27 aprile 2009

Le leggi degli dei e quelle degli stati

Conciliare diritto e morale: un viaggio nella storia delle idee. Le riflessioni di Claudio Magris oggi alla «Biennale» di Torino
Di Claudio Magris
Cicerone. La vera legge è quella alla quale l’uomo non può disobbedire senza fuggire se stesso e rinnegare la natura umana. Da Cicerone a Marx il conflitto tra coscienza e legalità

La democrazia è - certo non soltanto, ma comunque anche - la regola che si basa sul criterio di contare le teste, sistema probabilmente scadente ma, come diceva Einaudi, il meno peggio, visto che l’unica alternativa è quella di spaccare le teste. Ma talvolta può essere vero quello che grida il dottor Stockmann nel Nemico del popolo di Ibsen: «La maggioranza ha la forza, ma non la ragione!». E allora bisogna obbedire alle «non scritte leggi degli dei» anche contro leggi emanate da uno Stato democratico, da rappresentanti di una maggioranza regolarmente eletta. Anche Hitler è arrivato in certo modo legalmente al potere. A questo punto sorge un interrogativo terribile, a sua volta tragico: come si fa a sapere che quelle leggi non scritte sono veramente degli dei, cioè principi universali? Siamo giustamente convinti che l’amore cristiano del prossimo, i postulati dell’etica kantiana che ammonisce a considerare un individuo sempre come un fine e mai come un mezzo, i valori illuministi e democratici di libertà e tolleranza, gli ideali di giustizia sociale, l’uguaglianza dei diritti di tutti gli uomini in tutti i luoghi della terra, siano fondamenti universali che nessuno Stato può violare. Ma sappiamo pure che spesso le civiltà - anche la nostra - hanno imposto con violenza ad altre civiltà dei valori che esse ritenevano universali-umani e che erano invece il prodotto secolare della loro cultura, della loro storia, della loro tradizione, che era semplicemente più forte. E se la maggioranza non ha ragione, come grida Stockmann, è facile cadere nella tentazione di imporre con la forza un’altra ragione, che a sua volta ha solo la forza. La disobbedienza a Creonte comporta spesso tragedie non solo per chi disobbedisce, ma anche per altri innocenti, travolti dalle conseguenze. La coscienza, soprattutto per ribellarsi con fondamento, deve appellarsi a principi che trascendono la contingenza e la relatività di quel momento storico e dell’assetto politico-sociale in cui vive l’individuo che si ribella in nome della coscienza. Esponendo la dottrina stoica del diritto naturale, Cicerone, nel De Republica, parla di una «vera legge, conforme a natura, universale, costante ed eterna... legge alla quale l’uomo non può disobbedire senza fuggire sé stesso e senza rinnegare la natura umana». Questo diritto di natura, che sente l’umanità come comunità universale, passa al Cristianesimo e col Corpus Iuris Civilis «felicemente ordina le cose divine e umane e pone fine all’iniquità», secondo le parole attribuite allo stesso Giustiniano. Col Cristianesimo il diritto naturale si identifica con quello contenuto nel Vangelo e acquista una dimensione ontologica, immedesimandosi con l’ordine della natura creato da Dio, che nessuna legge positiva può violare senza perdere la sua legittimità. Le leggi positive ingiuste, scrive San Tommaso, non sono propriamente leggi e ad esse non è dovuta alcuna obbedienza; anzi, l’uomo onesto ha il diritto e il dovere di ribellarsi contro di esse. In un itinerario complesso e contraddittorio, come sottolineano Alessandro Passerin d’Entrèves e Norberto Bobbio, e in un processo di progressiva laicizzazione, il diritto di natura - attraverso Grozio, Pufendorf e altri - si collega idealmente, pur senza identificarsi con essi, con i diritti civili della modernità liberale e democratica. Per Locke, il filosofo della tolleranza e dei diritti civili, uno Stato autoritario nega la natura stessa dell’uomo. La Dichiarazione americana del 1776 proclama che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà e il perseguimento della felicità; anche quella francese del 1789 parla di diritti inalienabili e sacri dell’uomo. Due dichiarazioni rivoluzionarie, che si accompagnano infatti a due rivoluzioni e teorizzano, come fa esplicitamente l’americana, il diritto alla rivoluzione, proclamando esplicitamente che quando qualsiasi forma di governo calpesti quei principi, è diritto del popolo cambiare o abbattere quella forma di governo. Thoreau teorizzerà la Civil Disobedience, il «diritto alla rivoluzione», come egli dice espressamente, e il primato dell’individuo sullo Stato. Questa libertà etica e politica diviene un modo di essere, una modalità esistenziale e poetica; la libera vita nei boschi di Walden, il fraterno incontro con tutti gli esseri viventi. Ma contro il diritto di natura si levano molte altre voci, le quali contestano la stessa idea di una «natura costante, universale ed eterna». Hume dice che «la parola naturale è comunemente presa in un sì gran numero di significati, ed è di un senso così incerto, che sembra vano il disputare se la giustizia sia o no naturale». Per Hobbes, lo stato di natura non è un idillio arcadico, bensì un bellum omnium contra omnes che deve essere corretto e dunque contrastato dalle leggi. Hobbes scrive invece che «quando non vi erano ancora leggi, non vi era nemmeno ingiustizia; perciò le leggi sono per natura loro anteriori sia alla giustizia sia all’ingiustizia». Anche Leopardi contesta radicalmente il diritto «che si crede naturale» e che invece a suo avviso è «pura convenzione», frutto di «opinione» e di contingenze storiche o errori logici. In questa prospettiva, il nesso fra diritto e morale viene infranto; il diritto naturale viene respinto quale arbitrario dover essere in nome dell’essere, delle cose così come sono e del modo oggettivo di gestirle. Nessuno come Hegel ha disprezzato l’antagonismo «tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è» e dunque il diritto naturale, che egli considera una idealità astratta, inferiore a quella superiore moralità che è l’esistenza concreta dello Stato. E lo Stato, nel suo esercizio della forza e della violenza, può essere giudicato solo dalla Storia, perché solo la Storia universale è il tribunale e anzi il giudizio universale. Questa concezione del diritto s’incontra pure con la letteratura; nella tragedia Agnes Bernauer di Hebbel (1855), pervasa di pathos hegeliano e storicista, la purissima e innocente protagonista e il suo amore vengono brutalmente sacrificati alla Ragion di Stato; i suoi carnefici, come il suocero Ernesto duca di Baviera, venerano la sua dolcissima umanità e soffrono di doverla stroncare, ma ritengono che tale azione e tale colpa siano necessarie e dunque giuste nel quadro di una prospettiva storica che trascende il singolo individuo. «La ruota grande le è passata sopra - dice il duca Ernesto - ora ella è presso Colui che la gira». È interessante notare come il conflitto fra legge, intesa quale istanza superiore e necessaria della Ragion di Stato, e principi etici assoluti, sia affrontata in modo antitetico, per restare nel campo degli esempi letterari, in un dramma di Grillparzer che, nonostante l’anticlericalismo dell’autore, è pervaso dalla tradizione cattolica del diritto naturale: nell’Ebrea di Toledo (1850-51) i nobili spagnoli - che per la Ragion di Stato hanno ucciso la bellissima amante che rendeva ignavo il re, mettendo così in pericolo il Paese - non si pentono di aver commesso quel delitto che essi ritengono necessario, però a loro avviso la sua necessità non lo giustifica ed essi si sentono e dichiarano colpevoli, peccatori e pronti ad espiare: hanno agito - dicono - volendo il bene, ma non il diritto, non ciò che è giusto. Le «non scritte leggi degli dei» ovvero gli inalienabili diritti umani vengono accusati di astrattezza ideologica e moralistica, cui viene contrapposta la realtà della storia e la concreta storicità di ogni condizione umana, inevitabilmente diversa. John C. Calhoun, eminente politologo e uomo politico statunitense della prima metà dell’Ottocento studiato in un notevolissimo libro di Massimo L. Salvadori, attacca l’ideologia egalitaria della Dichiarazione americana del 1776 e in particolare il suo principio secondo il quale tutti gli uomini nascono liberi ed eguali. L’eguaglianza, osserva Salvadori, è per lui «contro natura», una falsificazione che inquina la natura; egli dice dunque anche significativamente che non nascono uomini, bensì bambini, che per lui non hanno ancora diritti. Analogamente, nella Germania settecentesca Justus Möser, il patriarca di Osnabrück, difendeva contro gli illuministi la servitù della gleba e le istituzioni tramandate dai secoli, che stabilivano disuguaglianze d’ogni genere, così come Burke opponeva all’uguaglianza illuminista e rivoluzionaria la diversità dell’uomo storicamente e concretamente determinato. Non a caso Möser difendeva non solo la servitù della gleba, ma anche l’individualità letteraria contro i principi di una Ragione universale pericolosamente uguagliatrice pure del gusto e della fantasia. Ma questi storici conservatori, nemici dell’uguaglianza e talora acuti difensori della diversità, scambiano un dato di fatto per un diritto, come se patire una menomazione o un’ingiustizia non solo non potessero, come talora accade, ma nemmeno dovessero essere corrette, neanche nei limiti del possibile. Anch’essi cadono nell’errore da essi rinfacciato ai giusnaturalisti, perché, respingendo ogni astratto dover essere, fanno di ciò che è, dell’essere, non una constatazione, bensì un precetto, un «dover essere». Calhoun, che considera «contro natura» la liberazione degli schiavi, diventa così una specie di San Tommaso o Thoreau alla rovescia. È forse Marx a unire paradossalmente la critica, anche sprezzante, al giusnaturalismo e un irriducibile «schietto naturalismo», come diceva anni fa Carlo Antoni. Per Marx è la storia, non la natura che deve portare la liberazione. E tuttavia rimane, nel pensiero di Marx, l’ideale di una personalità umana realizzata nella sua pienezza. Anche per lui, come per Calhoun, gli uomini non nascono liberi e soprattutto non nascono uguali. Ma questo fatto non è per lui automaticamente un diritto o meglio la negazione di un diritto, del diritto alla libertà e all’uguaglianza. La crescente negazione del diritto in natura in nome della realtà storica condurrà progressivamente, a partire dal secondo Ottocento, in genere nella cultura europea e in particolare forse in quella tedesca, alla negazione dell’umanità e di ogni universale-umano, come ha visto Ernst Troeltsch.
«Corriere della Sera» del 25 aprile 2009

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