13 marzo 2008

Giustizia condannata

Processi che non finiscono mai: 3.612 istruttorie contro le toghe e 3.612 assoluzioni
di Gian Antonio Stella
Sprechi, lentezze e 7,7 miliardi di euro 200 mila prescrizioni: record europeo
Cosa avete in agenda il 27 febbraio 2020? «Che razza di domanda!», direte voi. Eppure un paio di braccianti pugliesi, quel giovedì che arriverà fra dodici anni abbondanti, quando sarà un vecchio rottame (calcisticamente) perfino il baby Pato, hanno dovuto segnarselo su un quaderno: appuntamento in tribunale. Così gli avevano detto: se il buon Dio li manterrà in salute (hanno già passato la settantina: forza nonni!), se quel giorno non verranno colpiti da un raffreddore, se il giudice non avrà un dolore cervicale, se il cancelliere non sarà in ferie, se gli avvocati non saranno in agitazione, se l’Italia non sarà bloccata da uno sciopero generale con paralisi di tutto, se non mancherà qualche carta bollata, se non salterà la corrente elettrica, Sua Maestà la Giustizia si concederà loro in udienza. E potranno finalmente discutere della loro causa contro l’Inps. Dopo di che, auguri. Di rinvio in rinvio, col ritmo delle nostre vicende giudiziarie, già immaginavano una sentenza tra il 2025 e il 2030. Magari depositata, cascando su un giudice pigro, verso il 2035. Già centenari. Ma niente paura: sulla base della legge Pinto avrebbero potuto ricorrere in Appello contro la lentezza della giustizia. E ottenere l’«equa riparazione» per avere aspettato tanto. Certo, avrebbero dovuto avere pazienza: da 2003 al 2005 i ricorsi di questo tipo sono infatti raddoppiati (da 5.510 a 12.130) e in certi posti come Roma ci vuole già oggi un’eternità (due anni) per vedersi riconoscere di avere atteso un’eternità. Quanto ai soldi del risarcimento, ciao Le somme che lo Stato è costretto a tirar fuori ogni anno continuano a montare, montare, montare E per quella lontana data non è detto che ci sia ancora un centesimo. Il presidente di Cassazione Gaetano Nicastro, del resto, l’ha già detto: «Se lo Stato italiano dovesse risarcire tutti i danneggiati dalla irragionevole durata dei processi, non basterebbero tre leggi finanziarie». Diagnosi infausta confermata il mese scorso dal ministero dell’Economia. Secondo il quale i cittadini che hanno «potenzialmente diritto all’indennizzo» per i processi interminabili sono «almeno 100mila» l’anno. Mettete che abbiano diritto a strappare in media 7 mila euro ciascuno e fate il conto. Erano già rassegnati, i due braccianti, a darsi tempi biblici quando il Tribunale, per evitare una figuraccia, li ha in questi giorni richiamati: era tutto un errore, l’appuntamento è solo nel 2013. Ah, solo nel 2013! Solo fra cinque anni! Ecco com’è, il libro sulla giustizia italiana scritto da Luigi Ferrarella e titolato, con un malizioso richiamo alla dannazione eterna, «Fine pena mai»: un libro sospeso tra il ridicolo e l’incubo. Un formidabile reportage su un pianeta che tutti pensiamo di conoscere e che scopriamo di non conoscere affatto. Almeno non fino in fondo. Fino agli abissi di numeri e situazioni incredibili. Un racconto che trabocca di storie, aneddoti, personaggi curiosi e surreali ma che allo stesso tempo non concede un grammo al populismo, alla demagogia, al qualunquismo. E che proprio grazie a questa sobrietà ricca di humour ma esente da ogni invettiva caciarona, in linea con lo stile di Ferrarella che i lettori del Corriere bene conoscono, rappresenta la più lucida, netta e spietata requisitoria contro un sistema che rischia di andare a fondo. E di tirare a fondo l’intero Paese. Sia chiaro: non ci sono solo ombre, nella giustizia italiana. Di più: se ogni giorno si compie il miracolo di tanti processi che arrivano in porto, tante udienze che vengono aperte, tanti colpevoli che finiscono in galera e tanti innocenti che ottengono l’assoluzione, è merito di migliaia di persone perbene, giudici, cancellieri, impiegati, fattorini, che si dannano l’anima in condizioni difficilissime. Se non proprio disperate. Ma certo, anche le luci mostrano quanto sia buio il contesto. Bolzano, che nonostante un buco del 45% negli organici riesce ad aumentare la produttività, ridurre l’arretrato e insieme dimezzare le spese abbattendo addirittura del 60% i costi delle intercettazioni fa apparire ancora più scandalosi i contratti stipulati separatamente dai diversi tribunali per l’affitto delle costose apparecchiature necessarie al «Grande Orecchio», affitto che configurava «uno sconcertante ventaglio dei costi da 1 a 18 per lo stesso servizio». Torino, «capace tra il 2001 e il 2006 di ridurre di un terzo il carico pendente del contenzioso ordinario civile: una performance che, se imitata da tutti i tribunali italiani, in cinque anni avrebbe ridotto di 238 giorni il tempo medio di attesa di una sentenza civile» dimostra quanto siano incapaci di una reazione all’altezza la stragrande maggioranza degli altri uffici, dove si è accumulato un «debito giudiziario» spaventoso: «4 milioni e mezzo di procedimenti civili e 5 milioni di fascicoli penali». Una «macchina» sgangherata e infernale. Che «consuma più di 7,7 miliardi di euro l’anno» e per cosa? «Per impiegare in media 5 anni per decidere se qualcuno è colpevole o innocente; per far prescrivere da 150 a 200mila procedimenti l’anno, record europeo; per incarcerare ben 58 detenuti su 100 senza condanne definitive; per dare ragione o torto in una causa civile dopo più di 8 anni, per decidere in 2 anni un licenziamento in prima istanza; per far divorziare marito e moglie in sette anni e mezzo; per lasciare i creditori in balia di una procedura di fallimento per quasi un decennio; per protrarre 4 anni e mezzo un’esecuzione immobiliare». Ma certo che ci sono raggi di sole. A Milano, per esempio, dall’11 dicembre 2006 si possono «emettere decreti ingiuntivi telematici. Il risultato del primo anno è stato fare guadagnare a cittadini e imprese richiedenti dai 12 ai 14 milioni di euro: cioè i soldi fatti loro risparmiare, nella differenza tra costo del denaro al 4% e tasso di interesse legale al 2,50%, dal fatto di poter disporre con quasi due mesi d’anticipo dei 700 milioni di euro che costituiscono il valore dei circa 3.500 decreti ingiuntivi emessi. Un effetto leva pazzesco: 100mila euro spesi per investire nella tecnologia, ma già 12-14 milioni di euro di ritorno per la collettività nel primo anno». Qual è la lezione? Ovvio: occorre assolutamente investire sulle nuove tecnologie. Macché. «Fine pena mai» dimostra che, dovendo tagliare e non avendo il fegato di tagliare là dove si dovrebbe ma dove stanno le clientele, le amicizie, le reti di interessi, hanno via via deciso di tagliare in questi anni perfino le email, gli accessi a Internet, l’acquisto di programmi elettronici, la messa a punto di software specifici, l’assistenza informatica. L’ultimo somaro sa che se non puoi contare su un’assistenza efficiente, addio: il tuo computer può improvvisamente diventare inutile come un’auto senza ruote. Bene: su questo fronte «la disponibilità del ministero per il 2006 copre appena il 5% del fabbisogno annuale». Auguri. Per non dire del casellario ancora aggiornato in larga parte manualmente e che dovrebbe diventare totalmente informatico quest’anno (e vai!) nonostante dovesse esserlo già dal 1989 (diciotto anni fa) e per questa sua arretratezza ha consentito ad esempio a una nomade «fermata in varie città 122 volte per furti o borseggi, e condannata a segmenti di pena di 6/9 mesi per volta» di totalizzare «in teoria 20 anni di carcere senza mai fare nemmeno un giorno in prigione». Colpa dei ministri di destra e di sinistra che si sono succeduti ammucchiando «troppe riforme» spesso in contraddizione l’una con l’altra. Del Parlamento che ha via via affastellato leggi su leggi votando ad esempio 19 modifiche alla custodia cautelare in tre decenni. Dei politici che non hanno mai trovato la forza, il coraggio, lo spirito di servizio per dare «insieme» una nuova forma a un sistema giudiziario che ormai è così sgangherato che riesce a recuperare «soltanto dal 3% al 5%» delle pene pecuniarie, con una perdita secca annuale di 750 milioni di euro, cioè sette miliardi in un decennio, «nonché di 112 milioni di euro di spese processuali astrattamente recuperabili». Così cieco che, taglia taglia, offre per le spese agli uffici giudiziari di Campobasso 138 mila euro e poi ne spende un milione, sette volte di più, per risarcire i cittadini vittime della giustizia troppo lenta anche per mancanza di fondi. E i magistrati? Tutti assolti? Ma niente affatto, risponde Ferrarella. Il quale non fa sconti a nessuno. E se riconosce qualche buona ragione a chi tende a inquadrare certi ritardi «nel contesto», contesto che è «il migliore avvocato difensore» del giudice sotto accusa, non manca di denunciare assurdità che gridano vendetta. Possibile che perfino chi si «dimenticò» in galera 15 mesi un immigrato se la sia cavata con una semplice censura perché «era la prima volta»? Che non abbia pagato dazio neanche chi ha depositato sentenze «riguardanti cause decise più di sette anni prima»? Che 3.612 istruttorie aperte per accertare la responsabilità delle «toghe» in 3.612 casi di indennizzo per processi troppo lenti si siano concluse con 3.612 assoluzioni?
«Corriere della Sera» del 22 gennaio 2008

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