16 luglio 2008

Il sembiante come ossessione cosmetica

Plastica per la figlia down
di Giuseppe Anzani
Gli occhi della bambina sono un po’ troppo distanti fra loro, le labbra sottili, il naso piatto, la lingua sporgente, il collo grosso, 'ci vorrebbe un intervento di chirurgia plastica a modificarne l’aspetto', così dice il papà. Correggere quei lineamenti del viso potrebbe 'rendere la vita più facile alla piccola e renderla più accettabile' in una società dove l’apparenza è tutto, così dice la mamma.
Il papà è un chirurgo plastico rinomato, la mamma è una donna bellissima, si dice un poco 'ritoccata'. Lei è una bambina di due anni, si chiama Ophelia, ed è una bambina 'down'. Un caschetto di capelli biondi è ciò che mostra la foto giustamente sfocata, e il pensiero rincorre l’immagine tenerissima di un sorriso di intensa e incomparabile affettuosità, qual è il sorriso dei down.
Rifarle il viso? Mi sforzo di intendere il proposito dei genitori su un versante positivo, come fosse la rimonta di un handicap, il contrasto di una disabilità, il desiderio una miglior protezione, la voglia di bene; ci metto anche il dolore, quel dolore che trova il suo picco quando sente il dolore del figlio e ne è trafitto. Ci provo. Ma quell’idea di stender la mano col bisturi a riplasmare il sembiante, quell’idea che vorrebbe vestire l’identità umana con la manipolazione dell’artificio, 'necessario' a definirla secondo quanto la 'società dell’apparenza' lo comanda, quell’idea coatta che ruba spazio all’istinto d’amore che vorrebbe allargate le braccia ad accogliere l’essere qual è, amato per se stesso, e invece piega la schiena al canone estetico fra gli ammessi e gli espulsi, finisce per togliere il respiro.
E sarebbe violenza, se si facesse. Leggo che il progetto dei genitori non è imminente e si proietta sul futuro, quando la figlia avrà 18 anni. Questo cambia orizzonte, quel che deciderà Ophelia da se stessa è un diverso problema. Ma in questo intervallo di vita in cui la sua vita fiorisce, quale sarà la suggestione muta di felicità o infelicità della vita che le viene dai genitori, di abbraccio o di repulsione sociale che le viene dai loro terrori o dai loro pregiudizi, quale sarà la comunicazione segreta sulla accettazione o sul rifiuto, sul valore o l’irrilevanza della sua attesa di amore?
È questa l’insidia di sventura, per lei e anche per i suoi genitori, per ogni figlio, per ogni essere umano che viene in questo mondo, abile o disabile quant’è, se ciò che ognuno di noi sperimenta nell’infanzia come 'il permesso di esistere' che vien dato dai primi referenti delle nostre coordinate identitarie, viene messo in forse, o piegato a una approvazione, ad una omologazione, persino ad un sembiante 'normalizzato', e dunque solo così divenuto 'accettabile'.
Senza integrazione affettiva suona falsa l’ossessione cosmetica, deficitario e devastante il suo tributo di angoscia. In faccia alle ipocrisie di una civiltà dell’apparenza, che invoca il sembrare come fuga dall’essere, il coraggio dell’amore non schiva la verità dell’handicap, della disabilità, del suo dolore e della sua speranza, della sua esigenza di un supplemento di relazione accogliente; e infine di quel suo misterioso laccio affettivo che risveglia ogni volta nella fragilità accolta e soccorsa la cifra della condizione umana che invoca. Invoca vita, quanto più è down. Restituisce alla vita il sorriso di un affetto che non ha pari.
«Avvenire» del 12 marzo 2008

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