockham introduceva la categoria di 'terza cultura', riferendosi a quegli uomini di scienza che uscivano dal loro specifico settore e offrivano al grande pubblico, in modo comprensibile, sia le più recenti acquisizioni del sapere, sia le loro sintesi culturali. Figure a metà tra scienza e filosofia. I maggiori esponenti della filosofia dell’immortalità terrena appartengono a tale categoria. L’autore principale è senza dubbio Ray Kurzweil con il suo illimitato tecno-ottimismo e con il suo libro Fantastic Voyage: Living long enough to live forever ( Viaggio fantastico: vivere abbastanza a lungo per vivere per sempre, ndr). Con i suoi ripetuti titoli di inventore dell’anno, le onorificenze conferitegli dagli ultimi presidenti Usa, primati tecnologici a ripetizione, Kurzweil è un po’ un Leonardo da Vinci tra i computer. La sua rete è anche un terminale di tutte le scoperte che provengono dai laboratori di massimo livello ed è proprio da questa pioggia di progressi quotidiani che deriva, molto probabilmente, la sua previsione estrema. Quella che ripete in più occasioni: 'Io non credo che morirò'».
Kurzweil sembra essere il capofila di questa linea di pensiero: quali sono gli altri protagonisti?
«Penso a Eric Drexler, l’uomo-simbolo della nanotecnologia, che ci solletica con il parallelismo tra lo spazio e il tempo, osservando che abbattere le barriere del tempo oggi appare impossibile come appariva impossibile, negli anni Trenta, che l’uomo potesse andare sulla Luna. Dal versante della robotica, invece, fa sentire la sua voce lo storico co-fondatore del Mit Marvin Minsky, che insegna come sia ormai giunto il tempo che l’umanità si stacchi dalla mano di Madre Natura e prenda, con coraggio e responsabilità, a dirigere il corso degli eventi, tramite il passaggio da un’evoluzione darwinianamente casuale ad una 'selezione innaturale' determinata dalla volontà dell’uomo. Impossibile poi non citare il biogerontologo Aubrey de Grey con la sua fondazione intitolata bizzarramente Methuselah Foundation, che ha sfidato e sconfitto pubblicamente l’intero mondo accademico nel 2005 con la SENS Challenge su Technology Review, ponendo inutilmente sul piatto diecimila dollari a chi avesse dimostrato erronea o infondata, in termini ingegneristici, il suo programma di War on aging, con le strategie per eliminare l’invecchiamento. Dà per scontata l’idea anche Jaron Lanier, il precursore della 'realtà virtuale'. Personalità variegate, dunque, nel cui curriculum, però, brilla una caratteristica comune: quella di aver previsto, ciascuno nel suo rispettivo campo di competenza, il futuro prima degli altri».
E in Italia, quali sono gli epigoni di quello che pare essere un vero incubo, più che una possibilità?
«In Italia l’argomento non è ancora molto pervenuto. Del 2005 è il testo di Boncinelli e Sciarretta Verso l’immortalità? e, più recentemente, Aldo Schiavone lo ha profilato nel suo Storia e destino. Abbiamo poi alcuni siti ben sviluppati, quali Estropico e Beyond human, che offrono generosamente materiali di tale letteratura tradotti in italiano. Ancora, ci sono le reti nazionali associate ad organizzazioni come l’Immortality Institute Humanity Plus, con profilo però più socio-politico che filosofico. Niente di più organico, tuttavia».
Quale intreccio con quello che lei definisce la «GNR»?
«La sigla GNR indica il sodalizio che è venuto a formarsi, nell’ultimo decennio, tra le discipline della Genetica, della Nanotecnologia e della Robotica o Intelligenza artificiale forte. Il motore della GNR revolution è l’applicazione della cosiddetta Legge di Moore all’intero mondo della tecnologia. È come se il tempo accelerasse esponenzialmente. Il Progetto Genoma impiegò tredici anni a sequenziare un intero Dna e fu considerato, appropriatamente, un’impresa enorme, non solo per i quasi cinquecento milioni di dollari profusi; l’anno scorso, la stessa operazione sul genoma di James Watson, il Nobel della doppia elica, ha richiesto solo quattro mesi e circa un milione di dollari. Il Personal Genome Project prevede che, nel 2012, ogni nascituro, nella culla, avrà, accanto al braccialetto con il nome, anche il suo codice genetico, per una spesa modica. A fine 2008, l’Ibm e la National Nuclear Security americana hanno presentato il supercomputer Roadrunner, capace di un milione di miliardi di operazioni al secondo: un numero che la mente umana non può nemmeno raffigurare. Con i microscopi e le apparecchiature varie della nanotecnologia si è ormai capaci di muovere un atomo alla volta e la nanomedicina sperimenta dispositivi che navigano nella circolazione sanguigna con funzione di monitoraggio e rilascio farmaci. Tutto questo legittima la convinzione in forma di slogan secondo cui, in virtù della GNR, 'il futuro non è più quello di una volta'».
Lei accenna a un saccheggio più o meno evidente della visione cristiana del paradiso o comunque delle metafore religiose: in che senso?
«Quello che promettono i filosofi dell’immortalità terrena ricalca in maniera sorprendente ciò che i Padri della Chiesa descrivevano come lo stato dei beati in paradiso: bellezza senza difetto, forza senza infermità, salute senza malattia, giovinezza senza vecchiaia e, soprattutto, vita senza morte. Quello che rende interessante e distingue questa filosofia rispetto agli approcci illuministi e positivisti è però, nella maggioranza dei casi, un atteggiamento di non contrapposizione verso la religione. Essi usano spessissimo i termini 'trascendenza' e 'spiritualità' e, i più accorti, leggono questo percorso dell’umanità verso l’infinito come un processo di conoscenza e trasformazione in cui sono immersi, piuttosto che come un’autonoma e presuntuosa deliberazione dell’essere umano».
Tecnognosi e tecnopaganesimo, tendenze cui lei accenna, possono essere considerati alternativi a una concezione cristiana dell’esistemza?
«Ecco, credo che sia centrale per il nostro discorso il ruolo della spiritualità in questa filosofia. Come detto, i filosofi dell’immortalità terrena affrontano ripetutamente la questione della spiritualità, e non potrebbe essere altrimenti dato che essi vedono bit o pattern informazionali laddove i materialisti vedevano solo atomi. Certo, le diverse correnti danno alla spiritualità peso e significati differenti. I più invasati patiti di cyber-cultura parlano di una sostituzione della religione con una fede nella tecnologia, ma vanno poco oltre l’aggiungere il suffisso 'tecno-' a espressioni di vago sapore spiritualista. I loro argomenti sono piuttosto effimeri. Altri, invece, ritengono che lo sviluppo tecnologico potrà ottenere riflessi positivi anche sulla religione, assicurando di poter diffondere, con adeguate sollecitazioni cerebrali ('neuroteologiche'), esperienze di misticismo che, seppur etero- prodotte, faranno provare al soggetto percorsi estatici che non lo potranno lasciare indifferente. Ci sono molte altre posizioni, da quella che è detta 'spiritualità impoverita' alla 'spiritualità desacralizzata' alla 'spiritualità ingegnerizzata'. I più ragionevoli, infine, mi sembrano quelli che avanzano con lo slogan 'Dio non ha un sito web' ed ammettono che - a fronte di tutte le fantasmagorie che inventeranno - per esperienze di vera spiritualità occorrerà sempre rivolgersi altrove».
«Avvenire» del 20 maggio 2009

Operazione Valchiria, radici cristiane

Parla l’europarlamentare Franz Ludwig von Stauffenberg, figlio del generale Claus autore del fallito complotto contro il Führer
Di Diego Vanzi
«La decisione di opporsi alla brutalità hitleriana è sorta nello spirito della nostra famiglia, dove ha sempre avuto un ruolo preponderante la religione»
Franz Ludwig Schenk von Stauffenberg sarà ospite del festival «èStoria» domenica 24 maggio; l’incontro di Stefano Mesurati con il figlio di Claus Schenk von Stauffenberg, che pagò con la vita il tentativo di eliminare Hitler, sarà preceduto dall’incontro «I misteri di Hitler» in cui dialogheranno Alberto Garlini, Giorgio Galli e Anna Maria Sigmund.
La vicenda del 20 luglio è stata recentemente portata - o meglio riportata - sugli schermi con il titolo «Operazione Valchiria». Ha notato nel film discordanze rispetto a quanto realmente accaduto?
«Si tratta appunto di un film e non di un documentario. Raccontare in solo un’ora e mezzo la resistenza e l’intera vicenda del 20 luglio non sarebbe stato possibile. Posso dire che sotto l’aspetto storico si tratta di un film da apprezzare, migliore di altri film girati sullo stesso tema. Una mia riserva riguarda come la figura di mio padre appaia sempre sulla scena del film e ne faccia quasi un 'one man show'. Forse doveva apparire così. Ma la resistenza è stata molto più vasta, differenziata e rappresentativa della minoranza che appare nel film».
Perché si afferma che la nobiltà tedesca ha ben poco contribuito alla resistenza contro il regime hitleriano?
«Ciò non è affatto vero! È un’affermazione antistorica. Bisogna invece chiedersi perché proprio nel caso del 20 luglio furono implicati tanti nobili e pochissimi uomini dell’amministrazione e dell’apparato statale. Affermare oggi che la nobiltà tedesca ha fallito significa falsificare la storia con scopi ideologici di una falsa socializzazione».
Lei aveva sei anni all’epoca dell’attentato del 20 luglio. Ha qualche ricordo di quei giorni?
«Ricordo che mia madre è venuta da noi bambini e ci ha comunicato che nostro padre era morto. Fu un momento estremamente doloroso. Il giorno seguente la Gestapo la portò via assieme ad un nostro zio. Due giorni più tardi è stata la volta della nonna e di sua sorella. Arrivarono due persone sempre della Gestapo che presero per così dire il comando in casa. Qualche tempo dopo anche noi bambini siamo stati prelevati e portati in un asilo nello Harz. Siamo rimasti lì a lungo, finché una nostra zia, ex superiora della Croce Rossa, dopo la fine della guerra nel giugno del 1945 è riuscita a rintracciarci ed a portarci via».
Gli Stauffenberg sono una famiglia cattolica. Pensa che questo abbia avuto un ruolo nella decisione di opporsi al nazismo?
«Naturalmente la decisione di opporsi alla brutalità hitleriana di mio padre, suo fratello, il cugino e lo zio, tutti poi uccisi, è sorta nello spirito della nostra famiglia, della cultura, dell’educazione e in tutto questo ha sempre avuto un ruolo preponderante la religione. Non solo quella cattolica. Nella famiglia di mio padre c’erano molti protestanti, sua madre era evangelica ma non c’è mai stata tra noi alcuna divergenza. Per noi l’essenziale veniva dalle radici cristiane. Era ovvia l’opposizione contro un regime inumano e criminale. Per quanto riguarda mio padre devo però dire che a volte era piuttosto critico nei confronti della Chiesa ufficiale».
Perché dopo la guerra parte dell’opinione pubblica tedesca non ha visto negli oppositori al nazismo figure degne di ammirazione, anzi talvolta è avvenuto il contrario?
«Ci sono state opinioni diverse. Ci furono molti tedeschi che hanno sofferto per aver dovuto riconoscere al più tardi dopo la guerra di aver servito il Male, di aver seguito le persone sbagliate, che hanno dovuto rispondere del loro passato e hanno avuto difficoltà a riconoscere i meriti dei pochi che si erano rifiutati di obbedire. Ci sono stati però altri che hanno provato profonda ammirazione per questi pochi. Dopo la guerra ho vissuto in campagna nel Baden-Württemberg e non ho mai sentito una parola di rifiuto verso gli oppositori. Più tardi da deputato al Bundestag e poi al Parlamento europeo ho ricevuto sì odiosi messaggi anonimi, sempre e solo anonimi, ma nessuno di fronte a me ha mai offeso la memoria di mio padre. Dunque il rifiuto che c’è stato, e c’è ancor oggi, è per lo più legato ad un vile anonimato ».
Oggi, 65 anni dopo quel 20 luglio, cosa è rimasto del tentativo di abbattere Hitler?
«Quello che resta oggi di un’epoca segnata dall’ingiustizia, dal terrore, dall’illegalità e dalle sciagure è il coraggio di quei pochi come mio padre che non si sono piegati, e agendo contro l’opinione pubblica dell’epoca, hanno tentato di opporsi ad una dittatura totalitaria. Il loro coraggio civile, pagato con la vita, dev’essere ancor oggi degno di ammirazione».
«Avvenire» del 20 maggio 2009

Norma, l'eroina abortista che ora fischia il presidente

L'ex femminista Usa della sentenza storica «Roe vs Wade»
di Alessandra Frakas
Nel 1973 la causa per interrompere la gravidanza. Poi si è pentita
All'inizio del 1970 Norma McCorvey era troppo povera per ottenere un aborto illegale in Texas o per andare in California a procurarsene uno legale. Fu allora che la 21enne squattrinata con in tasca solo la licenza media decise di querelare il Texas, determinando, tre anni dopo, la storica sentenza della Corte Suprema Roe vs. Wade che dal '73 ha reso l'aborto legale nei 50 stati dell' Unione. Trentasei anni più tardi l'ex eroina delle femministe è tra i 37 manifestanti fermati domenica dalla polizia all'esterno dell'università cattolica di Notre Dame, durante il discorso di Barack Obama. «È scandaloso che una istituzione cattolica inviti a parlare un presidente pro-aborto che vuole allargare la ricerca sulle cellule staminali embrionali», spiega al Corriere la McCorvey, che dopo la conversione al cattolicesimo e al partito repubblicano è diventata una delle più ferventi esponenti del movimento pro-life. In realtà lei quell'aborto non l'ha mai ottenuto. «Quando l'iter giudiziario arrivò a conclusione era troppo tardi e avevo già partorito Mariah», racconta la donna, oggi leader del gruppo anti-abortista «Roe No More» di Dallas. La bimba - la sua terza dopo Melissa e Paige che oggi hanno, rispettivamente, 44 e 42 anni - venne subito data in adozione. Da allora non l'ha più rivista. «Negli ultimi 30 anni sono stata contattata da almeno 35 donne che sostengono di essere Mariah. Ma hanno tutte il compleanno sbagliato. Una era addirittura cinese». Durante il processo Roe Vs Wade, Norma sostenne di essere stata violentata. «Lo feci perché pensavo che avrebbe aiutato la mia causa - spiega adesso - ma non era vero: ho mentito». Oggi afferma di essere stata «la pedina nelle mani di due avvocatesse attiviste senza scrupoli, Sarah Weddington e Linda Coffee», che l'hanno usata «per la loro crociata abortista». Durante il tour letterario per il suo primo libro I Am Roe, nel 1994, McCorvey conobbe l'attivista pro-life Flip Benham. Un anno più tardi si convertì al cattolicesimo dopo una vita come testimone di Geova. Il suo battesimo, nella piscina di Benham a Dallas, fu mandato in onda dai Tg nazionali. Due giorni dopo annunciò di aver «sposato interamente» le tesi del movimento pro-life. Una scelta difficile per una donna apertamente lesbica che aveva condiviso ben 25 anni con un' altra donna, Connie Gonzales, ex operaia in una fabbrica di Dallas. «Connie ed io ci siamo lasciate nel '90, prima che io diventassi cristiana - precisa adesso - restiamo ancora ottime amiche anche se oggi condivido le tesi della Chiesa Cattolica e sono completamente contraria all' omosessualità». Un'abdicazione difficile quanto obbligatoria: il 17 agosto 1998 Norma è stata ufficialmente accettata in seno alla Chiesa Cattolica da Padre Frank Pavone, direttore di Priests for Life, una delle massime organizzazioni pro-life del paese. Nel 2005, la McCorvey ha presentato una petizione alla Corte Suprema dove chiedeva la revoca della legge del '73. «Anche se non ho avuto successo - avverte - mi batterò fino alla fine per raddrizzare un torto che io stessa ho aiutato a creare».

La «convertita» Paladina antiabortista Norma McCorvey all'inizio degli anni 70 è una giovane ventenne che, volendo abortire, intenta una causa in Texas contro il divieto di interruzione volontaria della gravidanza allora in vigore in buona parte degli Stati Uniti
Il verdetto Con lo pseudonimo di «Jane Roe» la McCorvey diventa protagonista di una lunga battaglia culminata nel 1973 con la legalizzazione dell'aborto da parte della Corte Suprema: la storica sentenza «Roe contro Wade»
La svolta Nel 1995 McCorvey si converte al cattolicesimo e diventa un'attivista anti-aborto. L'altra sera era tra i manifestanti fermati dalla polizia davanti all'università cattolica di Notre Dame che avevano fischiato Obama in quanto abortista

"Corriere della Sera" del 19 maggio 2009

15 maggio 2009

Il filosofo Dostoevskij: la fede come libertà

Il mondo delle idee di un grande pensatore
Di Giovanni Reale
La Bompiani pubblica nella collana «Il pensiero occidentale» tutto Dostoevskij. Sono già usciti il Diario di uno scrittore, I fratelli Karamazov e in questi giorni escono I demoni e L’idiota. Viene ripresa la grande edizione curata da Ettore Lo Gatto, ma rinnovata. I romanzi hanno il testo russo a fronte (una prima a livello mondiale), e le nuove introduzioni sono curate da Armando Torno, un grande conoscitore del mondo russo. Ma come mai si ripubblica Dostoevskij in una collana di filosofia e non di narrativa? La risposta è semplice: in Italia, Dostoevskij viene considerato dai più un grande romanziere, mentre in Russia lo si considera un grande filosofo. Berdiaev, per esempio, dice: «Dostoevskij fu vero filosofo , fu il più grande filosofo russo». In effetti, i suoi romanzi sono storie di Idee, personificate nei vari personaggi. Idee vive sia nella loro profondità, sia nel loro complesso movimento dinamico-relazionale e nella loro forza. Dostoevskij stesso precisa che le Idee sono quella forza che muove il mondo e scrive: «Nella storia ciò che trionfa non sono le masse di milioni di uomini né le forze materiali, che sembrano così forti e irresistibili, né il denaro né la spada né la potenza, ma il pensiero, quasi impercettibile all’inizio, di un uomo che spesso sembra privo di importanza». Dostoevskij fa con i suoi romanzi ciò che Platone ha fatto con i suoi dialoghi. Il filosofo ateniese ha trasposto sul piano dialettico le due grandi forme dell’arte dei suoi tempi, la tragedia e la commedia (per esempio, il Protagora è una grande e straordinaria commedia, il Gorgia e il Fedone sono due grandi tragedie). Già Nietzsche sosteneva la tesi che «Platone ha dato ai posteri il paradigma di una forma artistica, il modello del romanzo», che sarebbe in sostanza «una favola esopica infinitamente sviluppata». E Dostoevskij ha scelto una forma tipica dell’arte dei suoi tempi, quella del romanzo, per comunicare grandi messaggi filosofici. I suoi personaggi sono incarnazioni di Idee in forma di vere e proprie «icone». In Italia Luigi Pareyson ha ben sviluppato l’interpretazione di Dostoevskij come vero grande filosofo che si colloca al di sopra della mera analisi dell’animo umano a livello psicologico, e lo considera «uno dei culmini della filosofia contemporanea e un immancabile punto di riferimento nel dibattito speculativo del mondo d’oggi». Fra le molte idee che Dostoevskij porta in primo piano nei suoi romanzi, ne ricordiamo quattro: il nichilismo, il male, la libertà e la fede. Per quanto riguarda il nichilismo Pareyson afferma addirittura che il personaggio Ivan dei Fratelli Karamazov esprime l’anima nichilistica in maniera perfetta, perfino meglio di Nietzsche. Il male non è in principio una realtà sostanziale (in senso manicheo). Ma non è neppure solo una «privazione del bene», ossia la scelta di un bene inferiore in luogo di un bene superiore (come voleva Agostino). Il male nasce nell’animo dell’uomo: è una volizione negativa, che, proprio respingendo il bene superiore, si impone come una forza distruttiva che produce il male nella sua reale dimensione. Secondo Dostoevskij la libertà consiste nel riconoscimento e nella volizione del Principio supremo dell’Essere e del Bene, oppure nel rifiuto di esso, con tutto ciò che ne consegue. E quindi è una forza che si distingue dal bene e dal male, i quali si realizzano, in quanto tali, proprio in conseguenza della libertà. Dostoevskij è giunto alla fede passando attraverso il nichilismo, e indagando la autodistruzione di esso. La fede presuppone il dubbio, ed è vera fede solamente se è un continuo e dinamico superamento del dubbio stesso. In risposta ai critici che gli rimproveravano la sua fede in Cristo, diceva: «In fatto di dubbio nessuno mi vince. Non è come un fanciullo che io professo Cristo. Il mio osanna è passato attraverso un crogiolo di dubbi». E in una lettera del 1854 esprimeva la forza veramente dirompente della sua fede: «Arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».

A Milano Due nuove opere Questa sera alle ore 18 alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (ingresso da piazza Pio XI) Giovanni Reale parlerà di «Dostoevskij filosofo». Sono in corso di pubblicazione, nella collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani, tutte le opere di Fëdor Dostoevskij, con testo russo a fronte e i taccuini di lavoro. Oggi escono I demoni e L’idiota. Della conferenza di Reale pubblichiamo il compendio.

“Corriere della Sera” del 14 maggio 2009