05 agosto 2008

Quella forza disarmata della parola

La morte di Solzhenitsyn
Di Luigi Geninazzi
La storia lo ricorderà come l’uomo che sfidò l’impero sovietico con la forza disarmata della parola. Aleksandr Solzhenitsyn è stato prima di tutto un grande scrittore il cui genio letterario, consacrato nel 1970 dal Premio Nobel, ha cambiato le coscienze di milioni di persone, in Russia e all’estero, rivelando gli orrori del sistema comunista. È stato fra i più grandi scrittori cristiani del Novecento, orgogliosamente convinto di una missione salvifica, lungamente attesa e dolorosamente necessaria.
I suoi libri, a cominciare dalla scarna e drammatica descrizione della vita quotidiana nei gulag staliniani in Una giornata di Ivan Denisovich, «lacerano e leniscono l’anima con il potere tonante di una parola che non perisce e salva la possibilità di un futuro», ha detto un’altra grande autrice russa, Lidia Ciukovskaja. Solzhenitsyn non si limitava a raccontare il male, testimoniava la verità contro «la vita nella menzogna». Per questo è diventato il capostipite dei dissidenti, l’uomo simbolo della resistenza morale al totalitarismo rosso, il padre spirituale di una generazione di uomini di ferro, dal ceco Havel al polacco Walesa.
Non per nulla è stato detto che la sua famosa trilogia, Arcipelago Gulag, è costata all’Urss più di una guerra persa. Nonostante questo all’Occidente Solzhenitsyn non è mai piaciuto, guardato con diffidenza non solo dagli intellettuali e dai politici di sinistra ma anche dai circoli «liberal- democratici». Dal canto suo lui non ha risparmiato occasione per fustigare la società occidentale fin da quando era esule negli Stati Uniti. Esattamente trent’anni fa, nel giugno del 1978, fece scalpore il discorso che pronunciò ad Harvard dove dichiarò tutta la sua sfiducia nei confronti dell’Occidente, affermando che «la società fondata sul consumismo non può rappresentare un modello alternativo al socialismo reale perché ne condivide l’assunto materialista». Fu l’analisi lucida e disincantata di Un mondo in frantumi (con questo titolo il discorso di Harvard venne pubblicato in Italia da un gruppo di cattolici contro-corrente), un mondo unidimensionale che sarebbe diventato realtà qualche anno più tardi, dopo la caduta dei muri tra Est ed Ovest.
E anche la Russia post-sovietica del capitalismo selvaggio non è certo simile alla obscina, il comunitarismo fondato sulle autonomie locali della Russia zarista che il Vate dalla lunga barba bianca vagheggia e predica, profeta inascoltato in patria, da quando nel 1994 decise di rientrare a Mosca. Ma le sue invettive cadono nel vuoto, i russi gli voltano le spalle ed i suoi libri, che nel 1990, in piena perestrojka, vendevano sette milioni di copie scendono al minimo storico di quindicimila. A rilanciarlo ci pensa (ironia della sorte) un ex agente del Kgb.
Negli ultimi tempi il volto dell’autore di Arcipelago Gulag appariva sui cartelloni pubblicitari all’uscita dall’aeroporto di Mosca, improbabile testimonial della Russia di Putin, quasi un marchio di garanzia per un Paese tornato al rango di superpotenza temuta e rispettata nel mondo. Solzhenitsyn, da nostalgico nazionalista, non nascondeva la sua ammirazione per questo risultato ma continuava a denunciare il decadimento morale e spirituale della Russia. Ne ricercava l’anima, schiacciata sotto l’edonismo e la corruzione. No, non era un’icona del potere come purtroppo è stato dipinto negli ultimi mesi della sua vita. Perché «nessuno sulla Terra ha altra via d’uscita se non quella d’andare più in alto». Lo disse ad Harvard, e vogliamo credere che fosse quello il suo testamento spirituale, non l’atto di sudditanza al potere recente.
“Avvenire” del 5 agosto 2008

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