22 agosto 2008

Il regime di Ecce Bombo

L'allarme di Nanni Moretti sull'assenza di opinione pubblica? È il vizio della sinistra che bolla di fascismo chi non la pensa come lei
Dal Festival del cinema di Locarno, Nanni Moretti ha lanciato un allarme: in Italia l'opinione pubblica non esiste più. A sentir lui, lo dimostrano una serie di fatti: primo fra tutti il ritorno di Silvio Berlusconi al governo fra l'indifferenza degli italiani, che non s'indignano per i conflitti d'interesse del Caimano e per il suo strapotere nei media televisivi. L'allarme di Moretti mi fa sorridere. E mi obbliga a domandarmi dove viva il nostro celebre regista. Forse a Roma, ma rinchiuso in uno studio cinematografico con quattro amici che la pensano come lui. Oppure ha scelto di stare in qualche paese lontano, da dove l'Italia non si scorge più. Se Moretti andasse in giro per il nostro paese, si renderebbe conto subito di una verità: l'opinione pubblica non soltanto non è scomparsa, ma si è moltiplicata e parla i linguaggi più diversi. Esiste sempre quella della sinistra radicale, rimasta fuori dal Parlamento, però assai attiva e incavolata nelle sedi di almeno tre partiti e nelle piazze. C'è sempre l'opinione di centro-sinistra, anche se oggi appare la più disorientata per la sconfitta elettorale e per il caos che logora il partito di riferimento, il povero Pidì di Walter Veltroni. C'è l'opinione pubblica di centro-destra, molto forte perché i suoi leader politici sono ritornati al governo con l'eterno Berlusconi. Ma anch'essa tormentata dai messaggi contraddittori che riceve. L'ultimo riguarda l'abolizione dell'Ici. Questa tassa deve tornare, strilla la Lega. No, l'Ici l'abbiamo salutata e non ritornerà più, giurano il Pdl e An. E infine c'è l'opinione pubblica di destra. È sempre esistita, ma sino a qualche anno fa se ne restava in silenzio. Adesso parla, legge, discute, si difende e attacca, come fanno tutte le opinioni pubbliche nelle grandi democrazie. Per rendersene conto, è sufficiente partecipare a incontri pubblici che non siano le vecchie Feste dell'Unità o del Pd, come si chiamano oggi: recinti chiusi, dominati da un razzismo intellettuale sempre più stantio e sterile. Questa opinione di destra tutela anche la propria memoria storica, che non si sta affatto dissolvendo, checchè ne pensi e ne scriva
SuperWalter. Tornando all'argomento di Moretti, il suo difetto sta nel manico. Ossia nella convinzione che l'unica opinione pubblica a contare sia quella contraria al Caimano. Anche più di un giornale e parecchi opinionisti la pensano così. Ma proprio questo è l'errore più grande. E nasce dal riflesso condizionato di una concezione autoritaria della democrazia. In nessun paese libero sarebbe possibile sostenere il principio che ha diritto di cittadinanza un solo modo di pensare. Succede così soltanto negli Stati illiberali. Ed è successo così nell'Europa del Novecento, prima nella Russia comunista, poi nell'Italia fascista e nella Germania nazista. Mi guardo bene dal dare a Moretti del cripto-fascista, ossia del fascista nascosto e in abito simulato. Innanzitutto perché non lo è e non lo è mai stato. Poi perché l'accusa di fascismo non ha più forza, visto l'abuso che se ne sta facendo. Identico all'abuso della parola regime. Per molte famose teste d'uovo delle tante sinistre, tutto ciò che non coincide con la loro visione del mondo è fascismo. Persino la presenza di un po' di soldati nelle città dove il crimine è più diffuso diventa la prova che le Brigate Nere sono tornate, pronte a torturarci. E la gente che applaude ai militari è soltanto popolo bue, che ha portato il cervello all'ammasso per ordine delle tivù di Berlusconi. Potrà sembrare una forma di contrappasso, però tanti intellettuali antifascisti si stanno impiccando da soli all'albero fantasma del fascismo. Anche perché dimenticano la regola numero uno di chi usa l'intelletto: chiamare le cose con il nome giusto, come ha ricordato Luca Ricolfi in un importante articolo sulla 'Stampa' del 15 agosto. Non intendono farlo per pigrizia culturale, per vanità faziosa, per ottusità politica? Peggio per loro. Saranno sempre meno credibili. E soprattutto rischieranno di fare la fine del personaggio di un celebre film di Moretti. Ve lo rammentate 'Ecce Bombo', del 1978, l'esordio di Moretti nel cinema professionale? C'era una figura indimenticabile: la sessantottina smonata che ripeteva "Giro, vedo gente, faccio cose". Ecco, cari amici che paventate un nuovo Mussolini: girate e vedete un po' di gente, ma di quella che non vi somiglia. Vi renderete conto che il regime di Ecce Bombo è la più sgangherata fra le trappole per i vostri sacri lombi.
"L'Espresso" del 22 agosto 2008

05 agosto 2008

Addio a Solzhenitsyn, gigante del ’900

Nei suoi capolavori la denuncia degli orrori dell’ideologia e un’alta riflessione sul male
Domenica, alle 22.45, è morto per infarto nella sua casa di Mosca Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn, grande scrittore e pensatore, figura di enorme rilievo della dissidenza sovietica e dell’opposizione culturale al regime marxista-leninista. Era nato nel 1918. Unanime il cordoglio in Russia, unica voce fuori dal coro quella del comunista Ghennadij Ziuganov secondo il quale lo scrittore, per la nuova Russia, «si è rivelato inutile». Forte la commozione anche all’estero: molti leader, fra cui il presidente francese Nicolas Sarkozy, il cancelliere tedesco Angela Merkel («un grande scrittore e un cittadino impegnato») e quello Usa George W. Bush, hanno inviato messaggi. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Javier Solana, l’ha definito «un autore che ha contribuito a cambiare il corso della storia», mentre il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha annunciato l’accensione delle luci del Colosseo per ricordare lo scrittore. A Mosca per tutta la giornata di oggi sarà aperta al pubblico la camera ardente nella sede dell’Accademia delle Scienze. Durante la guerra Solzhenitsyn fu arrestato per aver criticato il regime di Stalin e trascorse otto anni nei lager.
Nel 1962, con l’approvazione di Nikita Khrushchev, uscì la sua prima opera dedicata a questa esperienza: il racconto «Una giornata di Ivan Denisovich». Nel 1970 lo scrittore fu insignito del Premio Nobel e nel 1974 fu pubblicata in Francia la sua opera più nota, «Arcipelago Gulag», vietata nell’Urss.
Solzhenitsyn fu nuovamente arrestato, privato della cittadinanza e costretto all’esilio, prima in Svizzera e poi negli Usa. Tornò in patria solo con l’inizio della perestrojka del presidente Mikhail Gorbaciov. (G.Ben.)
Di Fulvio Panzeri
Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn è l’ultimo 'gigante' di quella grande tradizione che è la narrativa russa, una grandezza la sua che si fonda sulla lezione di Dostoevskij, su quella sua lacerante capacità di cercare la verità, là dove tutto sembra volgere all’ombra e il male contrastare la forza della realtà. Eppure l’Italia sembra non riconoscere appieno questa grandezza, visto che la sua opera letteraria, uscita negli anni, non sembra incontrare l’interesse della nostra editoria. Nelle librerie troviamo solo alcune delle sue opere, ma non tutto il corpus significativo, che uno scrittore della sua statura merita. È questa una precisazione e una premessa doverosa. Ad esempio, un romanzo fondamentale come Il primo cerchio da anni non è più ristampato. Pubblicato, nel 1968, con il titolo che rimanda ad una citazione dantesca, racconta tre giorni della vita degli ospiti della sharashka di Marfino, una località in Siberia. Si tratta di un 'campo di prigionia leggera' in cui venivano detenuti e lavoravano scienziati e tecnici sovietici che erano stati arrestati sulla base dell’articolo 58 del Codice penale sovietico durante il periodo staliniano, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Le condizioni di vita nel campo erano buone, perché agli internati era richiesto un atteggiamento di ' collaborazionismo' per progetti tecnici. Molti però scelgono di non stare più al gioco del potere, come il protagonista Gleb Nerzhin, e smettono di cooperare anche se questa scelta comporta l’essere espulsi dalla sharashka ed essere inviati in campi di concentramento dove la realtà è ben più dura e opprimente.
Aveva detto Solzenicyn: «Fino al 1961 non solo ero convinto che non avrei mai dovuto vedere una sola mia linea stampata nella mia vita, ma, anche, a stento osai permettere ad alcune delle mie più vicine conoscenze di leggere quello che scrissi perché temevo che si venisse a sapere». A quarantadue anni però, grazie all’intervento del poeta e capo redattore del Novyj Mir Aleksandr Tvardovskij Una giornata di Ivan Denisovich viene pubblicato, l’unico suo libro a vedere le stampe in Russia fino al 1990. L’uscita di un libro che metteva in luce la realtà dei gulag, che era opera di uno scrittore che aveva vissuto direttamente quell’esperienza, fu possibile grazie all’esplicita approvazione di Khrushchev. Il successo del romanzo breve fu enorme, dal punto di vista critico (ci fu chi lo paragonò alla Casa dei morti di Dostoevskji) e da quello del pubblico. Il numero della rivista dove fu pubblicato andò subito a ruba e la gente aveva paura di non riuscire a trovarlo, tanto che Sergej Averincev, uno dei più grandi intellettuali russi del XX secolo ricorda: «Non dimenticherò mai un uomo un po’ strampalato, che non riusciva a dire il nome del Novyj Mir e chiedeva alla giornalaia: 'Ma sì, ma sì, quello dove c’è scritta tutta la verità!'. E lei capiva di che cosa stesse parlando il suo interlocutore ». In Italia, pubblicato da Einaudi, insieme a La casa di Matrjona, resta ancora oggi il testo più conosciuto del grande scrittore russo. Un’apertura questa che dura pochi anni. La caduta di Khrushchev chiude anche la breve parentesi: Solzhenitsyn tenta di far pubblicare Padiglione Cancro, altro suo grande romanzo, ambientato nel reparto oncologico dell’ospedale di una città dell’Asia centrale dove si incontrano, senza riuscire a entrare in comunicazione, donne e uomini che hanno alle spalle esistenze diverse. L’incombere della malattia e della morte li costringe a fare il bilancio della propria vita, ma anche a confrontarsi con la spada di Damocle del destino. Il valore dei singoli si misurerà sulla base della loro capacità di far tesoro dell’esperienza della vita e della sofferenza e di riuscire a trasferire nel mondo esterno le riflessioni avviate nella corsia dell’ospedale.
Quest’opera però rappresenterà la frattura tra lo scrittore e le autorità sovietiche. Negata la possibilità di pubblicazione per il libro in quanto non corretto e libero dal sospetto di insinuazioni e affermazioni antisovietiche, nel 1965, il Kgb sequestra molti dei suoi manoscritti, compreso quello del Primo cerchio.
Nel frattempo Solzhenitsyn continua segretamente il febbrile lavoro a quella che diventerà la sua 'opera mondo', il monumentale Arcipelago Gulag (disponibile nell’edizione in due volumi dei 'Meridiani' Mondadori'), che vedrà la luce solo dopo che lo scrittore, nel 1974, viene deportato dall’Unione Sovietica alla Germania Ovest e privato della cittadinanza russa. È la summa di tutta l’opera di Solzhenitsyn, un romanzo-saggio che si costruisce intorno a un’imponente raccolta di dati sulle deportazioni e i campi di reclusione dell’epoca staliniana: una vera storia, geografica ed etnologica, della realtà dei lager. Per realizzare il suo capolavoro lo scrittore si era avvalso dei racconti e delle deposizioni di più di duecento ex deportati. La sua pubblicazione mette in crisi anche l’intellighenzia europea, tanto che Raymond Aron, nel 1975, deve intervenire a suo favore: «Se Solzhenitsyn crea imbarazzo, se indigna, è perché colpisce gli intellettuali d’Occidente nel punto più sensibile, quello della menzogna: se accettate i Gulag più grandi – li interpella – perché una sì virtuosa indignazione alla vista dei piccoli? I campi restano campi, siano essi bruni o rossi. Da più di cinquant’anni gli intellettuali occidentali di rifiutano di ascoltare questa domanda».
Il valore di questo libro è cresciuto nel tempo, ponendolo come una pietra miliare di tutta la letteratura del Novecento, per quella lucida riflessione sulla natura del male che documenta e interpreta al contempo. Del resto nel libro troviamo: «Per fare del male l’uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azione. La natura dell’uomo è, per fortuna, tale che egli sente il bisogno di cercare una giustificazione delle proprie azioni... L’ideologia! È lei che offre la giustificazione del male che cerchiamo e la duratura fermezza occorrente al malvagio... Grazie all’ideologia è toccato al secolo XX sperimentare una malvagità esercitata su milioni. La malvagità è inconfutabile, non può essere passata sotto silenzio né scansata: come oseremmo insistere che i malvagi non esistono? Chi annientava quei milioni? Senza malvagi non sarebbe esistito l’Arcipelago».
“Avvenire” del 5 agosto 2008

«Ma in Italia venne snobbato»

Intervista di Andrea Lavazza a Vittorio Strada
Parla il grande slavista: l’egemonia culturale della sinistra impedì che la sua opera, negli anni Settanta, producesse l’effetto dirompente che ebbe in Francia. «Fu un uomo di profonda e autentica fede, per lui il cristianesimo ortodosso doveva rigenerare la società russa, devastata da 70 anni di regime»

« Servirebbe un’autocritica di tanta parte della cultura italiana, che consapevolmente non diede risonanza alle rivelazioni sul Gulag fatta da Solzhenitsyn » . Vittorio Strada, slavista insigne, grande conoscitore dello scrittore russo, autore del recente Etica del Terrore. Da Fiodor Dostoevskij a Thomas Mann ( Liberal edizioni), non esita a definire scarsa e debole la recezione nel nostro Paese dell’opera del pensatore scomparso.
Perché l’effetto che Arcipelago Gulag ebbe, ad esempio, in Francia non si ripeté in Italia?
A Parigi l’opera provocò un movimento dirompente, sia nell’élite culturale sia nel grande pubblico: negli anni Settanta del Novecento liberò molte menti ancora prigioniere dell’ideologia comunista. Da noi, l’egemonia culturale del Pci era più sottile e penetrante, tanto che la sottovalutazione o addirittura il rifiuto della sua denuncia avvenne anche da parte di personalità che dal partito si erano staccate, come accadde per il gruppo del manifesto.
Prevalse il pregiudizio favorevole al marxismo- leninismo, che l’opera di Solzhenitsyn metteva sul banco degli imputati. Anzi, non furono pochi coloro che lo accusarono di nostalgie zariste, quando non fasciste, e gli rimproverarono posizioni reazionarie e antisemite.
Il suo recente avvicinamento a Putin potrebbe far pensare a simpatie nazionalistiche e autoritarie...
Bisogna distinguere. Oggi, in Russia, il nazionalismo è il sentimento dominante, nella società come nelle stanze del potere. Ce n’è una forma etnica ( « la Russia ai russi » ), suicida in un Paese multinazionale; e una forma neo- imperiale, venata di rimpianti per l’epoca di potenza staliniana. Solzhenitsyn era totalmente immune da entrambe. La propaganda del Cremlino ha invece creato il mito di un suo appoggio totale all’ex presidente. La preoccupazione dello scrittore patriota era per l’identità nazionale, si interrogava sul problema della sua definizione e ricostruzione. Non possiamo dimenticare che la Russia ha vissuto nel Novecento il crollo di due imperi: quello zarista e quello comunista. I rapporti con le altre etnie, la ' perdita' dell’Ucraina – che per Putin è uno smacco politico, per Solzhenitsyn uno smacco morale – sono importanti temi di riflessione, così come la convivenza con la componente islamica.
Che ruolo ebbe il cristianesimo ortodosso nella vita di Solzhenitsyn?
Fu un autentico uomo di fede profonda e autentica, un credente che considerava il cristianesimo parte integrante della civiltà russa, una componente fondamentale che il comunismo aveva cercato di estirpare. Solzhenitsyn pensava che dal cristianesimo ortodosso fosse necessario partire per la ricostruzione della società russa, devastata da 70 anni di regime. La rinascita del Paese, a suo avviso, non poteva che cominciare dalla rinascita morale, di fronte allo spettacolo dei super- ricchi incuranti del resto della popolazione in miseria, della corruzione, della criminalità.
“Avvenire” del 5 agosto 2008

Così rivelò al mondo tutte le atrocità dei gulag staliniani

di Giovanni Bensi
Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn era nato l’11 dicembre 1918 a Kislovodsk nel Nord- Caucaso e fino al 1962 ha svolto la vita del cittadino sovietico ' normale', ed in questa ' normalità' per milioni di persone rientrava anche l’arresto e la deportazione. Non tutte le vittime però poterono renderne testimonianza. Solzhenitsyn ebbe più ' fortuna': appunto nel 1962 la rivista Novyj Mir, diretta dal 'liberale' Aleksandr Tvardovskij, approfittando della ottepel’, il ' disgelo' di Nikita Khrushchev, pubblicò il primo racconto di Solzhenitsyn, Una giornata di Ivan Denisovich, che rivelava il mondo terribile dei lager staliniani. Solzhenitsyn li conosceva per esperienza diretta: nel 1941, una volta laureatosi in matematica e fisica, si era arruolato nell’esercito, aveva combattuto nella ' Grande guerra patriottica' e nel febbraio 1945 fu arrestato.
Più tardi, nell’autobiografia inviata al Comitato per il Premio Nobel, di cui fu insignito nel 1970, Solzhenitsyn stesso descrisse le circostanze della cattura: « Fui arrestato in base alle ispezioni della censura sulla mia corrispondenza con un compagno di scuola nel 1944- 45. Soprattutto per i giudizi irrispettosi su Stalin, benché lo citassimo solo con uno pseudonimo. Come ulteriore materiale di accusa furono usate le minute, trovate nel mio zaino, di racconti e componimenti. Tutto questo però non bastava per un regolare processo e così nel luglio 1945 fui condannato a otto anni di lager, secondo una pratica allora largamente diffusa, con una decisione della commissione speciale dell’Nkvd » .
Nell’Unione Sovietica, Una giornata di Ivan Denisovich, come le altre opere di Solzhenitsyn dello stesso periodo (La casa di Matrjona, Un caso avvenuto alla stazione di Krecetovka) venivano avidamente lette, ma dopo la destituzione di Khrushchev e l’avvento di Leonid Brezhnev la situazione peggiorò. La persecuzione dello scrittore incominciò nel 1967, quando egli inviò al congresso degli scrittori sovietici una lettera aperta con l’invito ad abolire la censura. I romanzi di Solzhenitsyn Nel primo cerchio e Reparto cancro, depositati nella redazione di Novyj Mir, non poterono essere pubblicati, cominciarono a circolare in samizdat ( pubblicazioni dattiloscritte clandestine) e alla fine furono stampati in Occidente. Per questo Solzhenitsyn fu escluso dall’Unione degli Scrittori, ma fuori dell’Urss egli ottenne il massimo riconoscimento: l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1970. Tuttavia egli poté ricevere il premio solo quattro anni più tardi, dopo l’espulsione dall’Urss.
Questo provvedimento, preceduto dalla revoca della cittadinanza sovietica, fu preso dopo che Solzhenitsyn nel 1973 fece pubblicare in Occidente la sua opera più nota, Arcipelago Gulag. Questa analisi dettagliata e spietata del terrore staliniano ebbe una grande influenza non solo nei Paesi democratici, dove indusse molti ad una revisione critica del precedente atteggiamento benevolo verso il comunismo, ma anche nell’Urss, dove il libro arrivava attraverso canali clandestini. Il 12 febbraio 1974 Solzhenitsyn fu arrestato, accusato di « tradimento della Patria » , provato della cittadinanza sovietica e deportato in Germania Occidentale. Poco più tardi anche la moglie e i tre figli poterono raggiungerlo. Dopo tre anni trascorsi in Svizzera, Solzhenitsyn e la sua famiglia si trasferirono negli Usa.
Dopo aver vissuto 20 anni in Occidente ( dove si dedicò a scrivere il monumentale ciclo storico La ruota rossa sugli avvenimenti della Prima guerra mondiale e della Rivoluzione d’Ottobre), Solzhenitsyn poté tornare in Russia dopo la caduta del comunismo e lo sfaldamento dell’Urss.
Egli approvò il primo avvenimento, ma criticò il secondo. Idealizzava l’impero, soprattutto nelle sue forme patriarcali precedenti l’' occidentalismo' di Pietro il Grande, richiamandosi ai valori della Chiesa ortodossa, ma spesso, come traspare da alcune sue dichiarazioni, non tanto di quella ' ufficiale' quanto quella dei ' vecchi credenti', la setta rigorista ( spesso citata anche da Dostoevskij) staccatasi dalla Chiesa ufficiale nel XVII secolo.
Anche il suo aspetto fisico, ascetico e con una gran barba fluente, ricorda quello dei ' vecchi credenti'. In Russia pochi furono in sintonia con lui. Egli sperava di prendere parte alla vita politica del Paese, ma le cose andarono diversamente. Molti di coloro che lo avevano ammirato per la sua critica del comunismo ( da lui condannato anche perché ' non russo' nelle sue radici) non accettavano le sue idee monarchiche e nazionaliste. Solzhenitsyn aveva duramente criticato il defunto presidente Boris Eltsin per il suo « liberalismo » e addirittura rifiutò un’alta onorificenza, l’Ordine di S. Andrea, osservando che « l’atmosfera non è propizia » . Invece, in nome di un « autoritarismo illuminato » Solzhenitsyn finì col simpatizzare con un ex agente del Kgb quale Vladimir Putin, dal quale l’anno scorso ha accettato anche un premio.
La delusione di Solzhenitsyn per la ' nuova Russia' traspare anche dai titoli dei suoi ultimi libri: La Russia nella frana ( Rossija v obvale) e Il grano di frumento è finito tra due macine. Questi libri, scritti alla fine degli anni ’ 60, hanno provocato molte discussioni in Russia, come anche i due volumi di Solzhenitsyn Duecento anni insieme, sui rapporti fra russi ed ebrei, dai quali sembra trasparire una certa ostilità verso questi ultimi.
“Avvenire” del 5 agosto 2008

Quella forza disarmata della parola

La morte di Solzhenitsyn
Di Luigi Geninazzi
La storia lo ricorderà come l’uomo che sfidò l’impero sovietico con la forza disarmata della parola. Aleksandr Solzhenitsyn è stato prima di tutto un grande scrittore il cui genio letterario, consacrato nel 1970 dal Premio Nobel, ha cambiato le coscienze di milioni di persone, in Russia e all’estero, rivelando gli orrori del sistema comunista. È stato fra i più grandi scrittori cristiani del Novecento, orgogliosamente convinto di una missione salvifica, lungamente attesa e dolorosamente necessaria.
I suoi libri, a cominciare dalla scarna e drammatica descrizione della vita quotidiana nei gulag staliniani in Una giornata di Ivan Denisovich, «lacerano e leniscono l’anima con il potere tonante di una parola che non perisce e salva la possibilità di un futuro», ha detto un’altra grande autrice russa, Lidia Ciukovskaja. Solzhenitsyn non si limitava a raccontare il male, testimoniava la verità contro «la vita nella menzogna». Per questo è diventato il capostipite dei dissidenti, l’uomo simbolo della resistenza morale al totalitarismo rosso, il padre spirituale di una generazione di uomini di ferro, dal ceco Havel al polacco Walesa.
Non per nulla è stato detto che la sua famosa trilogia, Arcipelago Gulag, è costata all’Urss più di una guerra persa. Nonostante questo all’Occidente Solzhenitsyn non è mai piaciuto, guardato con diffidenza non solo dagli intellettuali e dai politici di sinistra ma anche dai circoli «liberal- democratici». Dal canto suo lui non ha risparmiato occasione per fustigare la società occidentale fin da quando era esule negli Stati Uniti. Esattamente trent’anni fa, nel giugno del 1978, fece scalpore il discorso che pronunciò ad Harvard dove dichiarò tutta la sua sfiducia nei confronti dell’Occidente, affermando che «la società fondata sul consumismo non può rappresentare un modello alternativo al socialismo reale perché ne condivide l’assunto materialista». Fu l’analisi lucida e disincantata di Un mondo in frantumi (con questo titolo il discorso di Harvard venne pubblicato in Italia da un gruppo di cattolici contro-corrente), un mondo unidimensionale che sarebbe diventato realtà qualche anno più tardi, dopo la caduta dei muri tra Est ed Ovest.
E anche la Russia post-sovietica del capitalismo selvaggio non è certo simile alla obscina, il comunitarismo fondato sulle autonomie locali della Russia zarista che il Vate dalla lunga barba bianca vagheggia e predica, profeta inascoltato in patria, da quando nel 1994 decise di rientrare a Mosca. Ma le sue invettive cadono nel vuoto, i russi gli voltano le spalle ed i suoi libri, che nel 1990, in piena perestrojka, vendevano sette milioni di copie scendono al minimo storico di quindicimila. A rilanciarlo ci pensa (ironia della sorte) un ex agente del Kgb.
Negli ultimi tempi il volto dell’autore di Arcipelago Gulag appariva sui cartelloni pubblicitari all’uscita dall’aeroporto di Mosca, improbabile testimonial della Russia di Putin, quasi un marchio di garanzia per un Paese tornato al rango di superpotenza temuta e rispettata nel mondo. Solzhenitsyn, da nostalgico nazionalista, non nascondeva la sua ammirazione per questo risultato ma continuava a denunciare il decadimento morale e spirituale della Russia. Ne ricercava l’anima, schiacciata sotto l’edonismo e la corruzione. No, non era un’icona del potere come purtroppo è stato dipinto negli ultimi mesi della sua vita. Perché «nessuno sulla Terra ha altra via d’uscita se non quella d’andare più in alto». Lo disse ad Harvard, e vogliamo credere che fosse quello il suo testamento spirituale, non l’atto di sudditanza al potere recente.
“Avvenire” del 5 agosto 2008

04 agosto 2008

Valutazione e misurazione nella scuola: facciamo come in Gran Bretagna

Se l’esame non serve né agli studenti, né agli insegnanti, né allo stato che vuol valutare gli uni e gli altri
Di Andrea Ichino
È calato il sipario sugli esami di maturità, ma i veri problemi di questa prova restano aperti e non sono certo quelli generati dagli errori nella formulazione delle domande che hanno movimentato gli scritti dell’ultima edizione.
Tra i paesi avanzati con sistema di istruzione pubblico l’Italia è forse l’unico in cui le prove dell’esame che determina il passaggio dalla scuola all’università non vengono corrette in modo centralizzato e uguale per tutti gli studenti. In Inghilterra sono addirittura 4 nella carriera di uno studente gli esami standardizzati e corretti centralmente: a 7, 11, 14 e 16 anni. In Italia, invece, questo non accade mai nemmeno per la maturità nella quale, pur essendo uguali per tutti alcuni quesiti delle prove scritte, la correzione è fatta da una commissione locale nella quale la presenza di membri esterni non è e non può essere garanzia di uniformità nei metri di giudizio. Strano questo modo di valutare l’esame conclusivo di un processo di apprendimento di cui lo Stato controlla puntigliosamente ogni altro aspetto con l’intento di garantire un’istruzione rigorosamente identica per tutti. Sarà anche uguale l’istruzione impartita ad ogni studente, ma non è certo uguale, nei fatti, l’esame che deve valutare i risultati raggiunti. E questo ha due conseguenze negative importanti.
La prima è che i voti dell’esame sono totalmente inutili per confrontare studenti di classi o scuole diverse. Ossia non possiamo stabilire se uno studente valutato con 95 nel liceo X sia più e meno bravo di uno valutato con 90 nel liceo Y, perché i professori che hanno attribuito quei voti hanno metri di giudizio diversi e hanno valutato prove d’esame almeno in parte differenti. Non deve sorprendere quindi che mentre nelle indagini standardizzate PISA gli studenti del sud risultino peggiori e quelli del nord-est siano gli unici vicini alla media europea (vedi Checchi e Radaelli su www.lavoce.info), i dati sulla maturità pubblicati ieri dal Ministero dicano esattamente l’opposto, con il primato delle promozioni in Calabria e delle bocciature in Veneto e Friuli.
Inoltre, nella situazione attuale, gli insegnanti peggiori cercano di nascondere i loro difetti regalando voti, mentre quelli migliori si trovano costretti, di conseguenza, a dare voti più alti ai propri studenti perché non siano danneggiati nel confronto con quelli che all’esame hanno avuto vita facile. Non sorprende quindi che i voti siano ovunque molto alti e le bocciature praticamente inesistenti (3 % tra i maschi e 2 % tra le femmine). Per analogia, avendo l’esame valore legale, sarebbe come se lo Stato stampasse banconote ma non garantisse che i numeri stampati su di esse fossero una misura autentica e confrontabile del loro valore. E così, mentre in Spagna, Inghilterra o Israele i risultati di questo esame sono usati dagli atenei per scegliere gli studenti da ammettere ai corsi di laurea, in Italia si rendono necessari costosi test di ingresso perché a tutti è chiaro che il voto di maturità è attualmente di scarsa utilità informativa.
La seconda conseguenza negativa è che, così facendo, lo Stato rinuncia ad ottenere un dato utile per la valutazione delle scuole e degli insegnanti. Immaginiamo che l’esame di terza media e quello di maturità siano standardizzati, al fine di misurare quello che riteniamo uno studente debba sapere in ciascuna materia, e siano corretti centralmente. Di ogni studente italiano potremmo quindi conoscere la posizione nella classifica nazionale di ciascuno dei due esami. Sarebbe quindi possibile valutare gli insegnanti delle superiori sulla base dei risultati conseguiti dai loro studenti all’esame di maturità, opportunamente tarati in base ai risultati degli stessi studenti all’esame di terza media. Questo affinché sia possibile valutare gli insegnanti sulla base non solo dei livelli ma anche delle variazioni di performance dei loro studenti, in modo da poter premiare anche (e forse soprattutto) gli insegnanti che si trovino a lavorare in scuole con studenti meno bravi.
In Inghilterra, i risultati dei test standardizzati per scuole e insegnanti sono resi pubblici in modo che anche le famiglie ne siano a conoscenza e possano scegliere a ragion veduta dove iscrivere i propri figli. E le scuole peggiori possono essere chiuse. A fronte di questo però presidi e insegnanti hanno un’autonomia gestionale infinitamente maggiore che in Italia nel decidere cosa e come insegnare, con quali strutture e quali risorse umane. Solo a fronte della concessione di questa autonomia ha senso valutare scuole e insegnanti per il loro operato.
Si potrebbe obiettare che la correzione centralizzata di migliaia di prove non può essere fatta da un unico correttore e quindi comunque implica differenze di giudizio. In effetti, nei paesi in cui gli esami nazionali sono corretti centralmente, esiste un “corpo” specifico di persone che amministrano l’esame nelle scuole e correggono i compiti con criteri il più possibile uniformi, ma certamente non perfettamente identici. Tuttavia questi correttori non sono influenzati dagli incentivi distorti che operano quando a correggere sono gli insegnanti: quindi offrono maggiori garanzie di indipendenza e confrontabilità di giudizio. Ma una soluzione forse ancora migliore è quella dei test a risposta multipla che possono essere corretti elettronicamente in modo rapido e poco costoso. Sono test che fanno fatica ad essere accettati come validi in Italia, essenzialmente perché poco conosciuti e spesso male utilizzati. L’esperienza americana (vedi www.ets.org) tuttavia da tempo suggerisce che siano un modo efficace per valutare l’apprendimento e le capacità degli studenti in moltissimi campi del sapere.
Se il Ministro Gelmini volesse raccogliere questo suggerimento, potrebbe inserire già dal giugno 2009, in via sperimentale, una prova aggiuntiva nazionale amministrata e corretta in modo centralizzato negli esami di terza media e di maturità. Ci vorrà del tempo per affinare il metodo e integrarlo in un sistema di valutazione di insegnanti e scuole a cui sia stata preventivamente data l’autonomia di cui hanno bisogno. Ma sarebbe molto interessante confrontare subito i risultati del nuovo test con quelli della altre prove tradizionali, corrette localmente.
“Il Sole 24 Ore” del 23 luglio 2008

La maturità centralizzata

Bilancio degli esami di stato
di Michele Salvati
Come sono valutati gli esami che concludono la scuola media superiore, gli esami di Stato, quelli che una volta si chiamavano esami di maturità? Le commissioni d'esame sono composte da un presidente, che proviene da una scuola diversa da quella in cui si svolge l'esame, e da sei membri, tre professori dell'ultimo anno della scuola e tre provenienti da altre scuole. Un controllo «esterno», sia pur parziale, dunque esiste. Le valutazioni di queste commissioni hanno lo stesso valore legale: un 80 o un 100 ottenuto nell'istituto X della città A hanno lo stesso «valore» di un 80 o un 100 nell'istituto Y della città B.
Ma tutti sanno che ciò non corrisponde alla realtà. Presidente e professori esterni normalmente provengono da scuole vicine a quella in cui si svolge l'esame, e dunque da contesti socio- culturali analoghi. E quand'anche un esterno avesse standard rigorosi e volesse adottarli in una scuola dove si sono stabilizzati da tempo standard più bassi, normalmente non riuscirebbe a far prevalere la sua opinione, in presenza di docenti interni che «difendono» i loro studenti e di un presidente che cerca di sedare i conflitti e raggiungere rapidamente un risultato. Insomma, in alcune realtà didattiche locali, la scuola è una cosa seria, seri i commissari interni e esterni, seri i risultati degli esami di Stato. In altre realtà le cose non stanno così: gli 80 e i 100 ottenuti nelle due realtà corrispondono a livelli di competenze e conoscenze profondamente diversi. Due anni fa, commentando su questo giornale il dibattito che si svolge a metà agosto in Gran Bretagna, quando vengono pubblicati gli esiti degli esami che concludono la scuola media superiore e danno accesso all'Università (A level), avevo suggerito di introdurre anche in Italia il sistema di correzione centralizzata adottato in quel Paese.
Più esplicitamente è recentemente intervenuto in materia Andrea Ichino sul Sole 24 Ore e sono d'accordo con la sua analisi e le sue conclusioni. Prima domanda e risposta: serve un esame di Stato come quello italiano? No, non serve. Serve poco per promuovere uno sforzo addizionale di docenti e studenti, allo scopo di raggiungere risultati migliori: in molte situazioni l'esperienza insegna che si può intascare il certificato d'esame, e con buoni voti, anche con prove scadenti. Se così stanno le cose, non serve a chi voglia basarsi su quel certificato per valutare chi ha superato l'esame al fine di attribuire un lavoro, una borsa di studio, l'ammissione a un corso universitario con numero chiuso: gli stessi voti corrispondono a capacità e conoscenze molto, troppo, diverse. E non serve allo Stato, che è il responsabile del sistema dell'istruzione pubblica e dunque deve curarne la qualità: per farlo deve sapere quali sono le scuole buone o mediocri, e con il sistema di valutazione oggi in vigore non può certo scoprirlo.
Seconda domanda e risposta: è migliorabile l'impianto attuale di tantissime commissioni indipendenti distribuite sul territorio? Miglioramenti o peggioramenti sono sempre possibili: il regolamento odierno è probabilmente migliore di quello introdotto dalla ministra Moratti, che aveva abolito i commissari esterni. Le considerazioni che abbiamo svolto ci fanno però optare per una risposta negativa. Se entrambe le risposte sono convincenti, ne discende che le alternative sono due. Si aboliscano del tutto gli esami di Stato e si evitino sprechi e inutili fatiche: valgono, per quel che valgono, i voti dell'ultimo anno, e chi deve valutare gli studenti per ulteriori passaggi nella loro carriera (le università, i datori di lavoro, chi concede borse di studio...) stabilirà sistemi di accertamento e di valutazione propri. Oppure si proceda verso prove d'esame tutte scritte e valutate centralmente, com'è il caso del Regno Unito e di alcuni altri Paesi. È una soluzione che presenta problemi organizzativi non facili (ma risolvibili, visto che altri Paesi li hanno risolti), che non dà risultati perfetti e va tarato in continuazione.
Ma è una soluzione che riduce drasticamente le discrepanze oggi esistenti nel significato dei medesimi voti. E soprattutto farebbe emergere un grande problema della nostra scuola, una varietà regionale dei risultati didattici inaccettabile in un Paese che si pretende unito. Un esame di stato corretto centralmente non è che un gigantesco programma di valutazione, simile a quello che svolge l'Ocse (il famoso «Pisa», Programme for International Student Assessment) e che ci vede drammaticamente indietro rispetto a gran parte degli altri Paesi, soprattutto a seguito dei risultati infimi di alcune regioni. La valutazione sarebbe fatta a 18 anni invece che a 15; si svolgerebbe solo in Italia, dove però non sarebbe attuata su un campione ma sull'intera popolazione. Temo che i risultati sarebbero simili a quelli del «Pisa», ma l'impatto sull'opinione pubblica e sulle forze politiche sarebbe ben superiore e forse indurrebbe queste ultime a intervenire. O almeno così è lecito sperare.
“Corriere della sera” del 2 agosto 2008

Solzenicyn, un uomo contro il Gulag

Simbolo delle resistenza alla repressione sovietica
di Anna Zafesova

Erano in molti a sospettare che in realtà fosse immortale. Era sopravvissuto a tutto: la rivoluzione, la guerra, il Gulag, il cancro, il Kgb, l’esilio, tutte le cose peggiori che potevano capitare a un essere umano, in particolare a un russo, nell’ultimo secolo. Ma il suo non sembrava un destino comune, e certamente nei suoi lunghi anni di lotta personale al comunismo Aleksandr Isaevich Solzenicyn probabilmente avrebbe considerato improbabile morire come è morto ieri sera tardi: a Mosca, a casa sua, stroncato da un ictus a 89 anni.
Oggi toccherà agli onori di Stato, ai funerali solenni, alle condoglianze di leader politici e mostri sacri della letteratura. Ma l’uomo che è morto ieri a Mosca non era solo il Nobel per la letteratura, il più grande scrittore russo vivente, il padre del dissenso sovietico. Era il Novecento russo, dalla sua nascita nel 1918, a rivoluzione appena compiuta, a Krasnodar, figlio di contadini e di ufficiali imperiali, di quella vecchia Russia che veniva demolita proprio in quei giorni. Non c’è tragedia che non avesse vissuto sulla propria pelle: dal padre «nascosto» perché ufficiale dello zar, alla repressione di quella fede ortodossa nella quale era stato allevato dalla madre, all’incubo della guerra fatta da ufficiale di artiglieria, fino al Gulag - parola che proprio lui introdusse nel vocabolario di tutte le lingue - nel quale finì per aver criticato in una lettera Stalin, chiamandolo «baffone» e «capobanda». Otto anni di lager in base all’infame articolo 58 del codice penale, attività antisovietica, poi il confino «eterno» nelle steppe asiatische, dal quale è stato liberato da Krusciov, che nel 1962 da il suo consenso personale alla pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovich.
Aleksandr Isaevich viveva la sua battaglia contro il comunismo come una faccenda personale, decine di suoi critici l’hanno accusato di narcisismo e megalomania, eppure la denuncia dell’Arcipelago Gulag fu un colpo mortale al sistema, sia quando uscì in Occidente - comportando per lo scrittore il Nobel nel 1970 e l’arresto e l’esilio forzato per «alto tradimento» nel 1974 - sia quando, nel 1990, venne pubblicato per la prima volta in Russia, ancora sovietica, e nei vagoni della metropolitana non c’era nessuno che non avesse in mano la rivista sulla quale usciva a puntate.
Ma la Russia nella quale tornò nel 1994, in un lunghissimo viaggio in treno su tutta la Transiberiana lo dimenticò. Era in piena ebolizione il capitalismo di marca eltsiniana, di caos e kalashnikov, di sogno americano e delusione postsovietica, e il grande vecchio non tardò a mostrare tutto il suo disgusto. La sua trasmissione tv in prima serata, dove lui predicava la morale, la paziente ricostruzione del Paese a cominciare dal suo cuore rurale, il recupero dei valori della comunità, venne chiusa, ufficialmente per mancanza di audience. I suoi saggi di denuncia e disperazione come La Russia al collasso non facevano più discutere né nella metropolitana, né nei salotti. La Russia era troppo impegnata a sopravvivere.
Quello degli ultimi anni di Solzenicyn è stato forse un ennesimo esilio, stavolta non voluto da nessuno e per questo ancora più doloroso. Nel 1998 rifiutò clamorosamente la medaglia di Sant’Andrea dalle mani di Boris Eltsin, dicendo che non voleva l’onorificenza più alta della nuova Russia da un potere che «aveva distrutto il Paese». Ma questo gesto di estrema sfida passò quasi inosservato. Non poteva più fare battaglie col potere perché lo ignorava. Non era più al centro del dibattito letterario, al massimo qualche vecchia scaramuccia ereditata dagli anni ’70, come il cattivissimo pamphlet di Vladimir Voinovich «Ritratto sullo sfondo del mito» che ridicolizzava il vate della letteratura russa come egocentrico, monarchico, autoritario, antisemita, e soprattutto convinto di avere una missione superiore. Ma soprattutto non aveva più lettori: per i liberali era troppo reazionario con le sue denunce di «degrado dell’Occidente», la predica della religione e il suo saggio controverso Duecento anni insieme sulla storia degli ebrei in Russia, per i nazionalisti troppo lucido e moderato, per tutti gli altri troppo complicato e antiquato, incaponito a scrivere e riscrivere la sua sterminata epopea sul 1917 La ruota rossa, un groviglio di dettagli storici minuzioni, in un Paese che non voleva più lezioni di storia.
Negli ultimi anni Solzenicyn lo si vedeva quasi. Un isolamento rotto, un anno fa, da Vladimir Putin, che andò personalmente dal grande vecchio, ormai in carrozzella, a consegnargli il Premio di Stato per la sceneggiatura del Primo cerchio. Solzenicyn era diventato una fiction, e probabilmente si era rassegnato a questa nuova Russia, se non altro perché aveva fatto entrare in casa quel giovane presidente che era stato ufficiale di quel Kgb che lo aveva perseguitato. Fu l’ultima volta che i russi lo videro vivo.


“La Stampa” del 4 agosto 2008