19 marzo 2008

La tragedia è morta, resta solo il male

di Daniele Piccini
L’enorme attenzione prestata dai media al processo in corso sulla strage di Erba solleva alcune questioni, tanto più a pochi giorni di distanza dalle pronunce del Garante per le Comunicazioni contro programmi televisivi accusati di scimmiottare – tradendolo – il rito del dibattimento processuale. La costante presenza delle telecamere nell’aula del tribunale di Como, le cronache e le foto zoomate sui «mostri» di Erba dimostrano, se ce ne fosse bisogno, quanto più complessa sia la situazione. E cioè come ormai la logica dell’evento mediatico abbia stravolto il meccanismo del giudizio dall’interno, imponendo leggi estranee, di immediatezza, di effetto, di fibrillazione da audience, con un intreccio vizioso e non facile da sciogliere tra realtà del processo e sua recita a beneficio degli «spettatori».
Quanto visto nel tribunale di Como (biglietti per le udienze andate a ruba, clamori, curiosità voyeuristiche) fornisce spunti da non trascurare. La nostra società mediatizzata sembra non conoscere più luoghi di elaborazione del proprio senso del negativo, del «nero». Ogni qualvolta accada qualcosa di clamoroso in cronaca, orde di curiosi accorrono ad alimentare, vellicare, titillare un sentimento macabro su cui vale la pena riflettere. Ciò forse suggerisce che mancano, in una società cosiddetta avanzata, forme di mediazione simbolica in grado di innalzare la contemplazione del tragico al di sopra della morbosità. Lo spazio, per stabilire un paradigma, che la tragedia copriva nella civiltà classica, culminante in una catarsi, una comprensione purificatoria, rituale e comunitaria del demone della violenza, è diventato terra di nessuno: la televisione e sempre più spesso anche i media tradizionali (si leggano i resoconti giornalistici di questi giorni, tra patetico, splatter e morboso, naturalmente sotto il cappello del diritto di cronaca) ci si infilano come puri amplificatori, trasformando luoghi «maledetti» in occasioni turistiche. In effetti il senso del male nella società contemporanea sembra essere stato svilito fino a divenire una spezia: un genere letterario, appunto, o una palude in cui le pulsioni oscure della comunità-platea si rispecchiano con prurigine. Il male non dà segno, in queste vicende trasformate in telenovela o feuilleton, della sua natura terribile di spia, di polo tensivo che può al limite contenere il barbaglio, in negativo, di una moralità alta. Dostoevskij è stato colui che ha più affondato il bisturi nel male come fenomeno polare, come campo di tensioni e zona di massimo senso (al contrario della sua riduzione a cabaret nero). Qualcuno sa indicare un grande romanzo degli ultimi anni che faccia qualcosa di simile, che innalzi un fatto, una tragedia, un aneddoto di nera a caso morale, ad apologo rivelatore dell’abisso umano? Piuttosto è facile notare come sui giornali dei nostri giorni anche gli «scrittori» siano ingaggiati per proseguire sulla stessa nota il «genere»: per prolungare su carta l’ombra lunga dello spettacolo del male, sottratto a ogni comprensione profonda, a ogni Letteratura.
«Avvenire» dell’8 febbraio 2008

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