22 gennaio 2008

La 194, una conquista di civiltà? No, questo non ditelo

A proposito di affermazioni di Veltroni, ma non solo
di Francesco D’Agostino
Apprezzo molto il fatto che Walter Veltroni reputi non banale né strumentale il dibattito che si è riacceso in merito all’aborto e che si dichiari disponibile a misurarsi con autentica disponibilità dialogica su questo tema.
Apprezzo di meno che egli abbia dichiarato con perentorietà che «la legge 194 non si tocca» (in politica non si dovrebbe mai dire mai). Ciò che non apprezzo affatto, invece, è che per lui la legge 194 sia «una conquista di civiltà, che deve essere difesa». Chiunque sia convinto che la vita umana prenatale è ben altro che «una macchia di gelatina fetale» (come incredibilmente l’ha definita sulla
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Antonio Scurati), non può qualificare «conquista di civiltà» una legge che, in qualsiasi modo la si voglia leggere, legittima la soppressione di una vita.
Insomma: esistono forse ragioni politiche che giustificano la difesa della legge 194 (del tipo: «la legge 194 è una legge 'imperfetta' e ritoccarla potrebbe paradossalmente 'peggiorarla'»); si può anche ritenerla un «male necessario», tuttavia è impossibile valutarla come un «bene». Tuttavia, Veltroni è di questa opinione, e la motiva. La legge sarebbe una «conquista di civiltà» in quanto avrebbe contribuito: a) ad abbassare il tasso di interruzioni di gravidanza – ridottosi del 44% – e a debellare la piaga degli aborti clandestini; b) a difendere «la salute e la dignità di tante donne». Analizziamo separatamente i due argomenti. Non entro in merito alla correttezza dell’analisi statistica fornita da Veltroni, anche se sappiamo tutti che in Italia i dati statistici sono sempre molto opinabili. Diamoli comunque per accertati. Ciò che li rende poco utilizzabili nel nostro dibattito è il fatto che si sarebbero potuti ottenere dati analoghi, attivando misure alternative e ben diverse di contenimento della piaga dell’aborto clandestino. Siamo certi che, attraverso forti e innovative politiche di sostegno economico, psicologico e sociale a favore delle donne e delle famiglie, non si sarebbe potuto ridurre comunque il tasso di abortività, senza sacrificare centinaia di migliaia di vite umane prenatali? Proporre una moratoria sull’aborto significa anche proporre un grande e provocatorio esperimento sociale: sospendiamo la pratica dell’aborto – almeno in parte e soprattutto per i casi in cui non siano in gioco reali questioni di salute fisica delle donne – e nello stesso tempo impegniamoci strenuamente nella difesa della maternità e della famiglia: potremmo accorgerci, a conti fatti, di poter ottenere gli stessi risultati che rendono, secondo Veltroni, «intangibile» la legge 194.
Un simile impegno sì che meriterebbe di essere lodato con l’impegnativa espressione «conquista di civiltà». Aggiunge Veltroni (e questo è il suo secondo argomento): la legge 194 ha comunque difeso la salute e la dignità di tante donne. L’affermazione sembra molto chiara, mentre è molto ambigua. Quanto alla salute, tranne casi rarissimi (per i quali comunque agisce l’esimente dello stato di necessità) non si ravvisano oggi ipotesi terapeutiche che giustifichino un aborto. Alla donna che ha motivazioni abortive extra­sanitarie così forti, da indurla a ricorrere comunque all’aborto clandestino, non andrebbe offerta come alternativa di «civiltà» la legalizzazione dell’aborto, ma l’efficace rimozione delle ragioni (economiche, psicologiche e sociali) che l’inducono a una scelta così tragica e che una semplice legislazione abortista non è assolutamente in grado di rimuovere. Ancora più ambiguo il riferimento alla 194 come legge che tutela la «dignità» della donna. Ora, lo stesso Veltroni nega che la donna abbia un «diritto assoluto» all’aborto: questo significa (dato che alle parole va data la valenza che ad esse spetta) che per la nostra legge le scelte abortive non possono essere ritenute «insindacabili». Quindi, non è vero che la legge 194 tuteli davvero la dignità della donna; essa tutela solo il suo eventuale «interesse» all’interruzione della gravidanza, bilanciandolo (in modo peraltro incredibilmente modesto!) con la tutela che la stessa legge si impegna a riconoscere alla vita umana «fin dal suo inizio». Ma soprattutto, ammesso e non concesso che la legge tuteli davvero la dignità della donna, possiamo sottacere il fatto che essa non tutela in alcun modo la dignità dell’uomo?
La legge infatti non prende in considerazione sotto nessun profilo l’eventuale interesse del partner della donna (e padre del bambino) ad opporsi all’aborto, impegnandosi ad esempio a rimuovere radicalmente le eventuali ragioni economiche che la donna possa addurre per giustificare la propria scelta abortiva. Una vera conquista di civiltà sarebbe quella di una legge che rispettasse e promuovesse assieme maternità e paternità e non escludesse l’uomo da una decisione femminile che comunque lo coinvolge. Non lasciamoci intrappolare da riferimenti illuministici a pretese «conquiste di civiltà»; quello che qui è in gioco è la sostanza antichissima, direi archetipica, della nostra identità umana: dare la vita e dare la morte, diventare madri e diventare padri, accogliere i propri figli.
«Avvenire» del 19 gennaio 2008

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