13 marzo 2008

Il libro al tempo dell’informatica

di Paolo Di Stefano
C ‘è un’utile concomitanza di uscite sul tema: la letteratura al tempo dell’informatica. Il saggio di Arturo Mazzarella, intitolato La grande rete della scrittura (Bollati Boringhieri), si è portato dietro una serie di interventi. Ed è stato accostato a una dichiarazione del «giovane scrittore» Pietro Grossi che ha confessato, con malcelata civetteria, di essere cresciuto a forza di librogame. Che non saranno libri-libri ma non sono neanche semplici videogame. Dunque non c’è da vergognarsene (o fingere di), come non c’è da vergognarsi, per tanti altri, di essere cresciuti a pane e fumetti. Ognuno cresce come gli pare. Quel che conta sono i risultati. E saranno gli altri a giudicarli. Fa un certo effetto, per esempio, leggere in una recensione di Cesare De Michelis sul Domenicale del Sole-24 Ore, come lo scrittore-questore Antonio Pizzuto - ormai pressoché dimenticato - rivendicasse a futura memoria, in una lettera al suo editore, l’eternità dei propri libri: «sopravviveranno, e non per qualche tempo, ma permanentemente in avvenire». Ora sembra che torni di moda un vecchio adagio: il romanzo è morto o moribondo. Leggendo queste dichiarazioni, il Piccolo fratello si è ricordato di una megaconferenza stampa organizzata 7 anni fa dalla Mondadori in cui si salutava l’avvento del famoso e-book, destinato a relegare in soffitta il libro tradizionale. Che ne è stato di quel «bambino in fasce», come lo definì allora uno scienziato di Microsoft? Morto in culla, a quanto pare. Anche se ancora nell’agosto 2004 Giulio Tremonti, dalle colonne del Corriere, tentava una disperata respirazione bocca a bocca auspicando che la scuola italiana dotasse di e-book i suoi studenti. Morto in culla: le librerie rimangono piene di quei «reperti archeologici» che sono i libri di carta. Ora il sociologo Alberto Abruzzese in un intervento che appare nel ricco volume La letteratura nell’era dell’informatica, a cura di Cesare Milanese (Bevivino Editore), predice la morte del «romanzo come noi lo abbiamo inteso storicamente, socialmente e culturalmente». Si tratta, secondo Abruzzese, di un monumento del passato: «Il romanzo è come una immane metropoli immersa nel mare», è come Venezia, una città morta visitata da flussi di turisti in estasi. Persino gli scrittori di fiction sono incapaci di rinnovarsi, di entrare in sintonia con l’epoca della multimedialità, della connettività e della telefonia mobile. Una prova? «La cultura imprenditoriale attuale sostiene ( ) che i professionisti di cui ha bisogno per acquisire creatività e innovazione non vengono più dalle discipline tradizionalmente concepite come organiche al lavoro di impresa, ma dalle filosofie». Insomma, il management industriale sa che sono i filosofi, non gli scrittori, ad avere espresso, negli ultimi decenni, «capacità immaginative straordinarie». Domanda: ma davvero la letteratura è stata finora una disciplina «organica»? Quanti scrittori (a parte in Italia la breve parentesi olivettiana) hanno prestato la loro «creatività» all’impresa? E in cambio dove sono «le filosofie» e i filosofi che oggi collaborano con l’industria digitale? Non sarà che i più creativi di tutti, quelli che «sopravviveranno permanentemente in avvenire», alla fine sono i sociologi?
«Corriere della Sera» del 22 gennaio 2008

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