27 aprile 2009

Futurismo 1909 - 2009

Il movimento di Marinetti fa un secolo
di Marco Meneguzzo
Nel gioco della Torre, cosa salvare dell’unica avanguardia artistica italiana? Si salva l’intuizione di un futuro dove la parola conta più dei fatti (vedi pubblicità e Tv) e aver intuito i poteri della fisica; la mitologia della macchina invece appare più che mai stucchevole
Ho sempre pensato che l’esaltazione della macchina sbandierata da Giacomo Balla fosse ben poca cosa di fronte alla rappresentazione che di questa esaltazione lo stesso Balla ne faceva con le sue opere, e che la «bellezza di un automobile» (di genere maschile, allora…) più bella della Nike di Samotracia fosse l’equivalente di una boutade da bar sport: cioè, questo contenuto concettuale – che tutti per comodità considerano come il portato più precipuo del Futurismo – non solo è ridicolmente riduttivo, ma è anche vecchio, ottocentesco come l’«Inno a Satana» (satana in questo caso è la locomotiva) del Carducci. La macchina intesa in questa maniera è figlia del positivismo e non del futuro, di un sistema interpretativo della realtà meccanicistico, lontanissimo dal futuro che fisici e chimici stavano preparando all’umanità in quei primi anni del secolo. Diversa però è la prospettiva se al mito della macchina – perseguito soprattutto da Balla, sublime artista ma scarso teorico, e da Marinetti, in fondo tardoromantico e dandy – si sostituisca il concetto di energia, che porta con sé quasi immediatamente l’idea di 'divenire' : in questo senso, sotto l’egida di Boccioni che ha sempre parlato e dipinto l’energia e quasi mai la macchina, il movimento futurista appare assai più moderno, anzi, contemporaneo. Il 'dinamismo plastico' è, in arte, il corrispondente dell’energia che si fa massa, della teoria einsteniana della relatività, e già basterebbe questa oscura intuizione poetica a rendere il Futurismo degno di essere annoverato tra i grandi del secolo passato.
Ma c’è qualcosa, del Futurismo – che il 20 febbraio 2009 compie cent’anni –, che è ancora più peculiare, che non si affianca a un contesto epocale di cui si fa portavoce artistico, così come la nuova fisica si andava facendo punta di diamante della scienza moderna, ma di cui è integralmente autore e inventore, ed è il concetto di avanguardia, con tutto ciò che questa idea porta con sé come corollario. Può darsi che abbia ragione Giulio Carlo Argan quando dice che l’avanguardia può nascere solo in società fortemente squilibrate dal punto di vista del progresso sociale, tuttavia ciò non toglie nulla alla consapevolezza di aver individuato e addirittura promosso azioni che hanno fortemente inciso sul linguaggio della modernità e della postmodernità, anche al di là del periodo aureo dell’avanguardia e della neoavanguardia, identificabile con gli anni Dieci/Venti e con gli anni Sessanta/Settanta del secolo passato. La volontà di voler incidere fortemente sulla società in fatto di costumi e di comportamento sociale forse è stata relegata nel campo dell’utopia dagli stessi avanguardisti, ma di certo il comportamento 'linguistico' è stato trasformato, e sul lungo periodo questa trasformazione ha cambiato il modo di percepire il mondo. Basti pensare a quanta importanza i Futuristi abbiano attribuito alla 'dichiarazione' più ancora che all’azione, e quanto questa attitudine si sia trasferita immediatamente nel campo della pubblicità e della propaganda: la parola che afferma – o che nega – ha più valore dell’azione corrispondente, che potrebbe anche non seguire, o differire, da quell’affermazione.
Scarsa onestà intellettuale? Ma perché non, invece, coscienza anticipatrice della progressiva smaterializzazione del mondo, che passa dalle cose alle parole, dalla produzione all’informazione? In fondo, Warhol è più vicino a Marinetti di quanto non lo sia Picasso, e forse anche di quanto non lo sia Duchamp, il quale aveva per la parola e per la cosa un rispetto quasi sciamanico. Al contrario, da quella volontà di essere 'popolari', a dispetto di tutte le provocazioni e di tutte le dichiarazioni (ecco messa in atto la prima regola del nuovo linguaggio!), tipica dei Futuristi, deriva un uso cinico del linguaggio estrinseco alla disciplinarietà dell’arte – che viene comunque rispettata dagli artisti futuristi –, viene cioè una certa volgarizzazione che mescola tutti i linguaggi in favore di ciò che oggi si definirebbe 'audience', ma d’altro canto questo stesso atteggiamento costringe anche a rimettere in gioco gli statuti linguistici del mondo e delle sue discipline comunicative, e non una volta per tutte, ma tutti i giorni.
Certe volte penso che l’avanguardia – e la prima è stata senza dubbio quella futurista – sia finita perché oggi tutto può essere avanguardia, e tutto aspira ad esserlo, conclusione cui forse anche gli stessi Futuristi non avrebbero pensato, ma che era già nell’ordine della loro azione che, se non li avrebbe visti proprio felici di questo esito, certo li vede oggi come profetici. Poi, mi consolo pensando che La città che sale di Boccioni o 'Mercurio che passa davanti al Sole' di Balla sono davvero due capolavori!
«Avvenire» del 14 dicembre 2008

Quando l’artista autocosciente fece la rivoluzione

di Philippe Daverio
Il 20 febbraio del 1909 appariva in prima pagina del quotidiano parigino «Le Figaro» un lungo articolo di quattro colonne a pagamento che conteneva il «Manifesto del Futurismo». Artefice dell’operazione, fatta senza alcun complesso di inferiorità da parte d’un italiano allora residente ufficialmente in via Senato a Milano, era Filippo Tommaso Marinetti, nato trentatré anni prima ad Alessandria d’Egitto, diplomato a Parigi e laureato in giurisprudenza a Pavia, poeta. In poco tempo al Manifesto aderirà la fetta più innovativa degli artisti che gravitano attorno a Milano, poi i romani, poi gli europei. L’idea era quella di rompere rispetto alla tradizione polverosa d’un accademia onnipotente, ma nel contempo pure con una società tradizionale carica d’una cultura museale e ginnasiale. L’intenzione era quella d’aderire a tutti gli entusiasmi della modernità meccanica. L’etica era quella ereditata dalle provocazioni anarchiche e conseguentemente, almeno a parole, dall’eccitazione per lo scoppio delle bombe e per la guerra. Nasceva così la prima avanguardia totalmente autocosciente sul vecchio continente, un mito che avrebbe battuto la strada a tante altre avanguardie, da quella russa al dadaismo internazionale. Sorgeva infine un ambiente ardito nelle arti che avrebbe con assoluta incoscienza sposato l’interventismo bellico e poi l’altra successiva rivoluzione della piccola borghesia che divenne fascismo. Alla fine del ventennio fu per un lungo periodo guardato il futurismo con estrema diffidenza. Non se ne voleva affrontare l’intima ambiguità, in fondo così naturale nel carattere italiano. Solo la sua riscoperta da parte dei grandi musei internazionali a partire dagli anni ’50 del secolo scorso ha lentamente sdoganato il movimento pur senza mai riuscire a collocarlo fuori dagli equivoci. L’anno prossimo si celebreranno i cent’anni della pubblicazione del Manifesto. Come talvolta capita quando le riletture critiche avvengono per lo scadere degli appuntamenti più che per volontà reale d’indagine, si aprirà un festival dove la parola d’ordine già apparsa sembra essere quella della massima confusione possibile. Di tutto e di più. È approdata a Roma una mostra già ordinata presso il Centre Pompidou di Parigi che ha, era ovvio, sollevato le prime polemiche. A dir il vero non è la peggiore che vedremo; se non altro le si deve riconoscere l’intenzione di collocare i risultati artistici del primo futurismo nell’ambito delle altre rotture linguistiche che avvengono contemporaneamente in Europa. Ma ne vedremo altre, chi più ne ha più ne metta. Sarà assolutamente necessario porre un distacco 'scientifico' sufficiente dagli eventi d’allora per potere ridisegnare pure la mappa politica nella quale esso nacque e operò in modo da frustrare definitivamente la tentazione di strumentalizzazione e da separare, come abbiamo fatto fra neoclassicismo e impero napoleonico o autocrazia tsarista, fra gotico internazionale e crudeltà borgognone, i valori artistici dalle condizioni politiche nei quali sorsero. Ma come si fa nella storia dell’arte seria, una volta accertati i valori, con la fredda capacità di tenerli correlati con l’ambiente e le circostanze. Servirebbe a capire meglio chi siamo realmente, noi abitanti della penisola.
«Avvenire» del 14 dicembre 2008

Il peso delle parole diventi un battito d’ali, come in Leopardi

di Rosita Copioli
All’inizio, in ogni poeta c’è un suono.
Scrive Leopardi: « Io stesso mi ricordo di avere appreso coll’immaginazione d’un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo » . È la ripresentazione di un’esperienza forse ancora più remota della nascita, come la memoria della vibrazione sonora della Voce, Vâc o Logos, che origina l’universo.
Insieme alle sensazioni di bellezza paradisiaca, immortale, che rivelano il meraviglioso dove l’immaginazione non ha confini, e si partecipa senza fine con le cose, quel suono degli inizi è la prima percezione della felicità assoluta che è seme di ogni poesia, anche della più dolorosa: « io ... mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui » . La volontà inconscia di riprodurre quel suono miracoloso e inarrivabile, fonda la differenza tra la poesia e la prosa. La poesia ha necessità di perfezione, di una musica esatta, fatta di misure e calcoli infinitesimali. Tanto più sottrae e limita il dire, quanto maggiore desiderio, e senso più profondo contiene. La vastità di tutto ciò che i versi omettono, deve continuare a vibrare attraverso i vuoti. Dalle vibrazioni dei vuoti si forma l’aura che distingue la vera poesia. Ciò accade anche nelle forme più ondose dei poemi, e perfino nelle poesie scritte di slancio, giambiche, ditirambiche. È quasi il contrario rispetto alla prosa. Certo anche la prosa ha le sue musiche, con leggi sempre variate. Ma la poesia ubbidisce a quel primo suono assoluto, che esclude ogni rumore e ogni altra musica, che spinge verso una scrittura simile a una proiezione astrale, e fissa il firmamento nelle parole. Una cosa difficile, che richiede non solo la precisione dell’artigiano, ma l’invasamento, e l’aderenza a un indefinibile punto lontano, irraggiungibile.
William B. Yeats descrisse William Morris furioso contro l’attore che aveva letto i suoi versi come fossero prosa. Yeats era più esigente, quando dichiarò che voleva scrivere una poesia « fredda e appassionata come l’alba » .
Elaborò una sintassi potente e appassionata, una coincidenza di pensiero e stanza in versi apparentemente tradizionali: solo una voce impersonale come una norma inconscia, poteva evocare la presenza del soprannaturale.
L’immaginazione doveva danzare, trasportata al di là del sentimento, fin dentro il ghiaccio delle origini. Chi ascoltava si sarebbe trovato nello stato tra sonno e veglia che i greci attribuivano all’incantesimo di Ermes (thélgein). Yeats fu uno dei rarissimi poeti che furono sovrani sia nell’incanto di Ermes, sia nella possessione del piacere assoluto, proprio della poesia di Apollo ( térpein).
Nella poesia italiana, Dante e Petrarca si sono intrecciati come le radici di un albero ramificato in molte lingue, e in molte musiche. Dante trascorre in tutte le direzioni delle realtà, imitando il movimento che Dio ha impresso al cosmo. Non teme né l’infimo né l’altissimo, né il tempo né gli spazi ultraterreni, ed è capace di trarre ogni musica solo dal proprio petto, dilatato a misura dell’universo. Petrarca riflette sempre il proprio volto, pingue e malinconico, toccando un’unica corda: ma con quale precisione retorica, con quale sapienza dei sensi e dell’intelletto la modula, inventando la musica dell’anima, che ha ipnotizzato l’Occidente fino ai nostri giorni.
Ungaretti, che pensava a Petrarca e ai barocchi, a Mallarmé e a Bergson mentre leggeva Leopardi, segnalò nel naufragio dell’illusione romantica di abbracciare il tempo infinito, e nel conseguente senso del vuoto, il luogo della liberazione dai pesi, e quello delle rinascite: nell’equilibrio tra carico e spogliazione, l’enigma della leggerezza.
Leopardi ne era l’emblema: aveva trasferito il peso delle disillusioni nella lontananza, nella sostanza immateriale dell’aura. Come avrebbe osservato Italo Calvino, il suo miracolo fu « di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare » .
Lo stile della poesia è una forma della metafisica, un equilibrio quasi impossibile, che ancora giunge da Petrarca, prosciugato da ogni ridondanza: « Leopardi, come il Tasso, ha tolto all’endecasillabo ogni rimbombo, ogni lusso, ogni esteriorità, l’ha reso, direi, silenzioso. È poesia per sognarci sù, e non per declamatori. In essa la mente ascolta l’anima. Da un canto del Leopardi è difficile staccare un verso, sarebbe senza vita come un dito strappato a una mano. Il suo verso è semplicemente ciò che i vecchi trattatisti chiamavano ' l’aere del canto'. E quest’' aere' pare non muoversi, tanto ne sono dissimulati i palpiti.
Il volo è altissimo; sono fusi i battiti dell’ale » .

«Avvenire» del 1 febbraio 2009

C’è chi fugge dalla storia come Rimbaud nell’Africa nera e chi canta il Grande Nulla

di Giancarlo Pontiggia
Si sente spesso dire che la modernità, fondata com’è sulla necessità di una comunicazione rapida e semplice, su valori di natura esclusivamente emotiva, escluda la tensione di una scrittura retoricamente e stilisticamente – se non concettualmente– troppo impegnativa, com’è la poesia; e si sente spesso dire, all’opposto, che il mondo è troppo vasto e complesso per una forma, come quella poetica, fondata sulla sintesi, incapace dunque di ramificarsi e di espandersi nell’infinita varietà dei pensieri e delle situazioni cui il mondo ci obbliga. Tali osservazioni sono a tal punto divenute luogo comune della conversazione, che molti poeti contemporanei hanno sentito il bisogno di muoversi verso la prosa ( La poesia verso la prosa è d’altronde il titolo di uno dei saggi più impegnativi di Alfonso Berardinelli), quasi volessero nascondere l’essenza stessa del verso conservandone soltanto lo scheletro visivo, il movimento del puro andare a capo, ma negando ad esso tutto ciò che è stato il fondamento di ogni poesia: l’alleanza tra suono e senso, tra pensiero e immaginazione.
Intanto bisognerebbe chiedersi chi le dice, queste cose, e perché: non sempre siamo disinteressati, quando vogliamo dimostrare qualcosa, e spesso le nostre teorie sottintendono ragioni private.
Come gli amanti respinti, che sparlano delle donne che non possono avere, molti negatori della poesia, e soprattutto di certa poesia, sembrano animati da un rancore personale: sviliscono ciò che non è loro dato; irridono a coloro che l’hanno ottenuto.
Altri, poi, esprimono un livore che è figlio di un’ideologia giovanile: la giovinezza ci abbandona, la storia muta, ma noi continuiamo a restare fedeli a quell’aura lontana, quando eravamo dominati dai furori antiborghesi, e la poesia ci pareva confinata nelle assai sospette stanze della sovrastruttura. Niente è più terribile di ciò che resta in noi inconcluso, per ragioni pubbliche o private. Che la poesia sia morta, come il romanzo o chissà che altro, appartiene in fondo all’ordine delle profezie che piacciono perché ci fanno immaginare grandi palingenesi: come se la nostra vita non ci piacesse, e volessimo altro da quello che abbiamo.
C’è poi un terzo ordine di negatori della poesia: i figli della presunzione, dell’inquietudine modernista, ben rappresentati dalle avanguardie, storiche e non: quelli, insomma, che iniziano incitando a bruciare i musei, e finiscono col pennacchio in testa nelle accademie fasciste. L’elogio della modernità a tutti i costi, quando non è il prodotto di un avventurismo senza scrupoli, può nondimeno nascere dalla presunzione – spesso adolescenziale – di aver compreso tutto: Rimbaud fu il campione indiscusso di questa genealogia, e anche il più grande, l’unico – forse – ad essere coerente con se stesso, scegliendo di sparire al momento giusto.
Quel geniale giovanotto dal volto così nobilmente ovale, che aveva preso sulle ginocchia la bellezza, ingiuriandola, aveva anche saputo voltare le spalle all’Europa e all’Occidente. Lo si ama ancora, lui e nessun altro, proprio per questo; perché ci sono due soli modi di coerenza, nel mondo, che andranno onorati: o credi in coloro che hanno fatto cose grandi e sublimi, e pensi che dalla loro grandezza possa discendere anche la tua; oppure non ci credi, e volti le spalle a tutto, scegli di andartene dalla storia, di rientrare in un’Africa nera della volontà che non ha più a che fare con la poesia come con le stanze confortevoli di una città, con i diritti dell’uomo, e con tutto quello che ne discende.
C’è infine, forse il più insidioso, un quarto genere di nemici, sia pure paradossali, della poesia: e sono coloro che la innalzano e la assolutizzano a tal punto, da trasformarla in una sorta di fortino o di eremo sacerdotale, spesso votato alla percezione del Grande Nulla. Per questi poeti non si dà né bene né male, né bello né brutto: la poesia esclude legami, parentele, connessioni, finalità; è pura rappresentazione di sé, volta al silenzio e all’indicibile: compimento di un destino che dovrebbe prevedere, se volessimo andare fino in fondo, l’atto estremo: la cancellazione di ogni parola.
Personalmente, pensiamo che l’uomo assomigli sempre a se stesso, e che nessuna storia possa togliergli, se non per poco tempo – per quella misteriosa eccitazione, che tocca certe epoche, di vendicarsi del proprio passato e di ribellarsi alla propria condizione –, quello che gli appartiene per natura: la brama del divino, la tensione a un ordine umano e intellettuale fondato sulla verità, il bisogno di bellezza, il desiderio di un sapere organico e non casuale. La poesia è sempre figlia di queste necessità: nasce prima della prosa, non a caso, in ogni civiltà, perché racchiude in sé il sogno di una parola meditata e conclusa, che sappia narrare favole assolute, ragionare della vita, esprimere fulminee verità di ordine esistenziale, rappresentare il destino, ridere dei nostri difetti. I Greci, questo popolo stupefacente dal quale è giunto tutto ciò che serve alla vita dell’anima e della mente, seppero disegnare una grande varietà di forme poetiche (epos guerresco e avventuroso, epos didascalico e filosofico, lirica, tragedia, commedia), cui aggiunsero la prosa, anch’essa splendidamente declinata in forme molteplici e variegate: poiché esistono argomenti, come essi presto intuirono, che necessitano di un pensiero ampio e analitico, racconti che devono essere lunghi e liberi da ogni vincolo. La prosa non è contro la poesia: la prosa è ciò che non è la poesia, e che la poesia non può fare. Negare l’una sarebbe come negare l’altra. Sia onorato chi difende la poesia, facendola o studiandola: i poeti che – e sono oggi tanti – pretendono di snobbare gli studi (salvo, naturalmente, quelli che li riguardano), cancellano soltanto la poesia che essi stessi fanno. Ma saranno veri poeti coloro che non comprendono la bellezza e la verità degli studi?
«Avvenire» del 1 febbraio 2009

Ma tra pesia e prosa il ponte esiste: l’epica

di Roberto Mussapi
Domenica è apparsa su «Agorà» una pagina così intensa da farmi pensare a un anacronismo, per la radicalità con cui la questione della poesia è posta nella sua essenza, in relazione al mondo, sulle pagine di un quotidiano. Come accadeva, e non sovente, un tempo, quando ero bambino. Due delle personalità di maggior spessore della loro e mia generazione (quella che alle soglie del terzo millennio ha cambiato la poesia italiana), Giancarlo Pontiggia e Rosita Copioli affrontano la questione della poesia rispetto alla prosa, con la disarmante semplicità dei saggi e la calma incandescenza che l’argomento esige. Mentre Copioli ci offre una straordinaria radiografia della poesia nella sua relazione con il corpo della realtà, Pontiggia parte dai ripetuti, malevoli e frustrati vaticini sulla morte della poesia stessa: vaticini interessati, spiega bene, la volpe e l’uva, quella donna non mi piace perché in realtà non mi ha mai degnato di uno sguardo. Si sofferma anche sulla cronaca nera (ma lo comprendo, è quella che occupa la maggior parte dell’informazione, anche culturale), con riferimenti ad aspiranti protagonisti che terroristicamente rifiutano addirittura i libri, gli studi, in nome di un delirio graffitaro che ha la sua origine nella civiltà del personaggio e del sensazionalismo. E soprattutto, tornando al cuore della questione, chiarisce come lo spostamento verso la prosa sia un problema di singoli autori, da indagare seriamente caso per caso, e come la poesia, nella sua essenza anche storica (vale a dire la sua esistenza antropologica, il suo apparire sulla scena del mondo) costituisca una sintesi narrativa assoluta e bruciante, insostituibile. Facente parte del nostro Dna, aggiungo.
Esiste un «Homo poeticus» come è stato riconosciuto l’«Homo religiosus» di Julien Ries. E si assomigliano, questi due aspetti dell’uomo neonato sul pianeta: rito e poesia convergono in una naturale celebrazione delle forze, soffrono in una consentanea disperazione della finitudine.
Vorrei però soffermarmi su un aspetto centrale della questione, il rapporto tra poesia e narrazione.
All’inizio, in ogni poeta c’è un suono, come scrive Rosita Copioli.
Questo suono prende forma, non arbitrariamente, ma facendosi custode di svelamenti. La poesia, dice bene Pontiggia, è esperienza assoluta, insostituibile. Ma aggiungo, sin dalla sua nascita, narrante. La poesia all’inizio è cantata o declamata con musica, e racconta. I tre generi, lirico, drammatico, epico, si alternano ma spesso convivono. Parlare di fine della poesia è insensato, ma sostenere la necessità storica, in Occidente, di una sua rifondazione omeopatica (cioè sempre nel fuoco ineludibile della lirica, che della poesia è il combustibile), può essere utile.
Parlo per scelta e esperienza personale. Nel 2000 pubblicai «Antartide», un poema, di viaggio, avventura, angoscia, ritorno. Un poema che cercava l’epica e il teatro all’interno della trama lirica. Poco dopo la pubblicazione lessi una lezione americana di Borges, che al tempo mi era sfuggita, della fine degli anni Sessanta: la narrativa declina verso il minimalismo, scriveva, la poesia non può proseguire nella pura lirica. È forse il tempo che il poeta riprenda il ruolo dell’antico narratore che cantò una città bruciata, i drammi dei suoi abitanti e dei suoi nemici. Non si sta parlando di prosa, di abbassamento stilistico, ma di recupero del racconto, dell’epos.
Questa può essere una via. Non l’unica, ma una via in cui credo.
Non lo scivolamento nella prosa ma il recupero dell’epos. Che in fondo è un altro manifestarsi dell’evento, di quel racconto assoluto che brucia il tempo, nel verso.
«Avvenire» del 3 febbraio 2009

Ma tra pesia e prosa il ponte esiste: l’epica

di Roberto Mussapi

Domenica è apparsa su «Agorà» una pagina così intensa da farmi pensare a un anacronismo, per la radicalità con cui la questione della poesia è posta nella sua essenza, in relazione al mondo, sulle pagine di un quotidiano. Come accadeva, e non sovente, un tempo, quando ero bambino. Due delle personalità di maggior spessore della loro e mia generazione (quella che alle soglie del terzo millennio ha cambiato la poesia italiana), Giancarlo Pontiggia e Rosita Copioli affrontano la questione della poesia rispetto alla prosa, con la disarmante semplicità dei saggi e la calma incandescenza che l’argomento esige. Mentre Copioli ci offre una straordinaria radiografia della poesia nella sua relazione con il corpo della realtà, Pontiggia parte dai ripetuti, malevoli e frustrati vaticini sulla morte della poesia stessa: vaticini interessati, spiega bene, la volpe e l’uva, quella donna non mi piace perché in realtà non mi ha mai degnato di uno sguardo. Si sofferma anche sulla cronaca nera (ma lo comprendo, è quella che occupa la maggior parte dell’informazione, anche culturale), con riferimenti ad aspiranti protagonisti che terroristicamente rifiutano addirittura i libri, gli studi, in nome di un delirio graffitaro che ha la sua origine nella civiltà del personaggio e del sensazionalismo. E soprattutto, tornando al cuore della questione, chiarisce come lo spostamento verso la prosa sia un problema di singoli autori, da indagare seriamente caso per caso, e come la poesia, nella sua essenza anche storica (vale a dire la sua esistenza antropologica, il suo apparire sulla scena del mondo) costituisca una sintesi narrativa assoluta e bruciante, insostituibile. Facente parte del nostro Dna, aggiungo.
Esiste un «Homo poeticus» come è stato riconosciuto l’«Homo religiosus» di Julien Ries. E si assomigliano, questi due aspetti dell’uomo neonato sul pianeta: rito e poesia convergono in una naturale celebrazione delle forze, soffrono in una consentanea disperazione della finitudine.
Vorrei però soffermarmi su un aspetto centrale della questione, il rapporto tra poesia e narrazione.
All’inizio, in ogni poeta c’è un suono, come scrive Rosita Copioli.
Questo suono prende forma, non arbitrariamente, ma facendosi custode di svelamenti. La poesia, dice bene Pontiggia, è esperienza assoluta, insostituibile. Ma aggiungo, sin dalla sua nascita, narrante. La poesia all’inizio è cantata o declamata con musica, e racconta. I tre generi, lirico, drammatico, epico, si alternano ma spesso convivono. Parlare di fine della poesia è insensato, ma sostenere la necessità storica, in Occidente, di una sua rifondazione omeopatica (cioè sempre nel fuoco ineludibile della lirica, che della poesia è il combustibile), può essere utile.
Parlo per scelta e esperienza personale. Nel 2000 pubblicai «Antartide», un poema, di viaggio, avventura, angoscia, ritorno. Un poema che cercava l’epica e il teatro all’interno della trama lirica. Poco dopo la pubblicazione lessi una lezione americana di Borges, che al tempo mi era sfuggita, della fine degli anni Sessanta: la narrativa declina verso il minimalismo, scriveva, la poesia non può proseguire nella pura lirica. È forse il tempo che il poeta riprenda il ruolo dell’antico narratore che cantò una città bruciata, i drammi dei suoi abitanti e dei suoi nemici. Non si sta parlando di prosa, di abbassamento stilistico, ma di recupero del racconto, dell’epos.
Questa può essere una via. Non l’unica, ma una via in cui credo.
Non lo scivolamento nella prosa ma il recupero dell’epos. Che in fondo è un altro manifestarsi dell’evento, di quel racconto assoluto che brucia il tempo, nel verso.

«Avvenire» del 3 febbraio 2009

Rifiuto delle cure, principio morale? No, è lo smarrimento del laicismo moderno

Obiezione al sempre più sorprendente Stefano Rodotà
di Francesco D’Agostino
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge: così la Costituzione italiana all’articolo 32, secondo comma. Per molti commentatori, questo comma dovrebbe indurci a prendere atto che la Costituzione intende riconoscere un diritto umano fondamentale, quello al rifiuto delle cure. Ma si tratta di un’interpretazione che oramai molti commentatori ritengono troppo ristretta: a loro avviso, partendo dallo stesso articolo costituzionale, si dovrebbe arrivare ad ammettere che la persona, oltre al diritto di rifiutare qualsiasi terapia, sarebbe titolare di un diritto, 'di spessore costituzionale', all’autodeterminazione in materia sanitaria. Né ci si ferma qui, nel leggere un testo, come si è visto molto sobrio e molto breve, che è stato ritenuto per decenni dai costituzionalisti semplicemente come un argine contro indebiti, pur se improbabili, atti invasivi della medicina. Si sta infatti ormai giungendo, partendo da quella breve formula costituzionale, a vedere nel rifiuto delle cure, e quindi perfino in quel rifiuto che può ineluttabilmente portare alla morte, 'il caposaldo della stessa soggettività morale' (si veda l’incredibile articolo di Rodotà su Repubblica del 22 febbraio, a pagina 25). Poiché da tutte le parti si esorta a non confondere il diritto con la morale e meno che mai con la religione, penso che sia forse giunto il momento di rimettere le cose al loro posto, cominciando a chiamarle con il loro nome. Se si vuole esaltare il rifiuto delle cure come scelta di libertà, si rifletta prima di quale tipo di libertà si sta parlando. Mettiamo da parte situazioni strazianti ed eccezionali, nelle quali la stessa libertà di autodeterminarsi da parte di una persona può far nascere dubbi fondati: se il rifiuto delle cure è un diritto fondamentale di libertà, esso può essere, anzi, andrebbe esercitato con fredda lucidità, con irremovibile determinazione, col minimo di emotività. Di quale libertà, allora, stiamo parlando, se non della libertà di chiudersi in se stessi, di interrompere le relazioni con gli altri, di fuoriuscire dal mondo delle relazioni e degli affetti? È una dimensione della libertà, questa, che possiede un connotato freddo, tragico e solitario. Non c’è dubbio che abbiamo il dovere di rispettarla. Ma non c’è nemmeno da dubitare che abbiamo anche, e nello stesso tempo, il diritto di biasimarla, in quanto, ripetiamolo, lucida, fredda, irremovibile. Se infatti esiste un caposaldo della stessa soggettività morale questo non consiste nella freddezza, ma nel calore; non nella chiusura, ma nell’apertura; non nel dire di no al mondo, ma nel dirgli di sì, non nel sottrarsi, ma nel chiedere l’abbraccio dell’altro. Il senso morale implica posporre i propri interessi e le proprie esigenze ai bisogni e alle necessità altrui, fino all’estremo del sacrificio di sé. Non c’è alcun dubbio che il diritto esige molto, molti di meno dagli uomini: esso legittima anche comportamenti e pratiche egoistiche, purché innocue per il prossimo. Qui però sta appunto la differenza tra diritto e morale: quello che il diritto, nella sua freddezza, non osa e non può pretendere, la morale osa invece pretenderlo, anzi lo esige. Il diritto è custode dell’equilibrio delle relazioni, della simmetria nei rapporti, del bilanciamento degli interessi; l’etica, al contrario, aborre sottili equilibri e prudenti ponderazioni. Essa mi insegna che, se l’altro ha un’esigenza, io, se sono in grado, ho il dovere di aiutarlo a soddisfarla. Forse, in cambio, otterrò la gratitudine di colui per il quale mi sono operato; forse in cambio otterrò invece indifferenza e a volte perfino ostilità.
Calcoli del genere sono psicologicamente inevitabili, tanto quanto moralmente irrilevanti, perché l’etica è in primo luogo positività e assoluta gratuità. Che il laicismo contemporaneo arrivi a vedere in quella tragica forma di negatività che è il rifiuto delle cure un principio, anzi, il principio stesso della morale, dimostra a sufficienza lo smarrimento di tanta parte del sentire comune di oggi.
Uno smarrimento tanto più grave in quanto, invece di concretizzarsi in atteggiamenti di dubbio, di esitazione, di prudenza, paradossalmente dà luogo ad atteggiamenti di fredda determinazione, come la determinazione di chi ritiene doveroso offrire a chi vuole uscire da questo mondo tutti i conforti di una raffinata medicina, capace sì di curare, ma anche di rendere 'dolcissima' la morte (come appunto si è ritenuto che potesse e dovesse essere la morte di Eluana). Porre la freddezza della tecnica al servizio di una volontà di non essere più: qui il richiamo alla soggettività morale e all’omaggio che dovremmo prestarle non c’entra proprio nulla. Questo è lo specifico connotato del nichilismo moderno.
Avvenire del 25 febbraio 2009

Il corpo come luogo pubblico

di Stefano Rodotà
Con il passare dei giorni si fa più netta la natura del conflitto intorno al tema del testamento biologico, che nella prossima settimana verrà discusso al Senato. Nel fuoco delle polemiche che hanno accompagnato le ultime giornate della vita di Eluana Englaro sembrava che una legge dovesse avere una finalità precisa, quella di risolvere le due questioni che avevano appassionato e diviso l' opinione pubblica: le modalità del testamento biologico, per eliminare ogni dubbio sull' effettiva volontà della persona; e l' ammissibilità della rinuncia all' idratazione e alla alimentazione forzata. Ma il disegno di legge della maggioranza ha reso manifesta un' intenzione diversa, più generale, e tanto più inquietante perché incide profondamente sui diritti fondamentali della persona, e così altera lo stesso quadro costituzionale. Ciò di cui si discute è il rapporto della persona con il suo corpo, dunque l' area più intima e segreta dell' esistenza, alla quale la politica e la legge dovrebbero accostarsi con rispetto e prudenza, consapevoli che vi sono aspetti della vita che la Costituzione ha messo al riparo da ogni intervento esterno, che ha voluto intoccabili. Negli ultimi anni, invece, in Italia si è venuto consolidando un orientamento diverso, che descriverei ricorrendo al titolo di un libro di Barbara Duden: Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull' abuso del concetto di vita. Del corpo della donna il legislatore si è pesantemente impadronito con l' autoritaria e proibizionista legge sulla procreazione assistita, negando la libertà femminile e creando davvero quel far west legislativo che si diceva di voler combattere. Oggi, infatti, migliaia di donne emigrano ogni anno in altri paesi per sfuggire agli assurdi divieti di quella legge, obbligate a pesanti costi finanziari e umani, mettendo pure a rischio la salute loro e dei figli che nasceranno. Ora si vuole far diventare "pubblico" il corpo di tutti noi. Il rifiuto di cure, diritto ovunque riconosciuto e caposaldo della stessa soggettività morale, viene sostanzialmente negato dalla proposta della maggioranza. La sorte del corpo nel tempo del morire è sottratta alla libera decisione dell' interessato, viene affidata ad un medico investito del ruolo di funzionario di uno Stato etico che, appunto, ha proceduto alla "pubblicizzazione" del corpo. Il testamento biologico diviene un simulacro vuoto, una formula che contiene il suo opposto. Si obbligano le persone ad un infinito iter burocratico, con obblighi continui di recarsi dal notaio, di chiedere firme del medico, di effettuare rinnovi periodici. Tutto questo per approdare al nulla. Il delirio formalistico non produce una volontà da rispettare, ma un "orientamento" che il medico può ignorare del tutto. E non solo viene esclusa la possibilità di rinunciare a trattamenti come l' alimentazione e l' idratazione forzata. Si finisce con il sottrarre alla libera scelta delle persone materie nelle quali il rifiuto è stato finora riconosciuto, dalla trasfusione di sangue alla dialisi, all' amputazione di un arto, al ricorso a tecniche meccaniche e farmacologiche. Non è di una vicenda specifica, sia pur rilevantissima, di cui dobbiamo preoccuparci. Siamo di fronte ad una ideologia riduzionista del senso e della portata dei diritti fondamentali, che vuole impadronirsi dell' intera vita delle persone. Del nascere si è già impadronita, ora vuole farlo per il morire, e pone pesanti ipoteche sul vivere, come accade quando si rifiuta ogni riconoscimento alle unioni di fatto. Mettendo così le mani sulla vita delle persone, si mettono pure le mani sulla prima parte della Costituzione che, a parole, si continua a proclamare intoccabile. Si manipolano principi fondativi del nostro sistema, che la Corte costituzionale ha dichiarato immodificabili. E tutto questo avviene mentre tutte le rilevazioni ci dicono che la maggioranza dei cittadini interpellati ritiene che proprio le decisioni sulla vita debbano rimanere patrimonio dell' interessato e della sua famiglia. Si apre così non solo una questione di rispetto della Costituzione, ma di rappresentanza politica. Molti, sempre di più e più spesso, si riuniscono, scendono in piazza. In quali luoghi della politica ufficiale arriverà questa voce?
Repubblica del 23 febbraio 2009

Chi salva i bimbi dagli spot?

«I bambini fanno vendere e il marketing punta su di loro, usandoli e blandendoli»: il j’accuse del pubblicitario Paolo Landi
Di Rossana Sisti
La pubblicità non è una cosa da bambini. Più chiaro e diretto di così l’avvertimento non poteva essere. A ben analizzarlo il monito è anche più duro, un allarme del tipo: salviamo i bambini dalla pubblicità esattamente come li metteremmo al sicuro da una guerra; salviamoli dalla macchina da guerra del marketing che li bersaglia, li bombarda con un gioco di spot, mode e desideri tutti uguali e li trasforma in avidi e replicanti consumatori. Poiché questa guerra da anni la combatte in prima linea – come direttore della pubblicità di Benetton e anche come docente di Comunicazione e mercato al Politecnico di Milano – Paolo Landi sa bene di cosa parla quando cerca di convincere genitori, maestri ed educatori a tener fuori dall’orizzonte dei bambini il mondo delle merci e dell’omologazione, a non cedere alla tentazione intellettualistica di voler spiegare ai più piccoli i meccanismi della pubblicità, di smontare gli spot per vedere cosa c’è dietro. Semplicemente « perché non c’è proprio niente da smontare in uno spot pubblicitario che ripropone la sua forza nella capacità di colpire emotivamente e irrazionalmente chi lo guarda, sia egli un adulto o un bambino » . Non è un attacco alla pubblicità il nuovo libro di Paolo Landi intitolato proprio La pubblicità non è una cosa da bambini – in questi giorni in libreria ( La Scuola, pagine 96, euro 8,50) – nel solco e nello stile dei pamphlet con cui ama sorprenderci, prima a proposito della tv poi di internet. Né lui si dichiara pubblicitario pentito.
Tutt’altro, ma rivendicandone la bellezza e l’utilità, con altrettanta passione, il pubblicitario si arroga il diritto di criticarla fino in fondo con l’onestà del professionista e la coscienza dell’educatore da cui non può prescindere. Accennando a una delle accuse più cordiali che gli vengono rivolte – « Lei è uno che sputa nel piatto in cui mangia » –, replica: « Solo chi conosce può criticare, solo chi sa può intervenire. E la diagnosi di uno specialista – medico ma anche idraulico – vale di più » . La pubblicità vuole i bambini in riga come soldatini da addestrare a mettersi in marcia docili e obbedienti agli imperativi del consumo? « Che in guerra ci vadano i grandi – sostiene Landi – perché i bambini vanno lasciati crescere e giocare nella pace » , cioè lontano dai valori materialistici e dalla cultura del consumo, rispettati nel loro diritto a essere bambini. Gli adulti devono capire che la pubblicità punta sui bambini, perché i bambini, come gli animali, fanno vendere: fanno breccia nelle emozioni degli adulti e spingono i coetanei all’emulazione. Aprono mercati interessanti e la pubblicità li usa doppiamente e li blandisce con un universo di prodotti e fantasia, di marche e di desideri che li abitua ad appropriarsi inconsapevolmente degli strumenti del consumo. Allora, si chiede Landi, siamo proprio sicuri di voler inculcare nei piccoli quei valori materialistici che ormai sappiamo alimentano la fragilità delle persone e condannano chi ha meno strumenti economici e culturali all’assuefazione consumista?
Trascurando per giunta la dimensione spirituale. Siamo sicuri di riempire il suo immaginario con un mondo di merci? Siamo sicuri che questo sia il meglio per loro e non piuttosto quanto conviene agli adulti? Nessuno lo ammette, tutti si dichiarano al riparo dai poteri dei superbrand ma nessuno lo è davvero, tanto meno i bambini che ne restano affascinati e plagiati, salvo patire poi la frustrazione del divario tra i desiderio di possedere tutto – stesse scarpe, stesse magliette, stessi videogiochi, bibite e biscotti... – e l’impossibilità di soddisfarlo che equivale a una condanna all’infelicità. Nessuno si illuda che cresciuti alla scuola degli spot, diventati esperti di loghi, marche e marchietti i bambini si emancipino davvero e si presentino più smaliziati e competenti sulla scena della vita. « Trascurare la dimensione spirituale per mettere di fronte il bambino alla realtà del mondo significa, secondo Landi, impedirgli di percepire la coscienza di se stesso e lavorare contro la sua libertà. Istruirlo e instradarlo verso un destino di consumatore che finirà per imprigionarlo invece di renderlo libero » . Certo, per sganciarsi dal martellamento dei consumi ci vuole un po’ di coraggio, perché educare alla diversità, a guardare la vita da un punto di vista diverso da quello corrente è un esercizio impegnativo. La maggioranza per esempio ritiene che, per crescere, i bambini abbiano bisogno della tv e di internet, dei videogiochi o della Playstation. Anche in questo il pubblicitario è maestro: a casa Landi ( tre figli di quattordici, undici e otto anni) da dieci anni non c’è nulla del genere.

«La pubblicità è come una guerra: vuole i bambini in riga come soldatini da addestrare a mettersi in marcia docili e obbedienti agli imperativi del consumo» «Nessuno si illuda che, diventati esperti di loghi, marche e marchietti, i bambini si emancipino davvero e si presentino più smaliziati e competenti»
«Avvenire» del 18 marzo 2009

Perché a nessuno interessa «Katyn»

Film di Wajda ignorato: se comunisti, i massacri indignano poco
Di Pierluigi Battista


Magari fosse solo censura, quella che ha colpito in Italia Andrzej Wajda. E che consolazione sarebbe se la circolazione semiclandestina del film sull’eccidio sovietico di Katyn fosse solo il frutto di una deliberata manovra di oscuramento per non far conoscere al grande pubblico uno dei più disgustosi crimini del comunismo. Purtroppo ha ragione Michele Anselmi che ne ha scritto sul Giornale: il «censore» è il mercato; il film è stato distribuito in poche copie, ma ha incassato ancor meno, «con una malinconica media a copia di 397 euro». A meno che non si voglia rimediare con una pedagogico trasferimento coatto di spettatori recalcitranti, bisogna concluderne che i distributori, certo ingenerosi, avevano tuttavia previsto lucidamente qualcosa di ben peggiore della censura: le pagine più buie del comunismo, anche se affidate a un grande regista, non emozionano il grande pubblico, non suscitano partecipata indignazione, non accendono le passioni e l’immaginazione delle vaste platee. È una conclusione amara e sconsolata, ma vera. Il massacro stalinista degli oltre ventimila ufficiali polacchi a Katyn non è quantitativamente il più efferato delle carneficine prodotte dal comunismo ma fu, come ha scritto in pagine memorabili Victor Zaslavsky, il laboratorio di una «pulizia di classe»: lo sterminio, attuato negli anni della fattiva collaborazione tra Hitler e Stalin, di intere categorie soppresse non per qualche eventuale «colpa» soggettivamente commessa, ma perché colpevoli semplicemente di esistere e di rappresentare un «oggettivo» intralcio all’edificazione tragica dell’ordine nuovo. Risulta forse un fremito risarcitorio nei confronti delle vittime, un sentimento lontanamente paragonabile al turbamento che agiti le coscienze di chi fu idealmente dalla parte dei carnefici, e ne condivise il nome, i simboli, la storia, le finalità ultime? Non risulta. Anzi, di recente l’ex comunista Luciano Violante, dopo aver onestamente confessato il proprio «imbarazzo» durante la proiezione di un documentario sulle foibe attuate da chi si fregiava dello stesso nome, «comunista», del partito in cui ha militato, si è molto offeso quando il Riformista ha sintetizzato nel titolo con la parola «vergogna» il contenuto dell’articolo. Perché, la «vergogna» non è un termine nobile quando ci si turba per aver condiviso il nome e gli ideali dei carnefici? A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, del comunismo e delle decine e decine di milioni di vittime di cui è costellato il suo cammino ovunque (sì, ovunque) oppressivo e cruento, non importa granché a nessuno, tranne a chi è ancora capace, come i volonterosi polemisti di Avvenire e di Tempi, di non smarrire il ricordo di quelle mattanze. Si è imposta, non per ordine censorio ma per spontanea adesione a un luogo comune, l’idea secondo la quale, a comunismo morto, l’anticomunismo non è che ossessione minoritaria di passatisti risentiti e nostalgici della guerra fredda. Immaginate lo scalpore che susciterebbe l’idea secondo la quale, a fascismo morto, anche l’antifascismo fosse una patetica sopravvivenza del passato. Ma sul comunismo, nessuno scalpore. Nel mondo della cultura. Nel dibattito pubblico. Al botteghino in cui l’anticomunismo fa mestamente flop.


«Corriere della Sera» del 23 marzo 2009


FILM, OVVIAMENTE; DA VEDERE AD OGNI COSTO!!

Perché a nessuno interessa «Katyn»

Film di Wajda ignorato: se comunisti, i massacri indignano poco
Di Pierluigi Battista

Magari fosse solo censura, quella che ha colpito in Italia Andrzej Wajda. E che consolazione sarebbe se la circolazione semiclandestina del film sull’eccidio sovietico di Katyn fosse solo il frutto di una deliberata manovra di oscuramento per non far conoscere al grande pubblico uno dei più disgustosi crimini del comunismo. Purtroppo ha ragione Michele Anselmi che ne ha scritto sul Giornale: il «censore» è il mercato; il film è stato distribuito in poche copie, ma ha incassato ancor meno, «con una malinconica media a copia di 397 euro». A meno che non si voglia rimediare con una pedagogico trasferimento coatto di spettatori recalcitranti, bisogna concluderne che i distributori, certo ingenerosi, avevano tuttavia previsto lucidamente qualcosa di ben peggiore della censura: le pagine più buie del comunismo, anche se affidate a un grande regista, non emozionano il grande pubblico, non suscitano partecipata indignazione, non accendono le passioni e l’immaginazione delle vaste platee. È una conclusione amara e sconsolata, ma vera. Il massacro stalinista degli oltre ventimila ufficiali polacchi a Katyn non è quantitativamente il più efferato delle carneficine prodotte dal comunismo ma fu, come ha scritto in pagine memorabili Victor Zaslavsky, il laboratorio di una «pulizia di classe»: lo sterminio, attuato negli anni della fattiva collaborazione tra Hitler e Stalin, di intere categorie soppresse non per qualche eventuale «colpa» soggettivamente commessa, ma perché colpevoli semplicemente di esistere e di rappresentare un «oggettivo» intralcio all’edificazione tragica dell’ordine nuovo. Risulta forse un fremito risarcitorio nei confronti delle vittime, un sentimento lontanamente paragonabile al turbamento che agiti le coscienze di chi fu idealmente dalla parte dei carnefici, e ne condivise il nome, i simboli, la storia, le finalità ultime? Non risulta. Anzi, di recente l’ex comunista Luciano Violante, dopo aver onestamente confessato il proprio «imbarazzo» durante la proiezione di un documentario sulle foibe attuate da chi si fregiava dello stesso nome, «comunista», del partito in cui ha militato, si è molto offeso quando il Riformista ha sintetizzato nel titolo con la parola «vergogna» il contenuto dell’articolo. Perché, la «vergogna» non è un termine nobile quando ci si turba per aver condiviso il nome e gli ideali dei carnefici? A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, del comunismo e delle decine e decine di milioni di vittime di cui è costellato il suo cammino ovunque (sì, ovunque) oppressivo e cruento, non importa granché a nessuno, tranne a chi è ancora capace, come i volonterosi polemisti di Avvenire e di Tempi, di non smarrire il ricordo di quelle mattanze. Si è imposta, non per ordine censorio ma per spontanea adesione a un luogo comune, l’idea secondo la quale, a comunismo morto, l’anticomunismo non è che ossessione minoritaria di passatisti risentiti e nostalgici della guerra fredda. Immaginate lo scalpore che susciterebbe l’idea secondo la quale, a fascismo morto, anche l’antifascismo fosse una patetica sopravvivenza del passato. Ma sul comunismo, nessuno scalpore. Nel mondo della cultura. Nel dibattito pubblico. Al botteghino in cui l’anticomunismo fa mestamente flop.

«Corriere della Sera» del 23 marzo 2009
FILM, OVVIAMENTE; DA VEDERE AD OGNI COSTO!!

Il Platone neocon che sfidò i conformisti

Lindau ripropone dopo vent’anni il saggio dello studioso che attaccò il relativismo e fu tra gli ispiratori della «Right Nation» di Bush. Più che mai attuale
Di Pierluigi Battista
La mancanza di cultura fa sì che gli studenti cerchino lumi ovunque, senza distinguere tra il sublime e il ciarpame Allan Bloom mostrò le trappole del politicamente corretto

Se avessimo letto con più attenzione (e meno ostilità acrimoniosa) questo libro di Allan Bloom del 1987 non avremmo aspettato l’11 settembre per azzannarci sullo «scontro di civiltà» o l’arrivo di papa Ratzinger per rinfocolare la disputa sul «relativismo culturale». Avremmo capito che la denuncia di Bloom dei misfatti compiuti in nome dell’«uomo democratico» dominante in Occidente non era una fisima reazionaria ma il lamento, ferreamente argomentato, di chi vedeva sgretolarsi proprio l’«attaccamento al messaggio e allo spirito» dei principi democratici e fondativi dell’America. Giacché una società comincia a inabissarsi quando non è più in grado di leggere Platone e di accapigliarsi nella ricerca spasmodica della verità e del bene. Troppo astratto, difficile, eccessivamente «filosofico»? Eppure La chiusura della mente americana fu un successo strepitoso. Talmente clamoroso da fare di Allan Bloom un uomo straordinariamente ricco. Chi ha letto Ravelstein, scritto da Saul Bellow per commemorare l’amico morto nel 1992 di Aids, ne ricorderà l’eccentricità geniale, l’eleganza ricercata e dispendiosa, il gusto per gli impianti stereofonici sofisticatissimi acquistati con i proventi del libro. Ricorderà il magnetismo esercitato da Bloom sui suoi discepoli più dotati, la sua sregolatezza così in contrasto con l’intransigenza conservatrice del suo pensiero, le telefonate in cui si divertiva diabolicamente a scambiare i gossip più feroci sul conto dell’establishment politico del mondo, affamato dei suoi consigli. Era il monumento del politicamente scorretto, il profeta dell’ondata culturale «neocon» che avrebbe sommerso la supponenza del catechismo progressista e qualche anno dopo avrebbe segnato il trionfo ideologico della «Right Nation» (e Bloom contese a Leo Strauss il titolo di «Platone di Bush»). In Italia pochi si accorsero dell’impatto che ebbe La chiusura della mente americana (ora finalmente riproposto da Lindau, molto tempo dopo la sua sparizione dalle librerie). Eppure il libro ebbe l’effetto di scardinare molte certezze, tanto da far dire a Jim Sleeper sul New York Times che quello di Bloom «è un libro di sinistra. Anzi, è il libro che la gente di sinistra ha sempre letto di nascosto». E non è un paradosso. Bloom smantella infatti la neomitologia della sinistra liberal, ma sempre in nome di una struggente nostalgia per la grande promessa contenuta nelle carte fondamentali dell’America: l’idea di una comunità democratica basata sui diritti naturali e sull’uso della ragione come via privilegiata alla costruzione del bene comune. Allievo di Leo Strauss, Bloom sa bene che la critica demolitrice della ragione, attività privilegiata solo per una ristretta aristocrazia intellettuale, non può mai diventare democratica, pena il suo pervertimento e la dissoluzione stessa di una società bisognosa di certezze granitiche. Ma quando procede al massacro intellettuale della retorica egualitaria e multiculturalista che ammorba le università americane condannate al declino e alle mediocrità, dimostra che la finta «apertura» delle menti progressiste è invece la più impermeabile «chiusura» nei confronti della ragione. In quelle menti annebbiate dalla moda culturale del momento, «la relatività della verità» non è una percezione teorica, ma «un postulato morale». A suo parare sparisce, nella retorica «relativista» in cui gli studenti progressisti sono «indottrinati», lo stesso desiderio razionale di «essere nel giusto», di stabilire che qualcosa è «migliore o peggiore» di un’altra. «Se - scrive Bloom - faccio loro le domande di routine, studiate per confutarli e farli pensare, per esempio "Se tu fossi stato un amministratore inglese in India, avresti permesso agli indigeni sotto la tua giurisdizione di bruciare la vedova al funerale di un uomo che era morto?", tacciono oppure rispondono che, in primo luogo, gli inglesi non avrebbero dovuto trovarsi lì». Sarà il massimo dell’«apertura» relativista nei confronti dell’Altro, ma il nuovo conformista non sa rispondere alle domande fondamentali. La sua è una nuova religiosità superstiziosa, apparentemente «aperta a tutte le specie di uomini e a tutte le specie di stili di vita, a tutte le ideologie». Che «non ha nemici, se non l’uomo che non è aperto a tutto». Ma in questo modo, spiega, il massimo dell’apertura, il massimo del relativismo si stravolge nel suo contrario: nel massimo della chiusura, nel massimo dell’intolleranza (e addirittura della ripulsa morale) per chi non si inchina ai suoi dogmi. La requisitoria di Bloom è sgradevole, irritante. E talvolta finisce per assomigliare a un’invettiva esacerbata contro il degradato spirito dei tempi, scomunicato nella sua interezza. Prende a bersaglio la musica rock, la rivoluzione sessuale, la fine dell’autorità paterna nelle famiglie oramai disgregate, gli sfibrati piani di studio delle facoltà umanistiche. Perfino Woody Allen che, secondo Bloom, avrebbe deformato e americanizzato la grande filosofia della disperazione tedesca in una innocua e fatua Disneyland del disagio psichico moderno. Ma è impressionante come Bloom, due anni prima del crollo del Muro di Berlino, avesse diagnosticato l’accartocciamento dell’Occidente democratico, incapace di vivere e di legittimarsi in mancanza del grande Nemico. E avesse intravisto nel declino dell’università americana il fulcro della crisi del progressismo. Convinto, come scrive Bellow nella sua prefazione, «che l’università, in una società governata dalla pubblica opinione, avrebbe dovuto essere un’isola di libertà intellettuale», Bloom si dispera per le conseguenze catastrofiche del suo asservimento all’«opinione» dominante. Lo fa sulla scorta di una lettura sofisticata della teoria politica e filosofica di Machiavelli, Hobbes, Locke e Rousseau. Ma per giungere a conclusioni politiche che mettano in discussione le certezze più care di una sinistra postmarxista che ha sublimato la sconfitta nelle litanie del relativismo culturale. Perciò la riproposta del libro di Bloom in Italia permette di ritornare a un testo che negli Stati Uniti ha rappresentato una svolta destinata a ripercuotersi persino nelle scelte strategiche della politica di Washington. Platone-Bloom non andrà alla Casa Bianca, però diventerà il testimone e il simbolo di una storica sconfitta culturale della sinistra, negli Stati Uniti ma anche in Europa (e soprattutto in Italia). Relegando il politicamente corretto nel museo archeologico delle dottrine estinte.

Il filosofo della destra americana
Torna in libreria da oggi per l’editore Lindau di Torino il famoso saggio di Allan Bloom «La chiusura della mente americana» (traduzione di Paola Pieraccini, pagine 459; € 24,50). Pubblicato da Bloom in America nel 1987 su incoraggiamento dell’amico e premio Nobel Saul Bellow, che ne scrisse la prefazione, il saggio divenne inaspettatamente un clamoroso bestseller, con circa mezzo milione di copie vendute. In Italia uscì nel 1988 da Frassinelli e non è più stato ristampato
L’autore Allan Bloom (1930-1992), filosofo americano di origine ebraica, fu allievo di Leo Strauss e Alexandre Kojève. Saul Bellow s’ispirò a lui nel tratteggiare il protagonista del suo romanzo «Ravelstein» (Mondadori, 2000)
Bloom è considerato uno dei padri del pensiero neoconservatore americano. Tra i suoi allievi anche Francis Fukuyama e l’ex presidente della Banca Mondiale, Paul Wolfowitz.

«Corriere della Sera» dell’11 aprile 2009

Le leggi degli dei e quelle degli stati

Conciliare diritto e morale: un viaggio nella storia delle idee. Le riflessioni di Claudio Magris oggi alla «Biennale» di Torino
Di Claudio Magris
Cicerone. La vera legge è quella alla quale l’uomo non può disobbedire senza fuggire se stesso e rinnegare la natura umana. Da Cicerone a Marx il conflitto tra coscienza e legalità

La democrazia è - certo non soltanto, ma comunque anche - la regola che si basa sul criterio di contare le teste, sistema probabilmente scadente ma, come diceva Einaudi, il meno peggio, visto che l’unica alternativa è quella di spaccare le teste. Ma talvolta può essere vero quello che grida il dottor Stockmann nel Nemico del popolo di Ibsen: «La maggioranza ha la forza, ma non la ragione!». E allora bisogna obbedire alle «non scritte leggi degli dei» anche contro leggi emanate da uno Stato democratico, da rappresentanti di una maggioranza regolarmente eletta. Anche Hitler è arrivato in certo modo legalmente al potere. A questo punto sorge un interrogativo terribile, a sua volta tragico: come si fa a sapere che quelle leggi non scritte sono veramente degli dei, cioè principi universali? Siamo giustamente convinti che l’amore cristiano del prossimo, i postulati dell’etica kantiana che ammonisce a considerare un individuo sempre come un fine e mai come un mezzo, i valori illuministi e democratici di libertà e tolleranza, gli ideali di giustizia sociale, l’uguaglianza dei diritti di tutti gli uomini in tutti i luoghi della terra, siano fondamenti universali che nessuno Stato può violare. Ma sappiamo pure che spesso le civiltà - anche la nostra - hanno imposto con violenza ad altre civiltà dei valori che esse ritenevano universali-umani e che erano invece il prodotto secolare della loro cultura, della loro storia, della loro tradizione, che era semplicemente più forte. E se la maggioranza non ha ragione, come grida Stockmann, è facile cadere nella tentazione di imporre con la forza un’altra ragione, che a sua volta ha solo la forza. La disobbedienza a Creonte comporta spesso tragedie non solo per chi disobbedisce, ma anche per altri innocenti, travolti dalle conseguenze. La coscienza, soprattutto per ribellarsi con fondamento, deve appellarsi a principi che trascendono la contingenza e la relatività di quel momento storico e dell’assetto politico-sociale in cui vive l’individuo che si ribella in nome della coscienza. Esponendo la dottrina stoica del diritto naturale, Cicerone, nel De Republica, parla di una «vera legge, conforme a natura, universale, costante ed eterna... legge alla quale l’uomo non può disobbedire senza fuggire sé stesso e senza rinnegare la natura umana». Questo diritto di natura, che sente l’umanità come comunità universale, passa al Cristianesimo e col Corpus Iuris Civilis «felicemente ordina le cose divine e umane e pone fine all’iniquità», secondo le parole attribuite allo stesso Giustiniano. Col Cristianesimo il diritto naturale si identifica con quello contenuto nel Vangelo e acquista una dimensione ontologica, immedesimandosi con l’ordine della natura creato da Dio, che nessuna legge positiva può violare senza perdere la sua legittimità. Le leggi positive ingiuste, scrive San Tommaso, non sono propriamente leggi e ad esse non è dovuta alcuna obbedienza; anzi, l’uomo onesto ha il diritto e il dovere di ribellarsi contro di esse. In un itinerario complesso e contraddittorio, come sottolineano Alessandro Passerin d’Entrèves e Norberto Bobbio, e in un processo di progressiva laicizzazione, il diritto di natura - attraverso Grozio, Pufendorf e altri - si collega idealmente, pur senza identificarsi con essi, con i diritti civili della modernità liberale e democratica. Per Locke, il filosofo della tolleranza e dei diritti civili, uno Stato autoritario nega la natura stessa dell’uomo. La Dichiarazione americana del 1776 proclama che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà e il perseguimento della felicità; anche quella francese del 1789 parla di diritti inalienabili e sacri dell’uomo. Due dichiarazioni rivoluzionarie, che si accompagnano infatti a due rivoluzioni e teorizzano, come fa esplicitamente l’americana, il diritto alla rivoluzione, proclamando esplicitamente che quando qualsiasi forma di governo calpesti quei principi, è diritto del popolo cambiare o abbattere quella forma di governo. Thoreau teorizzerà la Civil Disobedience, il «diritto alla rivoluzione», come egli dice espressamente, e il primato dell’individuo sullo Stato. Questa libertà etica e politica diviene un modo di essere, una modalità esistenziale e poetica; la libera vita nei boschi di Walden, il fraterno incontro con tutti gli esseri viventi. Ma contro il diritto di natura si levano molte altre voci, le quali contestano la stessa idea di una «natura costante, universale ed eterna». Hume dice che «la parola naturale è comunemente presa in un sì gran numero di significati, ed è di un senso così incerto, che sembra vano il disputare se la giustizia sia o no naturale». Per Hobbes, lo stato di natura non è un idillio arcadico, bensì un bellum omnium contra omnes che deve essere corretto e dunque contrastato dalle leggi. Hobbes scrive invece che «quando non vi erano ancora leggi, non vi era nemmeno ingiustizia; perciò le leggi sono per natura loro anteriori sia alla giustizia sia all’ingiustizia». Anche Leopardi contesta radicalmente il diritto «che si crede naturale» e che invece a suo avviso è «pura convenzione», frutto di «opinione» e di contingenze storiche o errori logici. In questa prospettiva, il nesso fra diritto e morale viene infranto; il diritto naturale viene respinto quale arbitrario dover essere in nome dell’essere, delle cose così come sono e del modo oggettivo di gestirle. Nessuno come Hegel ha disprezzato l’antagonismo «tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è» e dunque il diritto naturale, che egli considera una idealità astratta, inferiore a quella superiore moralità che è l’esistenza concreta dello Stato. E lo Stato, nel suo esercizio della forza e della violenza, può essere giudicato solo dalla Storia, perché solo la Storia universale è il tribunale e anzi il giudizio universale. Questa concezione del diritto s’incontra pure con la letteratura; nella tragedia Agnes Bernauer di Hebbel (1855), pervasa di pathos hegeliano e storicista, la purissima e innocente protagonista e il suo amore vengono brutalmente sacrificati alla Ragion di Stato; i suoi carnefici, come il suocero Ernesto duca di Baviera, venerano la sua dolcissima umanità e soffrono di doverla stroncare, ma ritengono che tale azione e tale colpa siano necessarie e dunque giuste nel quadro di una prospettiva storica che trascende il singolo individuo. «La ruota grande le è passata sopra - dice il duca Ernesto - ora ella è presso Colui che la gira». È interessante notare come il conflitto fra legge, intesa quale istanza superiore e necessaria della Ragion di Stato, e principi etici assoluti, sia affrontata in modo antitetico, per restare nel campo degli esempi letterari, in un dramma di Grillparzer che, nonostante l’anticlericalismo dell’autore, è pervaso dalla tradizione cattolica del diritto naturale: nell’Ebrea di Toledo (1850-51) i nobili spagnoli - che per la Ragion di Stato hanno ucciso la bellissima amante che rendeva ignavo il re, mettendo così in pericolo il Paese - non si pentono di aver commesso quel delitto che essi ritengono necessario, però a loro avviso la sua necessità non lo giustifica ed essi si sentono e dichiarano colpevoli, peccatori e pronti ad espiare: hanno agito - dicono - volendo il bene, ma non il diritto, non ciò che è giusto. Le «non scritte leggi degli dei» ovvero gli inalienabili diritti umani vengono accusati di astrattezza ideologica e moralistica, cui viene contrapposta la realtà della storia e la concreta storicità di ogni condizione umana, inevitabilmente diversa. John C. Calhoun, eminente politologo e uomo politico statunitense della prima metà dell’Ottocento studiato in un notevolissimo libro di Massimo L. Salvadori, attacca l’ideologia egalitaria della Dichiarazione americana del 1776 e in particolare il suo principio secondo il quale tutti gli uomini nascono liberi ed eguali. L’eguaglianza, osserva Salvadori, è per lui «contro natura», una falsificazione che inquina la natura; egli dice dunque anche significativamente che non nascono uomini, bensì bambini, che per lui non hanno ancora diritti. Analogamente, nella Germania settecentesca Justus Möser, il patriarca di Osnabrück, difendeva contro gli illuministi la servitù della gleba e le istituzioni tramandate dai secoli, che stabilivano disuguaglianze d’ogni genere, così come Burke opponeva all’uguaglianza illuminista e rivoluzionaria la diversità dell’uomo storicamente e concretamente determinato. Non a caso Möser difendeva non solo la servitù della gleba, ma anche l’individualità letteraria contro i principi di una Ragione universale pericolosamente uguagliatrice pure del gusto e della fantasia. Ma questi storici conservatori, nemici dell’uguaglianza e talora acuti difensori della diversità, scambiano un dato di fatto per un diritto, come se patire una menomazione o un’ingiustizia non solo non potessero, come talora accade, ma nemmeno dovessero essere corrette, neanche nei limiti del possibile. Anch’essi cadono nell’errore da essi rinfacciato ai giusnaturalisti, perché, respingendo ogni astratto dover essere, fanno di ciò che è, dell’essere, non una constatazione, bensì un precetto, un «dover essere». Calhoun, che considera «contro natura» la liberazione degli schiavi, diventa così una specie di San Tommaso o Thoreau alla rovescia. È forse Marx a unire paradossalmente la critica, anche sprezzante, al giusnaturalismo e un irriducibile «schietto naturalismo», come diceva anni fa Carlo Antoni. Per Marx è la storia, non la natura che deve portare la liberazione. E tuttavia rimane, nel pensiero di Marx, l’ideale di una personalità umana realizzata nella sua pienezza. Anche per lui, come per Calhoun, gli uomini non nascono liberi e soprattutto non nascono uguali. Ma questo fatto non è per lui automaticamente un diritto o meglio la negazione di un diritto, del diritto alla libertà e all’uguaglianza. La crescente negazione del diritto in natura in nome della realtà storica condurrà progressivamente, a partire dal secondo Ottocento, in genere nella cultura europea e in particolare forse in quella tedesca, alla negazione dell’umanità e di ogni universale-umano, come ha visto Ernst Troeltsch.
«Corriere della Sera» del 25 aprile 2009