04 marzo 2008

L’imperatore che si ritirò dall’Iraq

Colloquio con il direttore del British Museum, candidato alla guida del Metropolitan
Di Guido Santevecchi
Londra celebra Adriano: «Una figura di straordinaria attualità»
Le parole di Neil MacGregor, nella Great Court del British Museum, hanno il tono di un elogio funebre. Diciannove secoli dopo la morte dell’imperatore romano che Londra si prepara a celebrare con una grande mostra: Hadrian, Empire and Conflict, in programma da luglio a ottobre. Alle spalle del direttore del museo la testa di bronzo di Adriano domina la sala: l’artista romano-britannico l’aveva modellata dopo aver osservato da vicino il sovrano durante la sua visita a Londinium nel 122. Secoli dopo qualcuno la gettò nel Tamigi, da dove è riemersa nel 1834. Il direttore MacGregor ci parla in italiano, ma potrebbe esprimersi anche in latino, perché sente di essere un erede della grande costruzione imperiale di cui la Provincia Britannia faceva parte. «Abbiamo scelto di offrire Adriano ai visitatori come protagonista del 2008 perché pensiamo che questa figura classica abbia un rilievo nelle nostre vite ancora oggi, rappresenti la continuità della storia. Volete una prova? La sua prima decisione quando arrivò al potere nel 117 dopo Cristo fu di ritirare le legioni dalla Mesopotamia, l’Iraq di oggi. L’ordine partì poche settimane, forse pochi giorni soltanto dopo l’inizio del suo dominio. E poi la sua seconda priorità fu l’apertura di un negoziato con i Parti, i moderni iraniani», dice con un sorriso. E subito insiste con i paralleli, con i segni della continuità della storia: «C’erano rivolte dalla Mesopotamia alla Palestina, ai Balcani quando Adriano prese in mano le sorti del mondo». Iraq, Palestina, Kosovo, sembra di leggere i titoli dei giornali. Vuole forse dire che l’imperatore potrebbe suggerire qualche risposta al prossimo presidente degli Stati Uniti? Se fosse vivo oggi, invece che nella sua villa di Tivoli, Adriano potrebbe insediarsi alla Casa Bianca di Washington? MacGregor sta al gioco e replica deciso: «Israele non sarebbe d’accordo. Una sezione della mostra illustrerà la repressione della ribellione in Giudea, che rappresentò il volto brutale del suo potere. Scavi recenti hanno restituito reperti commoventi di quella campagna spietata: come alcune chiavi trovate dagli archeologi israeliani nel deserto. Le avevano portate nelle loro sacche dei fuggiaschi ebrei, erano le chiavi delle case in cui avevano sperato di poter tornare: ma i romani distrussero decine di città e villaggi e quella gente morì in una grotta». Anche Neil MacGregor potrebbe avere qualche motivo di risentimento storico nei confronti di Adriano. Il direttore viene dalla Scozia, che fu separata dal resto dell’isola con il Vallo Adriano. «Per noi è l’imperatore che ha fissato i confini tra l’Inghilterra e la Scozia, ma quel muro non era fatto solo per dividere, l’idea era di unire la Britannia governata dai romani con il resto dell’impero». Eppure uno studio che sta avendo un buon successo editoriale, An Imperial Possession, di David Mattingly, sostiene in termini revisionisti che l’impero romano non ha fatto alcun bene alla Britannia, che è stato un dominio militare di sfruttamento. MacGregor non è d’accordo: «Per me la presenza romana in Britannia è stato il fatto fondamentale di tutta la nostra storia, una circostanza molto felice, che ci ha legato al continente, ci ha reso parte delle grandi vicende del Mediterraneo. E il Vallo Adriano è in un certo senso un simbolo di questa nostra Gran Bretagna, della sua doppia natura, non interamente europea, in parte atlantica, fuori dall’Europa, una continuità affascinante». Però era pur sempre un muro, come quello di Berlino. Sembra ardito vederci qualcosa di positivo. «Quello di Adriano era una risposta intelligente a una crisi, come la decisione di ritirarsi dalla Mesopotamia, per fissare una frontiera difendibile dal punto di vista militare e politico. Certo, moralmente ogni muro è problematico». Ma la politica non è mai morale. MacGregor ride: «Lei viene dal Paese di Machiavelli, io no». Non è machiavellico, ma da quello che dice il direttore è evidentemente convinto che l’impero vittoriano britannico sia stato più vicino all’Antica Roma che non alla politica di superpotenza americana. «Sì, i due imperi sono molto simili, per la loro visione mondiale della civilizzazione e per l’eredità. Hanno lasciato lingue universali: il latino e l’inglese; un sistema legale: il diritto romano e il nostro common law; ed erano impegnati allo stesso modo nel campo delle comunicazioni: i romani hanno costruito una rete di grandi vie, noi la ferrovia. Erano due imperi molto pratici, che guardavano alla stabilità per garantire la libertà dei commerci e per questo hanno consentito diversità enormi al loro interno, hanno permesso ai popoli di mantenere tradizioni, religioni, in questo erano di massima tolleranza». Di Neil MacGregor si parla sempre come del possibile successore di Philippe de Montebello alla guida del Metropolitan Museum di New York. «Sto benissimo al British», replica senza esitazione il direttore scozzese. Forse pensa agli Uffizi? «Si guarda sempre agli Uffizi, con amore e nostalgia, ma io sono qui, nella più grande istituzione del mondo». Saluta e torna nel suo studio, forse a pensare alle sue legioni: quei cinque milioni e mezzo di visitatori che l’anno scorso sono entrati al British Museum.
«Corriere della Sera» del 18 gennaio 2008

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