19 dicembre 2008

A Torino un risveglio che apre speranze

Parla Canavero, il medico che con nuove tecniche sta risvegliando una paziente in stato vegetativo
di Daniele Raineri
Il professore Sergio Canavero ha distrutto la “barriera dell’irreversibilità”. Una sua paziente – una ragazza ventenne in coma dopo un incidente automobilistico – ha fatto al contrario il viaggio buio e muto che fino a oggi, per la scienza medica, era di sola andata: dallo stato vegetativo permanente è tornata allo stato “minimamente conscio”. Vuol dire che il cervello della ragazza – grazie all’intervento di Canavero e dell’altro membro dell’équipe, Barbara Massa Micon – ha riattivato i circuiti della coscienza: può obbedire agli ordini, come “muovi la mano” e “alza la mano”, e soprattutto può di nuovo masticare e deglutire.
La ragazza ha preso quattro chilogrammi di peso negli ultimi mesi, perché ha riacquistato quella minima capacità di nutrirsi che Eluana Englaro non ha e Terri Schiavo non aveva. I familiari – che ai giornali hanno detto di capire le scelte di Beppino Englaro “perché sono casi tremendi” – chiedono allo staff di andare avanti e di proseguire con le cure, che già dopo quattro mesi hanno dimostrato di essere efficaci. Potrà tornare alla normalità? Canavero è cauto, ma non esclude che in futuro ci possano essere ulteriori miglioramenti. “Non c’è nulla di certo in medicina, ma alla stimolazione potremo in seguito affiancare anche un intervento al midollo spinale con l’utilizzo di cellule staminali”.
“E poi esistono altre ricerche che ci danno speranza, per esempio quelle usate in Israele sui disabili, riescono a interfacciare il cervello del paziente con le sue protesi”. La stimolazione corticale è il passo cruciale, le interfacce computerizzate potrebbero poi restituire al disabile un controllo sempre più pieno e naturale del corpo.
Canavero in questo momento è il ricercatore che ha toccato il punto più avanzato nel suo campo. Che cosa pensa del caso di Eluana Englaro e di Terri Schiavo, a cui fu proprio staccato il sondino per l’alimentazione? La nuova tecnica potrebbe essere applicata anche a loro? “Non conosco da vicino i casi specifici: per esempio la Englaro potrebbe essere troppo debilitata e denutrita, non in condizione di essere operata”. Ma la sua tecnica offre speranze? “Certo. È riproducibile su pazienti diversi. Se la notizia viene fuori oggi è soltanto perché il Journal of Neurology, ha accettato la pubblicazione dei miei risultati, sottoposti alla peer review, la revisione dei dati scientifici eseguita da colleghi ricercatori”. Quindi, ci sono rimpianti? Ci sono vite che potevano essere salvate? “Ci sono rimpianti, sì, per le condizioni in cui lavoriamo, questa tecnica è possibile soltanto oggi, ma nessuno ci ha mai aiutato o appoggiato, abbiamo fatto tutto da soli senza fondi e finanziamenti, perché non apparteniamo a nessun partito e non siamo iscritti alla massoneria”.
«Il Foglio» del 19 dicembre 2008

18 dicembre 2008

La giustizia

Consiste nel dare a ciascuno il suo, il suo fondamento poggia sulla natura umana, e si suddivide in commutativa, distributiva e legale
Di Laura Boccenti
Che cosa sia la giustizia oggi non è più tanto evidente; ne sono prova le contese intorno a concetti fondamentali come quello dei «diritti umani», della «guerra giusta», dell'eguaglianza dei diritti, della pena di morte, etc.
Troppo spesso trascuriamo la memoria delle conoscenze che le generazioni passate hanno raggiunto. Tra le molte definizioni trasmesse dal pensiero classico-cristiano la più semplice ed essenziale mi sembra questa: la giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo.


Che cosa significa «a ciascuno il suo»?
Perché si deve dire che a qualcuno spetti qualcosa al punto tale che gli altri uomini hanno il dovere di riconoscerla?
Se l'atto della giustizia sta nel dare a ciascuno il suo, prima della giustizia viene l’atto con cui qualcosa diventa per una persona «il suo», cioè prima della giustizia c’è il diritto, ciò che «spetta».
Il fondamento del diritto e quindi della giustizia poggia sulla natura umana. L'uomo è soggetto di diritti irremovibili perché si è trovato come persona. Nella «Summa con tra gentiles» san Tommaso scrive: «È con la creazione che l'essere creato comincia per la prima volta ad avere qualcosa di proprio»; da quel momento l'uomo è detentore e portatore del «suum».
La giustizia regola le relazioni dell'uomo con gli altri di modo che il diritto venga riconosciuto e rispettato.
Il riconoscimento dell'altro si oppone direttamente all'ingiustizia; esso impedisce le possibili violazioni del vincolo comunitario e innanzitutto impedisce che l'altro, che è soggetto, sia trattato come oggetto. Per essere giusto l'uomo deve non solo «fare» ciò che fa la persona retta, ma deve anche essere retto interiormente, cioè l'azione esterna deve essere espressione della volontà interiore di riconoscere l'altro e convalidarlo in ciò che gli «spetta». Ciò che gli «spetta» può e deve essere determinato oggettivamente.

Forme fondamentali della giustizia
Poiché il «luogo» in cui si realizza la giustizia è la vita di relazione bisogna domandarsi quando i rapporti sociali siano secondo giustizia.
Secondo san Tommaso nella società c'è giustizia quando le tre relazioni fondamentali della vita collettiva sono ordinate. Si tratta:
1. delle relazioni dei singoli tra loro;
2. delle relazioni della collettività con i singoli;
3. delle relazioni dei singoli con la collettività.
A ognuno di questi rapporti corrisponde una forma fondamentale di giustizia: la giustizia "commutativa" regola il rapporto del singolo con l'altro singolo, la giustizia "distributiva" regola il rapporto della realtà collettiva con i singoli, la giustizia "legale" regola il rapporto dei singoli con il "tutto sociale".
Portatore e attuatore di tutte le forme di giustizia è sempre l'uomo, che però è chiamato in causa in maniera diversa all'interno delle diverse relazioni.

La giustizia commutativa
La giustizia commutativa chiede all'uomo che riconosca a colui che gli è estraneo e indifferente o che addirittura sente come antagonista ciò a cui ha diritto, niente di più e niente di meno. Per san Tommaso l'atto fondamentale della giustizia commutativa consiste nella «restitutio», cioè nella reintegrazione. «Restitutio» significa reintegrare qualcuno nel possesso di ciò che gli appartiene. Parlando di restituzione o reintegrazione, san Tommaso sembra suggerire l'ipotesi del risarcimento di un danno come se ogni atto buono fosse il pagamento di un debito. Una spiegazione convincente di questa affermazione un po' sorprendente viene data da Josef Pieper, il quale osserva che è corretto considerare ogni atto giusto come una reintegrazione se si considera la situazione storica dell'uomo. Tale situazione è caratterizzata dalla costante necessità di reagire al turbamento portato dal disordine e dal venire meno della giustizia. È una condizione bisognosa di continua reintegrazione e di compensazione per sopperire al venir meno del diritto. La giustizia deve essere reintegrata anche quando non c'è un torto da riparare, perché l'agire umano rende debitori o creditori coloro che partecipano alla relazione interpersonale. Perciò ogni pretesa di determinare una situazione di reintegrazione definitiva è destinata al fallimento.

Giustizia distributiva o «di governo» e giustizia legale
Il discorso sulla giustizia distributiva e legale riguarda i reciproci rapporti tra singolo e autorità. Questione delicata quando si è abituati a leggere questo rapporto o in termini di primato dell'individuo o in termini di primato della collettività.
La giustizia distributiva è la virtù che riguarda l'uomo in quanto detiene un'autorità politica, sociale o economica: è l'autorità che deve dare ai singoli membri della comunità ciò che loro compete proporzionalmente alla dignità, ai meriti e alle necessità di ciascuno.
Il modo in cui l'autorità deve qualcosa ai singoli è diverso dal modo in cui un creditore deve qualcosa a un debitore nella giustizia commutativa, perché in quest'ultimo caso si tratta di beni individuali e non entra in gioco il bene comune.
L'autorità non determina la giusta perequazione per i singoli considerando solo il valore oggettivo in questione (per esempio il giusto prezzo di qualcosa), ma anche e soprattutto la persona con cui ha a che fare e la sua situazione (es. il risarcimento per danni di guerra o di calamità).
Se è giusto riconoscere allo Stato, in caso di necessità, il diritto di disporre della libertà, della salute e persino della vita dei singoli, in che senso si può dire che ogni uomo ha dei diritti irremovibili davanti allo Stato?
Che fare quando l'autorità pubblica non tutela la giustizia, per esempio imponendo leggi ingiuste? Davanti all'ingiustizia oggettiva nasce il diritto alla resistenza, il dovere di rifiutare l'adempimento della legge iniqua.
La giustizia legale è la virtù che inclina i membri del corpo sociale a dare alla società tutto ciò che le è dovuto in ordine al bene comune. Si chiama legale perché si fonda sull'esatta osservanza delle leggi che, quando sono giuste, obbligano in coscienza, e talvolta, siccome il bene comune prevale sul bene particolare, gli uomini sono obbligati per giustizia a sacrificare una parte dei loro beni o anche a impegnare la propria vita in difesa del bene comune.

«Il Timone» del gennaio 2005

J. Rawls, Una teoria della giustizia (1982)

La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri…Di conseguenza, in una società giusta sono date per scontate eguali libertà di cittadinanza; i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del calcolo degli interessi sociali…un’ingiustizia è tollerabile solo quando è necessaria per evitarne una ancora maggiore. Poiché la verità e la giustizia sono le virtù principali delle attività umane, esse non possono essere soggette a compromessi.
J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, 1982

C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764)

Osservate che la parola diritto non è contraddittoria alla parola forza, ma la prima è piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione più utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari, che senz’esso si scioglierebbono nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola giustizia l’idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell’altra sorta di giustizia che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire.
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Cap. II, (pubblicato nel 1764)

«Libertà di cura»: analisi di un appello sbagliato

Ha come primo firmatario Ignazio Marino il testo che invoca «il diritto alla libertà di cura», lanciato da «Repubblica» e sottoscritto da alcune celebrità Ma un’attenta analisi svela alcune sottili mistificazioni di cui si nutre il dibattito sul fine vita
di Claudio Sartea
Su un importante quotidiano nazionale ( Repubblica) sono stati segnalati nei giorni scorsi la redazione e l’invito alla sottoscrizione di un «Appello per il diritto alla libertà di cura», avente come primo firmatario Ignazio Marino, chirurgo e senatore (Pd). Alla sua seguono diverse altre firme di noti personaggi del mondo dello sport, della comunicazione e dello spettacolo, della scienza e della medicina. La singolare composizione della lista dei «primi firmatari», e il fatto che l’appello risulti sottoscritto da un medico che è anche senatore da due legislature e in precedenza aveva depositato un disegno di legge in materia di testamento biologico, sembrano voler indicare una consistente rappresentatività sociale dell’appello. Tra le righe di quest’elenco di firme pare di intravedere un richiamo alla trasversalità socio-culturale dell’esigenza di rivendicare siffatto «diritto alla libertà di cura»: se premi Nobel e allenatori di football, se registi e segretari generali di confederazioni sindacali, se medici e giornalisti appellano all’unisono, allora – si è indotti a credere – è l’intera società civile a mobilitarsi per quei contenuti, quei principi, quei valori. «Il Parlamento – asseriscono infatti gli appellanti – deve tenere conto dell’orientamento generale degli italiani».
L’appello prende anzitutto atto del faticoso itinerario politico e parlamentare che sembra oggi approdare alla discussione e al voto di una legge sul testamento biologico – la ricostruzione dell’appello chiama in causa, come scintilla detonatrice, «l’onda emotiva legata alla drammatica vicenda di Eluana Englaro ». Dopo questa premessa, incontriamo finalmente i contenuti: che commenteremo suddividendoli nei tre punti che si sembrano cruciali nell’appello e nel pubblico dibattito che sta accompagnando la riflessione sulle tematiche di fine vita in queste settimane.

1. L’interpretazione della Costituzione.
«Rivendichiamo l’indipendenza dei cittadini nella scelta delle terapie, come scritto nella Costituzione». Questa «rivendicazione» – e spiace notarlo giacché si tratta della prima affermazione dell’appello e del suo stesso sottotitolo («Rispettiamo l’Articolo 32 della Costituzione») – è purtroppo assai apodittica.
Visto che, proprio nel momento in cui celebriamo i sessant’anni della nostra Carta fondamentale (tra le tante manifestazioni, si segnala in questi giorni il Convegno nazionale dell’Unione giuristi cattolici), a essa si fa anzitutto riferimento, è opportuno ricordare che l’articolo 32, nel suo tenore letterale, dopo aver definito la salute quale «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Com’è chiaro, non si parla di «indipendenza», né di «scelta delle terapie»: in generale, non fa parte della norma alcuna positiva tutela dell’autodeterminazione del paziente, alcun rafforzamento giuridico della sua volontà tale da attivare vincoli per il medico, limitandosi essa (giacché era di questo che allora si sentiva il bisogno) a garantire l’individuo da ogni coercizione sanitaria non prevista dalla legge. Il riferimento alla «dignità», inoltre, ha la funzione di clausola «di chiusura» con cui si tracciano limiti inoltrepassabili anche alla stessa riserva di legge, in base a una considerazione obiettiva della dignità della persona.
Paradossale riuscirebbe allora un’interpretazione della dignità umana in senso soggettivistico: ricondotta alla sfera delle intenzioni e volizioni, la si rende esattamente il contrario di quel che i Costituenti intendevano, cioè relativa e disponibile.
Pertanto, allorché gli appellanti parlano di terapie e trattamenti medici «imposti dallo Stato contro la volontà espressa del cittadino», essi sembrano voler evocare una fantomatica battaglia tra il paziente e una burocrazia medico-politica congiurante contro i corpi dei cittadini per interessi inimmaginabili e quindi inconfessabili.


2. La medicina come minaccia.
In ogni dramma che si rispetti è necessario contrapporre i portatori di interessi in conflitto, affinché la scena sia costantemente animata da una tensione che riflette la vita e ne simula le interne inquietudini, le angosce e le speranze che muovono o inibiscono i protagonisti. Ob- scaena, fuori dalla scena, rimangono soltanto le inerzie non rappresentabili, o la «oscenità» insopportabili del dolore, della solitudine nella sofferenza, della morte. (Per inciso, osservo che sul piano processuale la vera tragicità della vicenda di Eluana – come la Sezioni Unite della Corte Suprema hanno avuto la fredda lucidità di metterci sotto gli occhi – è consistita proprio nell’assenza di controinteressati: sicché la nomina di un curatore speciale, nella persona di uno degli avvocati di famiglia, effettuata proprio su indicazione della Cassazione nel 2005, non ha realmente sortito l’effetto di avviare un contraddittorio: e come avrebbe potuto? In tal senso, la vicenda si riduce incredibilmente ad affare privato, e nel processo civile, come hanno remissivamente concluso le Sezioni Unite, il pubblico ministero è «carente della legittimazione» a proporre impugnazione). Ebbene, nell’odierno appello la dialettica tra le parti sulla scena viene costruita proprio evocando scenari kafkiani: in cui da una parte abbiamo uno «Stato» che da posizioni di forza conculca, con la scusa della necessità clinica e quindi con la complicità del personale sanitario, le libertà fondamentali dei suoi sudditi, e dall’altra incontriamo il paziente con tutta la sua debolezza, che ricattato in base a una manipolazione abusiva del diritto alla salute, si trova soggiogato a un insostenibile «dovere alle terapie».

3 Il delirio di competenza.
In questo scenario, davvero inquietante, nessuno esiterebbe a schierarsi dalla parte degli appellanti, esigendo a gran voce il rispetto del «diritto di ogni persona a poter scegliere», e «la possibilità di indicare, quando si è pienamente consapevoli e informati, le terapie alle quali si vuole essere sottoposti, così come quelle che si intendono rifiutare, se un giorno si perderà la coscienza e con essa la possibilità di esprimersi». Solo così, infatti, è possibile rendere equilibrata e quindi ammissibile la dialettica scenica: evocando un paziente standard, fornito di informazioni dettagliate ed esaurienti, dotato di una consapevolezza cristallina. Soprattutto, egli dev’essere munito di una fantastica capacità previsionale: quasi profeta delle proprie sorti, egli viene immaginato in grado di trasferirsi nel proprio futuro clinico e dettare volontà efficaci perché adeguate alle circostanze future delle proprie condizioni e delle acquisizioni mediche. Non pare tuttavia troppo realistico questo quadro: e non lo è, oltre che per gli ovvi motivi legati alla condizione temporale dell’uomo e all’imprevedibilità del futuro, per un’ulteriore, più decisiva ragione. È incongruo infatti configurare in chiave dialettica, persino conflittuale, la relazione paziente-medico (e sul punto si veda, agevolmente reperibile nel sito del Comitato nazionale per la bioetica, il recente, soffertissimo parere su «rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario» approvato il 24 ottobre, in particolare le postille): né la giuridificazione – fenomeno del nostro tempo che cerca disperatamente di sopperire alla perdita di fiducia nelle relazioni sociali e professionali – né la semplice paura del dolore e della morte possono giustificare una simile, aberrante metamorfosi nella fisiologia (non ovviamente nelle possibili patologie) di un rapporto che, primariamente, chiede di essere restituito alla sua essenziale dimensione umana e professionale.
«Avvenire» del 4 dicembre 2008

Eutanasia: parole chiare per non bluffare

di Michele Aramini
Alle parole occorre dare il loro significato, senza lasciare che gli slogan e le opinioni per sentito dire abbiamo il sopravvento sui ragionamenti basati su dati di fatto e definizioni adeguate.È il motivo di questa pagina dove vengono puntualizzati alcuni dei termini delle questioni dibattute in questi giorni in tema di eutanasia, testamento biologico, accanimento terapeutico e libertà di essere o meno curati secondo la propria volontà.Ci guida Michele Aramini, autore di alcuni volumi di bioetica (nel 2006 un «Manuale di bioetica per tutti») e docente di Introduzione alla teologia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.Si sentono spesso discorsi che puntano sull'emotività dei casi limite, cioè di quei malati in condizioni talmente dolorose e senza speranza di recupero, da suscitare profonda compassione in chiunque.Ma che qualcuno traduce nella possibilità, per far cessare le sofferenze, di «uccidere per amore», una contraddizione in termini. Dimenticando che le moderne terapie sono in grado, quando non è più possibile curare una malattia irreversibile, almeno controllarne l'aspetto più angosciante: il dolore.Viene spesso sottolineato anche il tema della libertà e dell'autodeterminazione dell'individuo, volutamente ignorando - come la saggezza popolare riconosce da tempo - che nessun uomo è un isola, che le nostre esistenze sono inevitabilmente intrecciate a quelle dei nostri simili nelle comunità in cui viviamo. E che in nessun modo un medico - che ha giurato sul testo di Ippocrate «di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente» - potrebbe essere obbligato a compiere atti eutanasici, pena l'abdicare totalmente alla propria missione.Perché continuiamo a ritenere che chi si dedica all'arte medica non abbracci solo una professione, spesso remunerativa, ma abbia in animo anche di dedicarsi - operando in scienza e coscienza - al bene dei suoi simili.

EUTANASIA
CAUSARE VOLUTAMENTE LA MORTE DI UN PAZIENTE

Il Comitato nazionale per la Bioetica (Cnb) ha definito l'eutanasia come l'uccisione «diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta» (documento del 14 luglio 1995). In altri termini essa consiste nel mettere in atto, intenzionalmente e volontariamente, azioni o omissioni che causano direttamente la morte di un paziente che si trovi nello stadio terminale della malattia di cui è affetto e che abbia chiesto o chieda di morire. Nella stessa linea si pone l'enciclica «Evangelium vitae» (n. 65): «Per eutanasia in senso vero e proprio - vi si legge - si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore». I significati della parola eutanasia sono mutati nel corso del tempo. Nella cultura romana aveva principalmente il significato di «morte bella», nel senso anche di eroica. Oggi si intende invece l'«uccisione intenzionale attuata con metodi indolori per pietà». Non si può parlare di eutanasia nel caso di una persona che non sia morente oppure sia affetta da una malattia che, per quanto dolorosa, non la conduca necessariamente e rapidamente alla morte. Si può parlare della distinzione tra eutanasia diretta e indiretta. La prima è quella che abbiamo definito, la seconda è quella che si produce come effetto secondario di un trattamento medico, quale la terapia antidolorifica.

CURE PALLIATIVE
Presa in carico totali di chi si avvia al tramonto della vita

Il punto qualificante delle cure palliative è quello di essere cure attive e globali, effettuate sulle persone affette da un male inguaribile, in cui le cure specifiche per la malattia non hanno alcuna risposta. Il loro obiettivo è quello di non prolungare la vita, ma di migliorarne la qualità alleviando le sofferenze.Per definizione le cure palliative sono multidisciplinari. Infatti del malato non si prende cura solo il medico, ma anche l'infermiere, lo psicologo, il ministro di culto, la famiglia e anche i volontari adeguatamente preparati.Uno degli elementi centrali delle cure palliative è la somministrazione di farmaci antidolorifici di varie famiglie (oppioidi e non oppioidi). Il solo uso dei farmaci antidolorifici semplici ha permesso di alleviare l'80% delle situazioni di dolore. Nonostante la semplicità d'uso di questi farmaci, in alcuni casi essi non vengono ancora adoperati, o per resistenze culturali o per mancanza di disponibilità dei farmaci, quali la morfina.È urgente che le associazioni professionali dei medici (anche dei Paesi occidentali) si aggiornino nel campo delle cure palliative, secondo gli orientamenti formulati dal Comitato etico dell'Associazione europea di Cure palliative. Dati recentemente forniti da un rapporto su alcuni Centri ospedalieri americani evidenziano che il dolore è controllato adeguatamente solo nel 45% dei casi. Da qui la necessità di diffondere un'educazione che coinvolga le università, le specialità mediche, le scuole infermieristiche e l'opinione pubblica.

ACCANIMENTO TERAPEUTICO
TRATTAMENTO INUTILE, FONTE DI SOFFERENZA

Si tratta di «un trattamento di documentata inefficacia in relazione all'obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato o una particolare gravosità per il paziente, con un'ulteriore sofferenza in cui l'eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi» (Corrado Manni, 1995). Esiste un'esigenza di proporzione fra mezzi terapeutici e condizioni del paziente. In casi obiettivamente disperati non ha senso alcuno effettuare un intervento chirurgico, o somministrare un farmaco, o iniziare tentativi di riabilitazione. L'accanimento terapeutico, infatti, non è l'atteggiamento del medico che «fa di tutto» per strappare alla morte un paziente, o per prolungare, seppure di poco, la sua vita. Risponde piuttosto all'atteggiamento del medico che, pur sapendo di avere fatto ormai tutto il possibile, continua ostinatamente a sottoporre il malato a trattamenti inutili e gravosi, che non possono avere altro effetto se non quello di prolungare l'agonia. In modo errato, alcuni ritengono che accanimento terapeutico significhi semplicemente «essere tenuti in vita in condizioni precarie», quando ci si trova sopraffatti dal dolore e quando «il desiderio di vivere si è spento». In questo senso, il concetto si identificherebbe con la volontà - di medici insensibili - di conservare ostinatamente la vita del paziente anche se questi non sa più che farsene. In altre parole, se con il rifiuto dell'accanimento terapeutico si intende la negazione di tutte quelle misure artificiali che tengono in vita in fase critica o terminale precisamente perché il paziente chiede di morire (oppure il medico vuole farlo morire), allora si rientra pienamente nella situazione dell'eutanasia, cioè nella volontà di porre fine, con azioni od omissioni alla vita di un malato per eliminare ogni dolore. Secondo tale concezione, non sarebbero eventuali trattamenti gravosi e inutili a costituire una forma di accanimento, ma sarebbe un accanimento il fatto stesso di mantenere in vita un morente o un malato grave. In questa linea si dovrebbero togliere la gran parte dei mezzi di sostegno vitale in fase terminale o nelle malattie croniche e invalidanti, con il risultato di far morire i pazienti.

TESTAMENTO BIOLOGICO
INDICAZIONE DELLE CURE CHE UN SOGGETTO ACCETTA

Il 18 dicembre 2003 il Comitato nazionale per la Bioetica ha emanato un documento sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Secondo tale documento il testamento biologico è una indicazione sottoscritta dal paziente con la quale egli manifesta alcune semplici indicazioni sulle forme di assistenza che desidera ricevere o non ricevere in condizioni di incapacità, senza porre comunque un totale vincolo sul medico ed escludendo alcune richieste: ad esempio la sospensione di idratazione e alimentazione artificiale, e in generale le richieste eutanasiche, che caricherebbero il personale sanitario di una intollerabile responsabilità sulla morte dei pazienti. Per la verità il valore consultivo sulle preferenze di trattamento dei pazienti (per evitare forme di accanimento terapeutico), anche redatte in anticipo o comunicate a terzi, esiste già, così come il divieto di praticare l'eutanasia, già sancito dalla legge con il generale divieto di uccisione di consenzienti.Il tema è stato però ripreso dai sostenitori dell'eutanasia, che desiderano usare il testamento biologico come espressione della più completa possibilità di «autodeterminazione» del paziente rispetto alla propria morte in caso di incoscienza o di incapacità decisionale. L'intenzione è esplicitamente pro-eutanasia. Infatti nei moduli predisposti dal comitato promosso dall'oncologo Umberto Veronesi si ritrova la possibilità per il paziente di decidere autonomamente i tempi e i modi della propria morte, avvalendosi di un presunto diritto di morire, che sarebbe addirittura speculare al diritto di vivere. Con il testamento biologico così inteso si vuole consentire l'esercizio di questo inesistente diritto.

SUICIDIO ASSISTITITO
RICHIESTA DI OTTENERE GLI STRUMENTI DI MORTE
Questo tipo di suicidio consiste nella richiesta che una persona gravemente malata (ma non in stato di malattia terminale e quindi non prossima alla morte) fa in piena coscienza e in stato di lucidità mentale al medico o a un parente o a un amico di procurarle un farmaco che, una volta assunto, le dia la morte.La differenza rispetto all'eutanasia sta nel fatto che è la persona stessa che si procura la morte ingerendo un farmaco mortale che un'altra persona le ha procurato: si tratta cioè di un suicidio, sia pure «assistito», a cui ha contribuito un'altra persona, non di un omicidio, come l'atto eutanasico positivo od omissivo compiuto da un'altra persona, sia pure su richiesta della persona malata.
« Avvenire » del 27 settembre 2006

I valori della convivenza sono un patrimonio di tutti anche in una società pluralista

Relativismo e verità
Di Giovanni Martino (27/08/06)
Che cos’è questo “relativismo” di cui tanto si parla? La panacea per una società più libera e tollerante? O un pericoloso virus che mina le basi della convivenza democratica?
La dottrina del cosiddetto relativismo è molto seducente: non esistono verità, ogni ideale si equivale, ognuno ha il diritto di seguirlo senza alcun vincolo. Dal che deriverebbe automaticamente il rispetto assoluto per le idee degli altri, la rinuncia ad ogni tentazione di imporre le proprie con la forza: dialogo e concordia assicurati. Tutto facile, no? La mentalità “relativista” emerge anche nelle discussioni quotidiane: può capitare che chi sostiene con convinzione una tesi, chi parla di “verità”, si senta etichettare pregiudizialmente come "dogmatico" (termine che invece, più propriamente, dovrebbe indicare chi rifiuta di discutere le proprie tesi); o come "intollerante" (termine che dovrebbe, piuttosto, indicare chi pretende di imporre la propria visione, anziché proporla al dibattito comune). Emerge allora una certa carica aggressiva del relativismo, che vuole coprire la sua banalità e superficialità.
Il fatto è che il relativismo è una costruzione astratta, che non dà risposta ai problemi concreti della convivenza. Gli ideali, le verità di cui si discute (e che il relativismo mette in discussione), infatti, sono quelli della sfera sociale e civile, e non di quella personale. Non si tratta di decidere se preferiamo andare a vedere un film comico o drammatico, se è più piacevole la vacanza al mare o quella in montagna. Non si tratta di questioni destinate a rimanere confinate tra le poltrone di un qualsiasi circolo culturale. Materia del contendere, piuttosto, è la misura in cui ideali sociali, civili e politici possano diventare fondamento comune della convivenza.

Possiamo fare a meno di valori comuni?
La prima domanda che ci poniamo: è davvero possibile, in una qualsiasi società, una convivenza serena priva di princìpî (ovvero ideali, o - con una connotazione positiva - valori) comuni, reciprocamente riconosciuti, posti alla base delle convenzioni e delle norme? E' praticabile il cosiddetto relativismo? Un sano realismo ci dimostra di no.
In tutte le attività umane (insegnare, lavorare, legiferare, amministrare, giudicare) è necessario continuamente scegliere tra diversi interessi quelli meritevoli di tutela, in base ad un criterio di selezione. Tale criterio non richiede semplicemente una competenza "tecnica", ma è anche un criterio "valutativo": non esistono soluzioni “tecniche” o “neutrali”. Si sceglie, dunque, in base a principî, o valori. Valori che possono a loro volta entrare in conflitto, e richiedere una scelta in base ad una gerarchia, un ordine d'importanza. Sostenere che si possa fare a meno di discutere dei valori comuni (o che i valori siano tutti uguali) è un grande imbroglio, serve a imporre alcuni princìpî (funzionali a interessi forti) spacciandoli come inevitabili, tecnici, neutrali, e sottraendoli al libero confronto culturale e democratico.
Ad esempio, una scuola, i cui insegnanti - anche i più eruditi e preparati metodologicamente - non avessero valori su cui fondare l’insegnamento, non sarebbe in grado di insegnare nulla. Avere valori, contenuti di riferimento, non significa indottrinare o plagiare. Trasmettere ai discenti il senso critico, fornire chiavi di interpretazione, distinguere la qualità di ciò che è fondamentale apprendere (perché prima Dante e poi – che so… - Gonzales?), orientarsi nel pluralismo: sono tutte operazioni che, pur non essendo dottrinarie o ideologiche, partono da un certo sistema di valori.
Ancora: una comunità di lavoratori, un'impresa, in cui gli addetti abbiano grande perizia tecnica, ma in cui non ci siano la stessa cultura del lavoro, lo stesso senso dell'impegno e del dovere, lo stesso spirito di collaborazione, fiducia reciproca, voglia di perseguire un obiettivo comune, è condannata al fallimento. Non è ipotesi astratta: nessuna azienda internazionale riesce a far collaborare lavoratori di nazionalità diversa, se non dopo che questi siano stati selezionati sulla base di determinati parametri e abbiano seguito lunghi corsi di formazione sulla mission e lo stile di lavoro aziendali; altrimenti, un tedesco e un giamaicano si manderebbero a quel paese dopo cinque minuti...
E così in tutte le realtà umane: nello sport, nella ricerca scientifica, sino al più vasto ambito della comunità culturale e sociale, dove l’etica sociale e civile fonda il senso di appartenenza ad una collettività.

Sia detto per inciso: alcuni sono convinti che le parole "etica", "morale", siano riservate alla sfera intima e privatissima dell'individuo. Per cui parlare di "etica (o di morale) sociale e civile" significherebbe sovrapporre il piano personale con quello sociale o, peggio, politico, ai confini dello Stato Etico.
Ora (a prescindere dal fatto che anche la moralità personale ha una dimensione oggettiva), ci rendiamo tutti ben conto, ogni giorno, che i nostri comportamenti sono vincolati dal rispetto di una serie di valori, iscritti in norme non giuridiche ma morali: la sincerità, la fedeltà, la correttezza (come, ad esempio, non “fare le scarpe” al collega di lavoro), la disponibilità, il rispetto della parola data, la gratitudine, ecc. Regole che sentiamo intimamente giuste, regole il cui rispetto gli altri si attendono da noi e, soprattutto, noi pretendiamo da loro. Tali norme richiedono certo, innanzitutto, un consenso spontaneo; ma hanno anche diversi gradi di "necessità" (se non le si rispetta, le cose vanno male) e di "obbligatorietà" (c'è una pressione sociale a rispettarle). La morale, dunque, non è solo una scala di valori personale e interiore, ma anche un codice sociale, anche perché la sua stessa percezione varia con il variare delle culture (Hegel, a dire il vero, utilizzò il termine "etica" per definire il codice sociale, preferendo riservare quello di morale alle propensioni individuali; ma questa è una sottigliezza filosofica). L’etimologia stessa di “morale” (dal latino mores = usi, costumi), così come quella di “etica” (dal greco êthos, che parimenti indica usi e costumi), ci rammentano ciò.
In tutti i contesti sociali e culturali troveremo sempre, inevitabilmente, norme morali da rispettare: chi ha vissuto negli anni ’60/’70 l’esperienza delle “comuni”, improntate teoricamente alla massima promiscuità sessuale, racconta di furibonde scenate di gelosia (!), che hanno infine portato alla dissoluzione di quelle esperienze. Chi pensasse di attenersi alle sole norme giuridiche, infischiandosene allegramente di quelle morali, danneggerebbe probabilmente il proprio equilibrio interiore, incontrerebbe certamente l’ostilità delle persone che lo circondano, non troverebbe la chiave di mediazione e di soluzione dei conflitti comunitari e sociali.
La rilevanza sociale dei valori, insomma, appartiene al grande campo delle idee umane, che guidano lo sviluppo della civiltà. E' il campo della cultura: nessuno può negare che la cultura sia un fenomeno sociale! Questa rilevanza sociale, poi, è anche un’esigenza pratica della convivenza.
Alcuni valori che hanno particolare rilevanza sul piano morale, sociale, culturale, possono trasporla anche sul piano politico-giuridico, possono fondare norme giuridiche, dotate del massimo grado di "coattività": un patto può divenire un contratto, tutelato dall'ordinamento statale. Il furto non è più solo un'offesa privata, ma un reato pubblico.
Anche le scelte politiche esprimono un criterio "valutativo": un'ideologia, una scala di princìpî o valori. Difendere il ladro o il derubato? L’innocenza del bambino o il piacere del pedofilo?
E ancora: un tribunale che non applicasse la legge (basata sui valori della Costituzione) non sarebbe in grado di giudicare secondo giustizia; esprimerebbe, al massimo, l'estro del giudice.

La natura dei "valori"
La dimensione sociale dei valori non è solo un'esigenza della pura convivenza, ma anche della crescita sociale.
Tutte le realtà naturali (scuola, lavoro, politica, scienza, arte, ecc.) hanno leggi e valori propri. "Leggi" di funzionamento, da conoscere e applicare mediante le competenze tecniche. Ma anche "valori" (termine cui diamo una connotazione positiva, ancor più che "principio" o "ideale"), i quali sono espressione del ‘dover essere’ di quelle realtà, assicurandone la rispondenza al fine che è loro proprio. Così ogni professione deve avere il suo codice deontologico, lo sport ha senso proprio in quanto rispecchi correttezza e 'sportività', l'economia non può ridursi ad abili speculazioni finanziarie, ecc.
I valori delle realtà naturali e sociali sono composti da alcuni elementi costanti, universali (naturali, appunto: ne parliamo più a fondo nell'articolo sul diritto naturale). Tali elementi, universali, ci consentono di parlare di una 'verità' morale, componenete oggettiva del valore sociale, non "contrattabile" (benché destinata nel tempo ad essere compresa con sempre maggiore nitidezza).
L'utilizzo del concetto di 'verità', 'oggettività', come accennavamo all'inizio, fa temere molti che sia sottratto spazio alla libertà umana, che ci si affidi ad un cieco dogmatismo, che qualcuno voglia imporre con la forza la propria ideologia. In realtà, vedremo più avanti che questa è un'interpretazione distorta del concetto di verità. Non bisogna pensare che la ricerca della verità debba essere sottratta al dialogo, o che il consenso sia necessariamente irrilevante.
Ad ogni buon conto, ancor prima di approfondire il concetto di verità, bisogna evitare che confuse preoccupazioni al riguardo ci facciano perdere di vista i dati dell'esperienza e le evidenze della ragione: di fronte alla necessità di compiere scelte, il criterio valutativo di selezione dei principî che viene utilizzato, se non ha una dimensione oggettiva, potrebbe essere casuale, arbitrario, un mero compromesso, o addirittura il frutto di una prevaricazione; così si condannerebbe la realtà in cui si opera all'impoverimento o al fallimento. Se invece c'è la capacità di identificare il "valore" proprio di quella realtà, se ne favorisce la piena espressione.
Agli elementi costanti (nei valori delle realtà naturali e sociali) si aggiungono elementi mutevoli, a seconda del contesto (storico, geografico, sociale, culturale). Questi elementi - in cui l'aspetto del consenso è prevalente - si raccordano in una tradizione, che esprime la cultura e l'identità collettiva di una comunità. L’esperienza esistenziale di ogni generazione continuamente verifica (o falsifica) quelle acquisizioni, le anima e le fa rivivere.
Certamente, non è facile rispettare alcune esigenze nella ricerca dei valori comuni: questi non devono essere imposizione arbitraria di una parte, di una cultura; devono essere oggetto di un dibattito trasparente, che garantisca il massimo del consenso possibile; non devono comprimere libertà fondamentali; devono essere capaci di dare risposte efficaci alle esigenze delle realtà sociali nelle quali sono calati (risposte adeguate secondo i contesti storici e sociali, senza pericolose rigidità). Si tratta di preoccupazioni di metodo legittime. Ma il relativismo fa esplodere queste preoccupazioni, arrivando a negare in radice l'esistenza e la conoscibilità dei valori e di ogni verità. E, quindi, arrampicandosi un po' sugli specchi, è costretto a negare - contro ogni realismo - la loro necessità nelle realtà sociali.
Alle preoccupazioni di metodo si aggiungono sovente preoccupazioni derivanti da esperienze storiche negative, nelle quali si sono imposti il fanatismo o l'ideologismo violento. Ma, anche qui, il relativismo si rivela incapace di analizzare correttamente e comprendere le radici di questi fenomeni, pensando, per evitare il pericolo che qualcuno strumentalizzi l'idea di verità a proprio vantaggio, se ne debba trarre la conseguenza che questa idea sia pericolosa o inesistente (come chi pensasse di abolire il linguaggio per evitare gli insulti, o vietare il sesso per evitare gli stupri).
Il relativismo inquina il dialogo logico-razionale (come l'abbiamo conosciuto dai tempi di Aristotele), negando che dal confronto di tesi diverse si possa arrivare ad una tesi comune. Il suo approdo è il nichilismo, il non credere in niente.
Ad esempio, si fa un bel parlare di "multiculturalismo", definendolo prospettiva "inevitabile" delle nostre società. Quasi che il termine "inevitabile" elimini di per sé i problemi. Ma come immaginiamo la convivenza di culture opposte?
Ci si affida spesso alla soluzione della "tolleranza", talismano piuttosto semplicistico che non può conciliare posizioni destinate allo scontro. Dal principio della tolleranza, ad esempio, sembrerebbe derivare senza problemi la necessità di rispettare i diritti fondamentali dell'altro; sennonché la "tolleranza" non si premura di individuare concretamente quali sono questi diritti, lasciando alla legge positiva lo spazio per la loro manipolazione e negazione (nell’articolo sul diritto naturale ricordiamo i più eclatanti casi storici di violazione dei diritti umani che hanno avuto la copertura formale della legge).
Bisogna 'tollerare' che un medico dia la morte ad un malato, ritenendolo senza speranza? E i diritti del malato?
Bisogna 'tollerare' la poligamia? Che fine fanno i diritti della donna?
C'è, piuttosto, il problema dell'integrazione di culture diverse in una stessa società; e questo problema è risolvibile solo se - come vedremo -, pur in un ambito di pluralismo, vengono individuati i valori comuni e condivisi.
La questione dell'individuazione di valori comuni si lega alla questione se esista una verità (e non ci riferiamo principalmente alla Verità di Fede), e se questa sia conoscibile: sono quelli che i filosofi chiamerebbero "problema ontologico" e "problema gnoseologico". La conclusione negativa cui perviene il relativismo - che confonde i due piani - non è altro che l'esito finale di una lenta deriva di una parte significativa del pensiero moderno. Un percorso che ha condotto dapprima a negare l'esistenza delle verità filosofiche e morali, togliendo dignità alla metafisica (la disciplina che si occupa appunto dell'Essere e dell'uomo nella sua complessità); e poi, in alcuni casi, addirittura a negare la possibilità di qualsiasi conoscenza, anche scientifica...
Vale la pena tratteggiare le linee di questa evoluzione, anche perché alcune continuano ad avere influssi attuali.

Il percorso del pensiero moderno verso il relativismo.
Il relativismo non costituisce certo una novità: relativisti erano i sofisti (combattuti da Socrate), gli scettici ...
In età moderna, Bacone prima, Berkeley (seppure con successivi ripensamenti) poi, avevano decretato il primato della conoscenza materialista, misurabile, riducendo la razionalità a fisica e tecnica, ed indebolendo quindi la capacità della ragione di conoscere le realtà umane. Nell’empirismo inglese trova linfa il liberalismo utilitarista: esso individua nella soddisfazione delle preferenze personali l’unico criterio oggettivo per guidare i comportamenti umani, e nel "libero" accordo tra i consociati la maniera per realizzarlo. Più di recente il post-strutturalismo francese, il criticismo decostruzionista, il convenzionalismo, lo storicismo di Spengler, hanno affermato il primato sulla ragione di una libertà in termini assoluti, arrivando perfino a negare la possibilità di un discorso razionale (la ragione si ridurrebbe al linguaggio). Queste tendenze sconfinano in un libertinismo disinteressato alla costruzione della convivenza, nel radicalismo, nell'irrazionalismo, nell'anarchismo: la propria libertà si scontra con la realtà dell' "altro da sé", producendo conflitti sociali continui ed esasperati, o componendosi in "liberi accordi" in cui - senza la mediazione di un valore oggettivo - chi si impone è il più forte (il più ricco, il più potente, il più preparato). La ricerca di una libertà che non si riesce a realizzare pienamente, a causa dell'instabilità cronica del relativismo, ha portato paradossalmente molti liberalisti anche ad invocare uno Stato forte, capace di garantire la soddisfazione di piaceri quotidiani, in cambio della rinuncia a determinare gli indirizzi politici ed economici.
La capacità della ragione di conoscere le realtà umane - e rinvenire i valori della convivenza - veniva contemporaneamente indebolita anche da chi apparentemente la esaltava.
La cosiddetta “legge di Hume” separava l’essere (inteso limitativamente come aspetto esteriore delle cose, come insieme dei fenomeni scientificamente analizzabili) dal dover essere (fini, giudizî di valore, per i quali - non essendo possibile attingere alla "sostanza" dell'essere - non sarebbe possibile un’analisi razionale). La ragione veniva ridotta a scientismo e fisicismo, ritenuta utilizzabile solo nel campo delle scienze fisico-matematiche. Emergeva il criterio dell’avalutatività: gli atti non sono più giudicabili come buoni o cattivi, la scelta dei valori diviene indifferente (Weber, Kelsen), in definitiva affidata solo al decisionismo e all’arbitrio dei singoli o dei gruppi di potere. Le drammatiche conseguenze sociali di questo postulato (che poi le stesse scienze hanno dimostrato arbitrario) le abbiamo ben conosciute...
Molti tra coloro che volevano espressamente utilizzare la ragione anche per indagare le scienze umane, hanno finito ugualmente con l'indebolirla. Cartesio aveva considerato il pensiero individuale fondamento della realtà ("Cogito ergo sum"). Con Kant, il compito della ragione soggettiva diveniva quello di dare ordine ad una realtà incoerente. Non vi è più un dato "naturale" oggettivo, evidente in sé.
L'illuminismo segna un passaggio fondamentale nella diffusione di una visione soggettiva della ragione. Nel rigettare tutte le religioni rivelate, l'illuminismo le rimpiazza con una nuova religione mondiale della ragione. Il dogma fondamentale è che l’uomo deve andare oltre i pregiudizî ereditati dalla tradizione; deve avere il coraggio di liberarsi da ogni autorità al fine di pensare autonomamente, usando null’altro che la ragione per attingere alla verità. Ma l’idea dell’onnipotenza della ragione si scontra inesorabilmente con i dati di un sano realismo.
L’illuminismo razionalista, sviluppatosi nell’Europa continentale, ha realizzato alcune importanti conquiste nel campo dei diritti civili partendo da una legittima critica alle ingiustizie sociali di un’epoca, soprattutto all'insufficiente realizzazione del principio di uguaglianza. Ma il suo apporto è stato mitizzato: invero, non ha saputo individuare correttamente le cause di quelle ingiustizie, traendo conclusioni storiche e filosofiche arbitrarie. Infatti, se in precedenza diritti e valori naturali erano stati spesso deformati da incrostazioni culturali e privilegi di ceto, era giusto invocare un uso più attento – anche, ma non solo - della ragione, per individuarli in maniera più nitida. Ma è stato falso sostenere che le epoche precedenti (soprattutto il "Medioevo") fossero "oscure", e che in esse la ragione fosse stata negletta; è stato superficiale vedere nella religione una "superstizione" nemica della ragione e fonte di arretratezza; ed è stato pericoloso sostenere il venir meno di un riferimento comune a valori assoluti. Cosicché le ideologie “razionaliste” hanno poi prodotto degenerazioni peggiori di quelle denunciate; il vento del cambiamento ha spazzato ma non costruito.
L’illuminismo inizia col sacrificare la libertà alla ragione: in nome di una libertà "più ampia", vuole eliminare i presidî di libertà conosciuti, garantiti dai corpi sociali (come la famiglia): solo un rapporto diretto ed esclusivo dell'individuo con lo Stato garantirebbe i diritti dell'individuo stesso (o almeno quelli che lo Stato ritiene meritevoli di tutela...). Una volta individuati i nemici della ragione, le forze “oscurantiste”, si ritiene possibile sacrificare la libertà di questi soggetti per difendere la propria, ovvero per affermare una sorta di più grande libertà “collettiva”. Alla fine, l'unica libertà residua è nell’adeguarsi alla logica della storia.
Le contraddizioni dei lumi emergono anche se guardiamo con un po' di attenzione il profilo di uno dei suoi esponenti più celebrati, Voltaire: parlava molto bene di tolleranza e progresso, ma era ferocemente antisemita, fortemente razzista (equiparava i neri a scimmie), investiva nel commercio degli schiavi...
Gli ulteriori sviluppi del razionalismo illuminista conducono a ritenere che l’idea del bene e della realtà in sé è posta fuori dalla comprensione umana. L’unico punto di riferimento per ogni persona è ciò che può comprendere personalmente come buono o vero; ognuno produce la sua verità. Conseguentemente, la libertà non è più vista positivamente come una lotta per il bene che la ragione raggiunge con l’aiuto della comunità, della tradizione, della fede, ma è piuttosto definita come un’emancipazione dalle condizioni che impediscono ad ognuno di seguire la propria ragione. L’illuminismo, dunque, arriva ben presto a negare il potere della ragione di conoscere la verità oggettiva.
La ragione autoreferenziale, soggettiva, diviene ben presto strumentale agli interessi, si confonde col volontarismo, si traduce nel suo opposto, l'irrazionalismo, come preannunciò Nietzche, che gridò in maniera più dirompente: "niente più metafisica!". Questo soggettivismo invade anche il campo della scienza, di quelle conoscenze che sembravano restare le uniche certe: secondo il costruttivismo e lo strumentalismo lo scienziato non conosce la natura fisica, ma formula ipotesi deformate dal suo punto di vista, crea semplici strumenti utili per applicazioni. Questo percorso di trasformazione della ragione illuminista nella sua negazione è esemplarmente descritto da due celebri filosofi di scuola marxista, Adorno e Horckeimer, nel fondamentale Dialettica dell'illuminismo.
Quando il volontarismo della ragione soggettiva si manifesta come collettivo, e la ragione diviene "costruttivista", utopista, vuole plasmare il mondo a sua misura, distruggere tutto ciò che considera irrazionale, creare un “uomo nuovo”, allora abbiamo le pulsioni verso una società oppressiva ed uno Stato assolutistico. Un assolutismo che ha in sé anche una componente "relativista" (il relativismo non si sposa in alcun modo con la libertà), in quanto il volontarismo costruttivista non vuole imporre quell'idea di bene o di verità cui ha aderito intellettualmente; piuttosto, crea una mutevole verità dipendente da desideri e interessi.
Per averne conferma, basta leggere queste poche righe: “Noi che abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e dirci a volta a volta aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti, noi siamo veramente i relativisti per eccellenza”. L'autore? Benito Mussolini! (da "Nel solco delle grandi filosofie: relativismo e fascismo”, articolo pubblicato su Il Popolo d’Italia del 22 novembre 1921).
Il volontarismo può essere espressione anche di una ragione di tipo individualista, chiusa in sé stessa (la versione tornata oggi "di moda" in reazione ai totalitarismi), sposandosi col liberalismo utilitarista che abbiamo in precedenza descritto. Anche qui, l'ideologia di fondo è unica, sebbene sia utilizzato con maggiore frequenza - per definirla - il termine "relativismo". Non assistiamo, infatti, all'incontro di ideologie diverse, ma allo scontro di interessi diversi, all'interno di un sistema di composizione - l'utilitarismo, sovente accompagnato dallo scientismo - che ha una (sia pur dissimulata) pretesa di "verità", offre una gerarchia e ne regola l'esito; un sistema che si impone in chiave economicistica e pragmatistica, prima ancora che di assolutismo politico.
Il rifiuto dei valori nasce non solo da un'incapacità della ragione soggettiva di coglierli, ma anche da un più generale rifiuto di sé di una parte della moderna civiltà occidentale.
Ciò è in parte conseguenza del percorso che abbiamo appena descritto.
Per altra parte è dovuto al fallimento delle grandi utopie-illusioni (in particolare quella social-comunista), col carico di delusioni che ciò ha comportato.
Il fallimento dell'idea socialista non ha annullato completamente gli effetti e le scorie dell'imponente lavoro svolto nel secolo scorso dalla propaganda comunista, la quale aveva raccolto il testimone dell'illuminismo costruttivista. Essa per decenni è stata molto attiva (più di qualunque altra tendenza culturale), anche perché ben sovvenzionata, nella denigrazione della società occidentale (che doveva essere sostituita dall'utopia socialista di matrice sovietica).
Inoltre, uno degli input lanciati in quel periodo (e ancora ripresi dall'illuminismo, Rousseau in particolare), e penetrati più a fondo nella mentalità corrente, è che il bene (e il male) della persona non dipendono dalla sua responsabilità personale, bensì dal "sistema", dalle strutture sociali. Per cui l'individuo (naturalmente incline a non accontentarsi) si è assuefatto a proiettare le proprie frustrazioni sulla società e sui valori tradizionali: abbatterli avrebbe significato "liberarsi" (e invece significa far crollare l'edificio che consente la ricerca della felicità); non riuscire a "realizzarsi" comporta un rifiuto del "sistema".
Il rifiuto dei valori, alla fine, si associa all’odio per l’idea di qualità. La società occidentale (ma è una legge universale dello sviluppo) è cresciuta – nell’arte, nella scienza, nelle conquiste sociali – facendo leva sullo spirito d’iniziativa e la creatività della persona, o di gruppi di persone, e riconoscendone i meriti. Al premio del più meritevole (colui che – evangelicamente – ha meglio investito i proprî talenti) ha sempre fatto da contrappeso l’idea – ugualmente cristiana - di uguale dignità delle persone e di sostegno al più debole.
Nel tempo, lo sviluppo economico ha consentito di immaginare la possibilità di offrire garanzie sociali prima impensabili. Sennonché le garanzie offerte come opportunità, cui i singoli sono chiamati a rispondere con la loro iniziativa, sono state recepite come pretese, diritti assoluti. L'uguaglianza dei punti di partenza pretende di diventare uguaglianza dei punti di arrivo. Nessuna competizione o comparazione può esservi tra individui, perché ciò causa frustrazione in chi non riesce a raggiungere i risultati agognati; o in chi pretende di raggiungerli senza impegno (l’odio per la qualità è figlio dell’odio del sacrificio necessario a raggiungere una meta). Nessun valore può esser proposto all'osservanza dei cittadini. Valore esclusivo diventa l’ “autostima” dell’individuo, che dev’essere protetta da un sistema di garanzie sui risultati (e non solo sulle opportunità): debbo garantirti titolo di studio, lavoro, denaro, riconoscimento sociale, a prescindere dalle tue capacità e dal tuo impegno.
È una versione di volontarismo individualista, che però accampa diritti senza riconoscere doveri, richiede dallo Stato garanzie alla cui costruzione non si è disposti ad offrire alcun contributo.

Realismo, verità, libertà.

Abbiamo visto i guasti prodotti dalla linea di pensiero che, al problema dell'esistenza e conoscibilità della verità, dà una risposta negativa. È possibile dare una risposta positiva, risolvere i dubbi e le preoccupazioni posti dal relativismo senza giungere ad esiti distruttivi?
Alla ragione soggettiva dell'illuminismo si è storicamente contrapposta la visione di una ragione realista, ovvero della "sana ragione" (recta ratio), del lógos quale principio interpretativo dell'universo (visione su cui si sono incontrati civiltà greco-romana e civiltà cristiana, come ricordato da Papa Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona).
Si tratta di una ragione ancorata al principio di realtà, che non nega ciò che non riesce a misurare o spiegare, che non è chiusa alla dimensione spirituale dell'uomo: "l'ultimo passo della ragione è riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano" (Pascal). Una ragione non "costruttivista", ma "cognitivista" (non vuole creare la realtà, ma conoscerla).
La ragione realista riconosce che esistono valori, verità oggettive. Il concetto di "verità" identifica non un'idea astratta, ma proprio la corrispondenza tra conoscenza ed essere, realtà (adaequatio intellectus rei). La difficoltà a definire la verità evidenzia un limite della nostra capacità di conoscenza, ma non può condurre a negarne la stessa esistenza (altrimenti si confonde, come ricordavamo in precedenza, il piano ontologico con quello gnoseologico).
Nemmeno si può negare in radice la possibilità di attingere alla verità, di conoscerla, perché ciò comporta una contraddizione insanabile. Infatti, chi pretende che le cose non sono conoscibili per come sono, ma soltanto per come appaiono, per accorgersi della differenza tra le cose come sono e le cose come appaiono dovrebbe conoscere le cose come sono realmente, e non soltanto come gli appaiono...

Anche senza inoltrarci nel percorso logico-filosofico (che dovrebbe essere già abbastanza chiaro), possiamo constatare che l'esistenza della verità - nei diversi campi - emerge dalla nostra esperienza comune e dall'evidenza della ragione.
Ciò vale innanzitutto nel campo della verità dei fatti, degli eventi. Può essere difficile ricostruirli esattamente; ma la menzogna, la calunnia, sono sempre strumento per sottomettere, non per conoscere e liberare.
Abbiamo visto, inoltre, che la furia iconoclasta del relativismo è arrivata persino (mediante le teorie costruttiviste e strumentaliste) a mettere in dubbio l'esistenza di realtà oggettive nel campo delle scienze fisiche e naturali.
Ebbene, Popper, padre dell'epistemologia moderna, spiega che la scienza - nonostante abbia scoperto di non poter affermare certezze definitive - progredisce verso le verità della natura per approssimazioni sempre maggiori. Se non ho gli strumenti per definire esattamente forma e natura di una stella, non posso dedurne che... non esiste! Altrimenti si cade nel paradosso di un Don Ferrante ‑ il personaggio dei Promessi Sposi - che, non riuscendo a individuare la natura della peste, ne dedusse l’inesistenza, non prese precauzioni e, ovviamente, morì di pestilenza.
Per fare un esempio attinente alla nostra vita quotidiana: quando ci rechiamo da un medico, ci aspettiamo da lui una diagnosi "vera" (pur consapevoli dei limiti e dei continui progressi della scienza medica). Sappiamo che ci sono medici più bravi di altri. E se un medico sbaglia clamorosamente diagnosi, ci arrabbiamo molto, e non lo giustifichiamo pensando che "ha espresso un suo punto di vista condizionato dai suoi riferimenti culturali"...
Riconoscere la possibilità di una conoscenza "vera" o "oggettiva", perché aderente con una certa approssimazione alla realtà, non significa affermare l'esistenza di una conoscenza "completa" e "perfetta".
Una simile capacità di attingere alla verità dell'uomo con metodi razionali la ritroviamo nella metafisica e nelle scienze umane (anche se bisogna prestare attenzione ad indebite sovrapposizioni con le scienze naturali), in cui individuiamo le verità morali, che sono la componente costante, universale, naturale, dei valori. La "legge di Hume", ovvero la pretesa fisicista che esista un unico pensiero razionale - quello scientifico - capace di raggiungere conoscenze oggettive, è stata smentita dalla crisi del pensiero scientifico tradizionale, che ha condotto la scienza ad aprirsi - pur sempre con rigore: riproducibilità, falsificabilità, ecc. - ad una pluralità di metodi (fuzzy logic, teorie dei giochi e delle catastrofi, stocastica, ecc.), nonché a ricercare una sempre maggiore interdisciplinarietà. Senza entrare in dettagli, non possibili in questo contesto, ci limitiamo a ricordare che gli stessi epistemologi, come Lakatos, hanno chiesto di superare ogni preclusione contro la metafisica; che la sintonia tra conoscenza scientifica e altre forme di conoscenza è auspicata dagli stessi scienziati di tutto il mondo che il 7 marzo 1986 hanno redatto la celebre "Dichiarazione di Venezia".
Anche nell'ambito delle scienze umane, la difficoltà a definire una verità, l'elemento oggettivo di un valore, non significa negarla. L'individuazione di una verità, inoltre, non è principalmente determinata dal consenso, non può divenire puramente convenzionale, come accade per la regolamentazione degli interessi. Infatti, se gli interessi sono disponibili, così non è per le verità, che sono oggetto di conoscenza, non di contrattazione. Se ho difficoltà a definire i contorni dei diritti umani, non posso per questo calpestarli, o 'aggiustarli' secondo il mio comodo!
L’idea di verità, però, non esclude il dubbio, anzi lo richiede, quale strumento necessario per cercarla e riconoscerla, senza fermarsi a verità apparenti. Ma diverso dal dubbio è il rifiuto aprioristico.
Inoltre, l’idea di verità non preclude la libertà, anzi la rende possibile, perché nessuna scelta può essere davvero libera se non è consapevole: “la Verità vi farà liberi”.
L'uomo, posto di fronte ai suoi limiti, si trova continuamente di fronte all'esigenza di scegliere, dunque di rinunciare a qualcosa. Bisogna difendere la libertà umana di scegliere (sperabilmente per il meglio); ma è un inganno la libertà di non scegliere, cioè di veder soddisfatta ogni pretesa.
La moralità degli atti, inoltre, è definita dal rapporto tra libertà dell'uomo e il suo bene autentico. La libertà più profonda, infatti, non risiede semplicemente nello "scegliere tra questo e quello" in maniera superficiale. La libertà più profonda è nel determinare se stessi, la propria vita; ma perché ciò sia possibile, bisogna conoscere la verità della propria vita. La 'scelta' tra drogarmi e non drogarmi, ad esempio, si potrebbe definire una scelta di libertà solo se avessi ben chiare le cause (sociali, psicologiche) della mia azione, le sue conseguenze sulla mia vita futura, la possibilità reale di tornare indietro, ecc.
Il relativismo, negando alla ragione la capacità di conoscere la verità dell'uomo, ne annulla la libertà. “La distinzione tra sì e no, vero e falso, buono e cattivo ‑ ha scritto Walter Kasper ‑ non può essere accantonata a meno che l’uomo non voglia accantonare l’essere uomo”.
Un attacco alla libertà, piuttosto, viene dalla negazione della possibilità di evocare la verità, addirittura di attribuirle un nome, come pretenderebbe la nuova dittatura del linguaggio della "correttezza politica" ("political correctness"), che assegna natura "discriminatoria" ad ogni giudizio di valore (la società totalitaria predetta da Orwell, nel suo romanzo 1984, si caratterizzava innanzitutto per l’imposizione della “neolingua”: le idee divenute innominabili sono anche inconoscibili).

Verità e pluralismo sociale.
L’esistenza di valori comuni naturali, ordinati secondo una propria gerarchia, da scoprire pazientemente, è il dato che fonda la convivenza umana, è il punto di riferimento del dialogo tra idee diverse, la condizione stessa del pluralismo. Che cosa sono le idee, se non la personale visione della verità? I padri del pensiero liberale (John Stuart Mill) difendevano la libertà di pensiero e il confronto di opinioni proprio quali strumenti più efficaci per raggiungere la verità.
Giovanni Paolo II, nel discorso pronunciato il 5 ottobre 1995 di fronte all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ricordò che, anche nel dialogo tra popoli diversi, “dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell'uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro. Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti. Certo, non vi è un unico modello di organizzazione politica ed economica della libertà umana, poiché culture differenti ed esperienze storiche diverse danno origine, in una società libera e responsabile, a differenti forme istituzionali. Ma una cosa è affermare un legittimo pluralismo di "forme di libertà", ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana”.
La necessità di un punto di riferimento comune è ovviamente maggiore se, dal dialogo tra popoli diversi, passiamo a quello necessario a definire le regole della convivenza all'interno della stessa comunità.
È dunque falso sostenere che chi propugna l'idea di verità non sia aperto al pluralismo. Il pluralismo non deriva dall’inesistenza di valori universali, ma dal ruolo ineliminabile che riveste la libertà nella ricerca e nel riconoscimento di tali valori. Anche una società pluralistica si fonda su un patrimonio di linguaggio, di simboli, di valori comuni. E' proprio questo patrimonio che rende il pluralismo arricchente e includente, non conflittuale.
È altrettanto falso sostenere che chi crede in una verità sia 'inevitabilmente' portato ad imporla, minando le basi della democrazia (come propugnano i sostenitori del cosiddetto “pensiero debole”). Questo può accadere se si tratta di una 'verità' astratta, prodotta dalla ragione soggettiva (magari mascherata da relativismo), lontana dalla realtà della natura umana. La ragione realista, invece, non può imporre nessuna verità, ma solo proporla, perché è consapevole dei propri limiti, perché sa che parte ineliminabile della natura umana è la libera adesione ai principî ritenuti veri. (Sia detto per inciso: si può considerare "prevaricatore" il cristiano che propone come verità quella della croce, cioè del sacrificio e del perdono?)
Esiste, in questo senso, un "relativismo" positivo, quello che, pur riconoscendo e avendo come riferimento verità oggettive, ne conosce la mutevole realizzazione e percezione in una realtà imperfetta. Questo atteggiamento realista - e non ideologico - è necessario nell'ambito della politica, e fonda i sistemi liberal-democratici (contro l'ideologia dello Stato assoluto portatore di una verità totalitaria); un realismo che rifiuta di assolutizzare i problemi politici e di imporre soluzioni, perché sa che sono "relativi" al contesto storico e sociale.
Tale è soprattutto il pensiero autenticamente cristiano, allorché - contro ogni integralismo - si rifiuta di assolutizzare le realtà terrene, rammenta che il valore e l'autonomia della politica sono "relativi" - al fine intermedio di questa, il bene comune - e non assoluti: non possono pretendere di escludere (la tentazione dell'assolutismo politico) il fine ultimo, la salvezza.
La politica, dunque, vive la tensione tra la verità dei diritti naturali che deve riconoscere (e non imporre) e la "verità" delle scelte contingenti che deve perseguire in un dibattito libero, pluralista e mai definitivo.
Il relativismo che nega la verità (o ne fa un prodotto del volontarismo), al contrario, nel momento in cui ammette al dibattito civile e politico solo alcune visioni (quelle "politicamente corrette"), è il vero nemico del pluralismo sociale e culturale (così come, nella sua forma giuridica – il positivismo -, lo è del pluralismo politico e della democrazia). Il pluralismo sostiene che "tutte le idee sono libere, ma non tutte sono uguali", nel senso che tutte le idee possono essere liberamente espresse, anche quelle che ritengono di avere un fondamento migliore di altre (senza per questo volerle reprimere). Per il relativismo, invece, "tutte le idee sono uguali, ma non tutte sono libere" ovvero debbono essere represse quelle che negano l'equivalenza di ogni posizione. Ovviamente è una trappola logica, perché ogni idea ha implicitamente in sé la pretesa di essere migliore di un'altra; per cui si tratta solo di un pretesto con il quale alcune lobbies si arrogano il diritto di dare o negare il bollino di "democraticità", dissimulando i proprî interessi o le proprie ideologie con pretesa di verità (utilitarismo, scientismo). È in questo senso che l'allora cardinal Ratzinger, poco prima dell'elezione a Pontefice, poté parlare di "dittatura del relativismo".
In un'ottica pluralista, ad esempio, è possibile sostenere che i genitori hanno il diritto di scegliere l'educazione sessuale dei proprî figli - che nella generalità dei casi rispetterà un'inclinazione di tipo eterosessuale - e che le istituzioni non debbano ostacolare quel diritto. In un'ottica relativista si pretende che non è possibile sostenere l'inclinazione eterosessuale come preferibile a quella omosessuale (!), che un 'clima' di preferenza per l'eterosessualità lederebbe i diritti degli omosessuali (?), e che - in sostanza - si deve imporre a tutti un'educazione che presenti le due (o più...) tendenze come opzioni equivalenti (??), reprimendo le impostazioni educative differenti !
Il relativismo usa argomenti parzialmente diversi quando si pone il problema della convivenza tra culture diverse (ad esempio a causa dei flussi migratori) o del confronto tra civiltà, che vengono sempre più in contatto in un pianeta dove gli scambi culturali ed economici si fanno sempre più fitti, accrescendo le dimensioni dei problemi da risolvere (inquinamento, energia, povertà, guerre). In questi casi, spesso viene riconosciuta l’esistenza di valori, ma ne viene negato il carattere di verità universale. Si ritiene che siano valori validi per le singole comunità, assolutamente equivalenti tra loro (indifferentismo); non ci si pone, però, il problema di comunità diverse che possono venire in contatto. Questo succede perché il relativismo confonde il pluralismo includente (in cui diverse culture convivono, si confrontano in un dialogo interculturale capace di individuare valori comuni, e continuano a svilupparli anche in direzioni nuove) col separatismo escludente, definito eufemisticamente "multiculturalismo": si lascia che si creino mondi e comunità limitrofe e non comunicanti, in una sorta di apartheid di fatto, che evoca a parole il "dialogo" e la "tolleranza" come soluzione ai problemi della convivenza, ma si ritrova in concreto incapace a risolverli.
Dall’incapacità - sin qui descritta - di trovare gli strumenti per individuare valori universali, deriva inevitabilmente l’incapacità di effettuare qualsiasi comparazione tra valori: essi vengono riconosciuti solo nominalmente, come elemento folkloristico, come placebo sociale, come compromesso utilitaristico.
Mettere a fuoco il rapporto tra valori e civiltà che li esprimono può avere però un'utilità nel comprendere - e rimuovere - alcune cause del relativismo.
Il rifiuto di sé della società occidentale, che abbiamo in precedenza descritto, ha prodotto un rifiuto indiscriminato di valori, e magari indotto a cercare altrove "sistemi" di valori più seducenti, magari perché meno responsabilizzanti (vedi le mode orientaleggianti), esaltandone esageratamente i pregi e sminuendone superficialmente i difetti. E alla fine ci si accorge che forse quelle culture sono meno capaci di offrire risposte alla complessità delle esigenze dell'uomo moderno. L’indifferentismo, il rifiuto della comparazione tra valori, il separatismo, nascono anche dal rifiuto dell’idea di qualità in precedenza descritto. La tentazione di eludere la ricerca della qualità, con l’impegno e la responsabilità che comporta; la ricerca di garanzie dei risultati (e non solo delle opportunità): sono eredità del fallimento del socialismo, che possono in parte trovare sfogo e rifugio in un gruppo di appartenenza. Un gruppo che costituisca una minoranza (etnica, religiosa, linguistica, culturale, sessuale) ben organizzata, può rivendicare garanzie e privilegi, rifiutare responsabilità verso il bene comune, lamentando come “discriminazione”, intolleranza verso i proprî valori, ogni tentativo di cercare il dialogo sui valori comuni.
È un meccanismo di autoaffermazione che nasce all'interno della nostra cultura (un gruppo di giovani può pretendere di “sfogare la propria creatività” col vandalismo, una coppia gay può richiedere l'adozione di figli come se fosse una famiglia, ecc.), ma che può essere ripreso e ingigantito da comunità che hanno un'identità ben più forte e "tradizioni" ben più contrastanti con la nostra: una comunità islamica può pretendere di mutilare le donne, una comunità cinese di tener segregati come schiavi-lavoratori i bambini, ecc.
Sui valori che esprimono il sentimento comune, non organizzati in gruppi di pressione, si impongono gli interessi particolari e disgreganti promossi da lobbies culturali attive e militanti. Interessi i cui costi sociali ed economici sono scaricati sulla collettività, almeno finché il tessuto sociale (che proprio queste lobbies cercano di disgregare) lo consente.
Insomma, la parola d’ordine del separatismo e dell'indifferentismo resta quella del “pluralismo”. Ma nasconde un’azione contraria al pluralismo includente che abbiamo descritto in precedenza, il quale ha piuttosto bisogno di valori universali, fondati anche sul diritto di natura, capaci di riconoscere e apprezzare la qualità. E per sostenere questa ipocrisia, questa contraddizione tra appello al pluralismo e suo rifiuto sostanziale, si rende quanto mai necessaria la dittatura del linguaggio e dei comportamenti imposta dalla “correttezza politica” (nata, non a caso, negli Stati Uniti, dove la convivenza tra etnie e culture è un tratto caratteristico).
A sigillo del discorso possiamo accogliere - almeno per questo - una massima di Bertrand Russell: "Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore".

Come individuare i valori comuni.
Assunto che è possibile attingere alla verità dei valori, che questa non danneggia - ma anzi garantisce - libertà e pluralismo, come procedere concretamente per individuare i valori comuni? Non è sempre facile, anche perché non esiste un catalogo di valori immutabile.

Serve innanzitutto un metodo.
Sul piano socio-culturale - quello che stiamo prendendo in particolare considerazione in questa esposizione - il metodo più invocato è il dialogo razionale. Ma è sufficiente? La realtà ci offre tanti esempi di dialoghi "tra sordi"... Allora può capitare che si arrivi a conclusioni affrettate ("il dialogo non trova i valori comuni perché questi non esistono, non servono, basta la tolleranza"), e si cerchino scorciatoie per far convivere pacificamente idee diverse od opposte, magari invocando il principio di maggioranza. Ma abbiamo ricordato innanzi che la verità preesiste alla nostra conoscenza, non si determina mettendola ai voti. E, inoltre, applicare il principio di maggioranza significa effettuare un indebito spostamento della mediazione dal piano culturale a quello politico-giuridico. Questo spostamento di piano in molti casi è normale che avvenga; ma senza saltare il fondamentale passaggio intermedio, l'individuazione del valore su cui fondare la norma, valore che ne garantisce l'efficacia ed il consenso più largo possibile. Altrimenti, siamo sicuri che sia facile accettare decisioni che - sia pure fornite di sanzione legale - si sentono come profondamente ingiuste?
Allora, oltre che un metodo, per individuare i valori serve trovare agli stessi un fondamento, qualcosa che attinga alla componente naturale dei valori, e che ci faccia sentire la comune appartenenza alla società in cui viviamo.
Il primo tra i valori, che è fondamento costante di tutti gli altri (come spieghiamo nell'articolo Quali valori?), è l’eminente dignità dell’individuo. Tale dignità esige il rispetto e la promozione di tutto l’uomo ‑ nelle sue componenti materiale, morale, spirituale ‑ e di tutti gli uomini. Solo su queste basi comuni - perché comune è la natura umana - può esservi un dialogo costruttivo.
Il riconoscimento di un fondamento, dunque, muta anche la natura del dialogo, che rinuncia ad essere solo mera comunicazione dei proprî istinti e desiderî. Piuttosto, diviene strumento di ricerca, esercizio concreto (e non verboso) della razionalità, sforzo sincero di elaborare - o rinvenire nella natura e in una tradizione - valori comuni più precisi, razionalmente condivisibili, adeguati ai diversi contesti sociali e storici, ordinati secondo una gerarchia armonica ed equilibrata. Un fondamento solido rende il dialogo capace di perseguire - nella libertà - la verità propria di ogni realtà umana. Il consenso non "produce" il valore, ma sa anche "riconoscerlo". Ricercare la verità, sul piano socio-culturale, significa anche saper ricercare la qualità, il bello: come le opere classiche, che sanno divenire punto di riferimento (e di dibattito) universale per le culture.
Come abbiamo ricordato in precedenza, anche la realtà politica, il piano politico-giuridico, ha le sue leggi di funzionamento e i suoi valori. Ha un metodo per individuarli e un fondamento formale, il diritto naturale. Di questi aspetti ci occupiamo nell’articolo sull'attualità del diritto naturale, in cui approfondiamo altresì il concetto di natura umana, i diritti fondamentali della persona, le gravi conseguenze che si corrono quando il relativismo trasferisce le sue istanze dal piano culturale e sociale a quello civile-politico, col positivismo giuridico.
Nel nostro articolo Quali "valori"?, inoltre, cercando di applicare il metodo e il fondamento qui proposti, abbiamo tratteggiato una cultura dei valori (in particolare sociali e politici), in grado di offrire le risposte migliori ai bisogni della società di oggi. Abbiamo cercato di capire quali siano - concretamente - i "valori" da più parti invocati.

Valori comuni e fede.

Abbiamo sin qui cercato il fondamento dei valori comuni in un metodo - la ragione - e in un fondamento - la natura umana - che sono patrimonio di tutti gli uomini. I valori comuni, pertanto, che non si identificano con la Verità di Fede, possono emergere non solo come oggettivamente validi, ma anche come condivisibili da tutti, credenti e non credenti.
Ciò non significa che la fede religiosa non possa avere un ruolo nel dibattito pubblico e nella scoperta dei valori. Una corretta visione della laicità ci insegna che l'apertura al piano soprannaturale fonda la dignità della persona, sostiene la ragione nell'individuazione dei valori, impedisce che la società politica trovi in se stessa l'unico fondamento (esponendosi al rischio del totalitarismo).
Non sempre la ragione ha trovato in sé le risorse per guardare al bene dell’uomo. I limiti dell'illuminismo (enfasi sulla ragione soggettiva) sono dovuti principalmente, pensiamo, al suo essersi posto come "secolarismo", cioè come tentativo di estromissione del sacro dall'orizzonte dell'uomo moderno.
Sul tema specifico del rapporto tra conoscenza e verità, e dei rischi del relativismo, un insostituibile contributo è stato fornito da un'enciclica come la Veritatis splendor di Giovanni Paolo II.
Queste constatazioni devono indurre ad un nuovo dialogo, tra credenti e non credenti, che sia razionale ma non escluda l’orizzonte religioso; un dialogo, come ha detto Papa Benedetto XVI (capovolgendo la formula di Grozio), “veluti si Deus daretur”: “come se Dio esistesse”.
(Il nucleo di quest’articolo - ora completamente riveduto ed ampliato - è stato parte del documento predisposto per il meeting di Vallombrosa del 27-29 giugno 1997)
Fonte: http://www.europaoggi.it/content/view/308/45/ (prelevato il 17 dicembre 2008)

Attualità del diritto naturale

Il diritto naturale fondamento dei valori che rendono la democrazia salda e rispettosa di tutti
di Giovanni Martino

Nell’articolo sul pluralismo e valori comuni evidenziamo che è impossibile immaginare una società priva di valori condivisi (intendendo per valori i criterî di scelta, l'espressione del ‘dover essere’ di una realtà naturale: scuola, lavoro, scienza, arte, ecc.) La necessità di valori comuni vale sia nel piano socio-culturale (come esponiamo sempre in quell'articolo), sia nel piano politico-giuridico, su cui focalizziamo qui la nostra attenzione.
Nelle scelte politiche, nelle norme giuridiche, non esistono soluzioni “tecniche” o “neutrali”; ogni scelta esprime anche un criterio "valutativo": un princìpio, una convinzione politica o una scala di valori. Difendere il ladro o il derubato? L’innocenza del bambino o il piacere del pedofilo?
Sostenere che si possa fare a meno di discutere dei "valori" comuni è un grande imbroglio, serve a imporre alcuni princìpî (funzionali a interessi forti) spacciandoli come inevitabili, tecnici, neutrali, e sottraendoli al libero confronto culturale e democratico.
Non è certo facile individuare i valori di riferimento per il piano politico-giuridico. Va considerato che spesso il piano politico recepisce questi valori da quello sociale, dal dibattito culturale che in esso si sviluppa. Bisogna però aggiungere che il piano politico ha caratteristiche proprie (è il piano delle regole giuridiche, dotate della particolare forza coattiva che ad esse assegna l'ordinamento), ed ha dunque metodo e fondamento proprî, su cui è opportuno indagare.
Per individuare i valori da porre alla base delle norme giuridiche, il metodo che si è affermato è quello democratico, basato sul principio di maggioranza. Questo metodo è ritenuto più che sufficiente, per valutare le leggi, dalla dottrina del positivismo giuridico. Essa si fonda, per l’appunto, sul diritto "positivo", cioè quello legittimamente posto dall’autorità statale: la legge sarebbe valida e giusta semplicemente perché emanata nel rispetto delle procedure formali. In democrazia, secondo le regole volute dalla maggioranza. Il contenuto, i valori espressi, sarebbero irrilevanti; così come il consenso verso la norma, il senso di appartenenza civile: conta solo l'obbedienza. A ben vedere, dunque, nell'ottica positivista una legge formalmente corretta è sempre "valida e giusta", quand'anche emanata in un regime non democratico...
La storia si è incaricata di smentire tragicamente la convinzione che il rispetto delle forme o della maggioranza sia sufficiente ad assicurare il rispetto dell'uomo.

Allora, oltre che un metodo, serve un fondamento.
La ricerca di un tale fondamento ai valori e alle leggi conduce inevitabilmente a guardare sia alla legge naturale (intesa come insieme di princìpî e valori oggettivi) sia – soprattutto - al diritto naturale (inteso come insieme di norme giuridiche vincolanti che regolano la vita sociale, nonché come sistema per la produzione delle norme stesse). Il diritto naturale è indipendente - e preesistente - rispetto alle leggi di ciascuno Stato, perché conforme alla natura umana e comune a tutta l'umanità. E' un diritto che, ovviamente, non si sostituisce al consenso democratico; però legittima la democrazia, e le dà anche un'anima per evitarne le degenerazioni.
Vedremo che la tradizione del diritto naturale non si limita a fornire un fondamento all'ordinamento giuridico, ma offre un metodo complementare a quello democratico, contro l’assolutizzazione che ne fa la dottrina del positivismo giuridico.

Il diritto naturale ancoraggio per i diritti umani fondamentali.
La necessità di riconoscere una verità dei rapporti sociali e giuridici, e di ancorarla in particolare al diritto naturale, emerge in maniera più evidente nel momento in cui si tratta di trovare una legittimazione per i diritti umani fondamentali, affinché siano sottratti all’arbìtrio o alla prevaricazione, anche quando questi siano rivestiti delle forme della legalità o siano espressione della volontà di una maggioranza.
Poiché spesso ricorda alle maggioranze popolari ed ai politici in carica che il loro potere è limitato, la teoria del diritto naturale è controversa e spesso malaccetta.
Il Professor Anton-Herman Chroust, della Notre Dame Law School, era solito dire agli studenti: “Gli accademici ripetono sovente che la legge naturale va eliminata, ma ogni 25 anni circa rientra dalla porta di servizio quando alcune crisi mostrano il fallimento del positivismo utilitaristico”.

Alcuni clamorosi revivals del diritto naturale si sono avuti nel secolo appena trascorso: 1) in reazione agli orrori nazisti; 2) in reazione alla segregazione razziale negli Stati Uniti; 3) in reazione ai crimini dei regimi comunisti; 4) in reazione ai crimini etnici nell'ex Jugoslavia e in Rwanda.

1) Durante il periodo del nazionalsocialismo in Germania tutti i ricorsi ad una resistenza attiva e passiva contro il regime erano necessariamente fondati sul diritto naturale, poiché il positivismo giuridico come tale non offriva alcun sostegno: le leggi erano emanate secondo il rispetto delle regole istituzionali, senza contare che il nazismo aveva raggiunto il potere democraticamente.
Dopo la guerra, il processo di Norimberga elaborò il concetto di "crimini contro l'umanità", ovvero contro il diritto naturale. Tale concetto è tutt'ora utilizzato dall'ordinamento dell'ONU. Anche le corti della Repubblica Federale Tedesca chiamate a giudicare i crimini nazisti rifiutarono di appiattirsi sulla giurisprudenza positivista. Riconobbero “la necessità per il legislatore di standards universali più alti, di principî validi oggettivamente” e si appoggiarono al diritto naturale per punire azioni che erano legali sotto il regime nazista. “L’atto legislativo positivistico ‑ dichiarò una corte ‑ è limitato intrinsecamente. Perde ogni potere di obbligatorietà se viola i principî generalmente riconosciuti di diritto internazionale e di diritto naturale, o se la contraddizione tra la legge positiva e la giustizia raggiunge un grado così intollerabile che la legge deve cedere il passo alla giustizia”. Nel rigettare la difesa dei medici accusati di aver ucciso prigionieri in esperimenti scientifici autorizzati dalla legge del Terzo Reich, un’altra corte concludeva che “la legge deve essere definita come un’ordinanza o un precetto indirizzato al servizio della giustizia. Quando il conflitto fra una legge promulgata e la giustizia vera raggiunge proporzioni non tollerabili, la legge promulgata deve cedere alla giustizia, e va considerata una ‘legge illegale’. L’accusato non può giustificare la sua condotta appellandosi ad una legge esistente se questa legge si scontra con certi princìpî evidenti per sé di diritto naturale.”

2) Il caso di Rosa Parks – la donna di colore che si rifiutò di cedere il posto sull’autobus nella città di Montgomery, in Alabama (Stati Uniti), il 1 dicembre 1955 – segnò simbolicamente l’inizio della lotta per i diritti civili dei neri americani. Eppure una legge allora vigente nell’Alabama faceva obbligo alle persone di colore di cedere il posto sui mezzi pubblici. Solo una lettura appropriata del diritto naturale era di supporto alle rimostranze di Rosa Parks.

3) La caduta dei regimi comunisti dell'Est europeo ha consentito, sul finire del XX secolo, di giudicare alcuni dei crimini commessi al loro interno. Ingo Heinrich ed Andreas Kuhnpast sono due guardie di confine della ex Germania dell’Est, che furono condannate per omicidio da un tribunale tedesco nel 1992 per aver ucciso un profugo nell’atto di attraversare il Muro di Berlino. Il tribunale rifiutò la difesa che alle guardie era stato ordinato di “sparare per uccidere” i profughi. “Non tutto ciò che è legale è giusto”, dichiarò il giudice Theodor Seidel; “alla fine del XX secolo, nessuno ha il diritto di ‘spegnere’ la propria coscienza quando si tratta di uccidere su ordine delle autorità”.

4) Gli anni '90 sono stati straziati da due grandi conflitti tra etnie interne allo stesso Stato: serbi-ortodossi e musulmani in Bosnia (repubblica dell'ex Jugoslavia), tutsi e hutu in Rwanda. In quei conflitti è tornato di attualità il crimine di genocidio, dal quale l'umanità pensava di essersi 'vaccinata'. Sono apparse nuove assurde forme di violazione dei diritti umani, come lo "stupro etnico". Anche in conseguenza di questi crimini è stato finalmente sottoscritto, nel 1999, lo Statuto di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale, diventata operativa nel 2002. La Corte giudica dei "crimini contro l'umanità" (che abbiamo ricordato poc'anzi) commessi anche all'interno degli Stati da organi sovrani degli Stati stessi: per cui il diritto della Corte prevale sul diritto positivo degli Stati nazionali. L'art.21 dello Statuto dichiara che "l'applicazione e l'interpretazione del diritto (...) devono essere compatibili con i diritti dell'uomo internazionalmente riconosciuti".
L'istituzione della Corte cerca di rilanciare i valori espressi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, approvata nel secondo dopoguerra dalle Nazioni Unite. La quale, però, ha sempre avuto una duplice debolezza: nel valore formale (mera raccomandazione, ratificata sin'ora con valore vincolante solo da una cinquantina di Stati); e nel contenuto, debolezza dovuta all'ambiguità di non aver utilizzato l'espressione "diritti naturali" (ambiguità conservata dallo Statuto della Corte Penale Internazionale). Ciò lascia uno spiraglio alla tentazione di sostituire ai diritti positivi nazionali un nuovo diritto positivo sovranazionale, capace di modificare i diritti umani).
Nonostante questi drammatici - e recenti - esempi storici, il tentativo di disancorare i diritti umani dal diritto naturale è sempre latente.
"Se non c'è più un diritto naturale inalienabile che garantisca l'eguaglianza degli esseri umani (per esempio per quanto riguarda il diritto alla vita e alla libertà personale), tutto diventa contrattabile e relativo. Rafael Salas, ex direttore dell'UNFPA (il Fondo dell'ONU per la Popolazione), ha sostenuto che le spaventose violazioni dei diritti umani attuate in Cina durante gli anni della politica del figlio unico non erano tali per i cinesi. Aborti forzati, abbandono e uccisione dei neonati, secondo Salas, erano metodi che 'per le loro norme culturali non erano affatto coercitivi'. Questo è relativismo etico: ma è chiaro che si tratta di una concezione che porta alla distruzione dell'idea stessa dei diritti umani" (Eugenia Roccella, Lucetta Scaraffia, Contro il cristianesimo. L'ONU e l'Unione Europea come nuova ideologia).
Ma la legge naturale non esprime solo i diritti fondamentali e inalienabili della persona, sempre validi e immediatamente "azionabili", dei quali ci è più evidente l'importanza. La legge naturale esprime anche i valori che consentono la civile convivenza, che fondano il sentimento di giustizia e che devono tradursi nelle leggi concrete. Il diritto naturale è anche quel ius condendum (il diritto “che deve essere costruito”) cui deve tendere il ius conditum (il diritto vigente); un cammino difficile, rifiutato dal positivismo giuridico.

L’illuminismo e la ragione soggettiva
La strada che porta al positivismo giuridico è stata aperta da una certa linea di tendenza del pensiero filosofico moderno, quella che abbiamo sommariamente tratteggiato proprio nell’articolo sul relativismo. È la linea che vede l’affermarsi della ragione soggettiva, la quale deve dare ordine ad una realtà incoerente, non riconoscendo più un dato "naturale" oggettivo, evidente in sé. Un contributo fondamentale venne dal razionalismo illuminista, il quale, proteso nella furia iconoclasta di distruggere tutto ciò che apparisse retaggio della tradizione, finì con l’assegnare alla “libera” ragione il compito di produrre la propria verità: l’illuminismo arriva ben presto a negare il potere della ragione di conoscere una verità oggettiva.
All'abbandono della legge naturale (intesa come insieme di princìpî e valori oggettivi) è seguito ovviamente l'abbandono del diritto naturale (inteso come sistema di norme), che è stato privato della connotazione di giuridicità: vero diritto sarebbe solo quello positivo.
L'illuminismo, in verità, non rigettò da subito l'idea del diritto naturale. Nel Settecento, anzi, si limitò a sancire il passaggio dal giusnaturalismo scolastico (quello che affondava le sue radici in Aristotele, Cicerone, San Tommaso d’Aquino) al giusnaturalismo razionalista, che già andava diffondendosi, secondo il quale la ragione doveva disvelare la razionalità intrinseca della natura.
Il giusnaturalismo scolastico riteneva che la ragione dovesse scoprire le regole calate nella natura dal suo Creatore, e ad esse attenersi. Uno dei padri del pensiero liberale moderno, Locke, sviluppando le tradizionali tesi giusnaturalistiche, sosteneva che anche il patto sociale tra gli uomini incontra vincoli da rispettare; vincoli che la ragione può autonomamente scoprire, ma che meglio sono illuminati dalla legge divina.
Nel giusnaturalismo razionalista, invece, Grozio sosteneva necessario fondare un diritto che resti valido "etsi Deus non daretur", "quand'anche Dio non esistesse". Hobbes riteneva che l'unica legge di natura sia la necessità di stipulare un patto sociale ed attenersi ad esso. Queste tesi saranno riprese e consolidate dagli illuministi, i quali rinchiudono il diritto naturale nella positivizzazione che ne può compiere lo Stato: abbiamo così un giusnaturalismo statualistico, che mitizza le codificazioni. Il concetto di diritto naturale serve ormai solo per legittimare le invocate trasformazioni sociali, legate a visioni ideologiche, utopiche e antistoriche (lo "stato di natura" di Rousseau).
I princìpî naturali, insomma, non sono scoperti dalla ragione oggettiva, ma prodotti dalla ragione soggettiva, disancorata da un principio di realtà. Tale ragione finisce per abbandonare il giusnaturalismo e approdare al positivismo giuridico statualista, che costituisce dunque la vera eredità dell'illuminismo (anche a causa dell'enfasi sullo Stato etico posta dall'idealismo hegeliano).

Positivismo giuridico o giusnaturalismo?
Mentre Aristotele o San Tommaso d’Aquino affermavano che l’uomo è sociale per natura, il razionalismo postula un mitico “stato di natura” popolato da individui autonomi, non sociali ma sociabili. Questi individui decidono liberamente di costruire lo Stato attraverso un contratto sociale. Lo scopo, secondo Hobbes, era quello di conseguire una maggiore sicurezza; per Rousseau è la realizzazione della “volontà generale”. L’origine della comunità politica non è quindi riposta nella natura stessa, ma nel contratto sociale, e ‑ ciò che più conta - i diritti non provengono dalla natura, ma dalla maggioranza degli uomini, attraverso lo Stato (che diviene l’unica forma riconosciuta di comunità politica).
“La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo alla fine del XVIII secolo ‑ scrive Hannah Arendt - rappresenta un punto di svolta nella storia. Significa, né più né meno, che da allora la fonte della legge e dei diritti è la volontà dell’uomo e non la natura, né la tradizione.”
Nella tradizione di diritto naturale si prende atto del conflitto spesso esistente tra leggi statali e princìpî di giustizia: sono i dilemmi posti da Socrate nell'Eutifrone; è il dramma umano, religioso, culturale e sociale dell'Antigone di Sofocle; è il delicato rapporto tra legge di Cesare e legge di Dio regolato da Cristo.
Il positivismo, invece, nega ogni distinzione, affermando il primato del diritto positivo.
Per il giusnaturalismo la legge necessita della volontà del legislatore, che la ordina e la promulga; ma l’essenza della legge è la ragione, la ratio.
Nel giuspositivismo di derivazione illuministica, invece, la ragione ‑ apparentemente esaltata - ha un ruolo meramente strumentale: il primato della ragione soggettiva fa sì che la legge sia essenzialmente un esercizio della volontà, alla fine asservita agli interessi personali o alle ideologie.

Positivismo giuridico come volontarismo
Il positivismo giuridico statualista è espressione di un volontarismo che oscilla come un pendolo.
Se il volontarismo della ragione soggettiva è individualista, le regole imposte dallo Stato sono ridotte al minimo. Possiamo parlare di positivismo "statualista", perché il concetto di "giustizia" è confinato nelle residue norme statuali. Non è più garantita la libertà di tutti, ma solo dei più forti: sono distrutte le fondamenta stesse della libertà. Se la società appare meramente come un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, il contratto che li unisce sarà necessariamente da ritenersi come un accordo fra coloro i quali, avendo un maggiore ‘potere contrattuale’ (soldi, appartenenza ad una lobby ben organizzata), hanno il potere di imporre la loro volontà sugli altri. Si afferma un relativismo individualista e utilitarista.
Per evitare tale degenerazione (ma anche per rispondere alle esigenze del volontarismo costruttivista, utopista), i teorici del contratto sociale elaborarono il “dispotismo illuminato”, che divenne ben presto uno Stato tirannico (e, nel ventesimo secolo, totalitario: nazismo e comunismo), il quale estende indefinitivamente la propria sfera d'azione e impone con le leggi valori proprî (elaborati dalla burocrazia dominante). È uno Stato che dispone della vita dei nemici politici o dei suoi membri più deboli, da un bambino non nato ad un anziano, in nome del pubblico interesse (che in realtà è solo l’interesse di pochi). Questo accade anche quando tale interesse sia determinato da una maggioranza, cui è riconosciuto un potere prevaricatorio (la “dittatura della maggioranza” prevista da Tocqueville). Un'ideologia che è volontarista, perché esprime e impone una presunta "volontà generale"; un'ideologia che è relativista, nella misura in cui non si ispira a un bene oggettivo, ma a un interesse di parte, mutevole nel tempo, che vuole imporre come interesse generale.
La reazione agli eccessi del costruttivismo intollerante spinge il pendolo di nuovo verso l'individualismo, in un'oscillazione incapace di trovare un suo equilibrio, ma sempre interna al positivismo statualista e la volontarismo.
Una prospettiva più equilibrata è stata quella dell’empirismo di matrice anglosassone, che ha saputo evitare le tentazioni totalitarie cui ha ceduto l'Europa continentale. L'empirismo, a dire il vero, privilegiava al diritto naturale la consuetudine, e non aveva grande fiducia nelle capacità della ragione di attingere alla verità. Però aveva conservato un equilibrio maggiore rispetto al percorso filosofico continentale, almeno finché è restato attento alla complessità della natura umana e al legame con usi e costumi consolidati.
Oggi quel legame si indebolisce, col diffondersi delle istanze utilitariste e per l'azione di un'élite politico-giudiziaria che impone come nuove consuetudini le proprie visioni ideologiche (anche con lo strumento dei precedenti giudiziarî che, nel sistema del common law, hanno forza vincolante); per cui emergono il libertinismo, il relativismo, il positivismo che abbiamo incontrato nel volontarismo individualista.
Il primato della ragione soggettiva, e quindi della volontà, introduce nel diritto - tramite il positivismo - una prospettiva utilitaristica, espressione dell'utilitarsimo sociale ed economico.

La deriva del positivismo giuridico
Per il diritto naturale tutti gli esseri umani, in quanto tali, sono titolari dei diritti personali. Nella nostra Carta costituzionale, ad esempio, i diritti non promanano dallo Stato; al contrario, "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo": "riconosce" ciò che è preesistente.
Nella giurisprudenza positivistica, questa corrispondenza naturale e necessaria fra umanità e personalità è rigettata. Gli esseri umani che, per esempio, sono di colore, o non nati, o malati, possono essere privati dei diritti a seconda della volontà del legislatore, che può definirli non-persone (la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Dred Scott vs. Sanford del 1856, aveva stabilito che la proclamazione del principio di uguaglianza contenuta nella Dichiarazione di indipendenza non si poteva applicare ai neri, i quali erano considerati come una mera proprietà).
In un celebre e più recente (1990) caso, Cruzan vs. Director, il giudice John Paul Stevens argomentò che “per pazienti come Nancy Cruzan (una ragazza del Missouri insensibile ad ogni impulso esterno, cui fu infine rimosso il tubo di alimentazione, ndr), che non hanno la minima coscienza e alcuna possibilità di guarigione, vi è da domandarsi seriamente se la mera persistenza dei proprî corpi è ‘vita’ secondo l’accezione comune, secondo l’accezione data dalla Costituzione e dalla Dichiarazione di Indipendenza”. Parole tragicamente tornate d'attualità con Terri Schindler Schiavo, che pure dava qualche risposta agli stimoli esterni, avendo peraltro genitori disposti ad accudirla: anche a lei è stata imposta dai giudici - questa volta in Florida - la morte per fame.
Il positivismo giuridico di derivazione illuministica non dà spazio ai corpi intermedî, come la famiglia ed i gruppi sociali, posti tra l’individuo e lo Stato; oscilla tra i due estremi, individualismo liberista o collettivismo totalitario, in ogni caso fedeli al dogma dell’esclusiva statualità del diritto, per cui il positivismo è stato anche definito dottrina dell'assolutismo giuridico. La teoria che ne costituisce la massima espressione è il razionalismo ‘normativista’ (o "teoria pura" del diritto: Hans Kelsen ne è stato il maggiore teorico). In questa prospettiva, anche la democrazia non è la dimensione necessaria della statualità del diritto, ma solo una delle forme in cui questa si può manifestare.
In difesa del positivismo giuridico è stato sottolineato che ha dato un importante contributo all'elaborazione scientifica del diritto, cercando di separare il diritto come scienza dal dibattito politico e ideologico; per cui il positivismo non potrebbe essere accusato di aver sostenuto norme 'ingiuste', perché si tratta di giudizi di valore estranei alla sua prospettiva.
Non vogliamo disconoscere i contributi scientifici del positivismo giuridico, anche se oggetto della nostra analisi non è la definizione della migliore teoria generale del diritto, bensì l'individuazione dei valori che costituiscono il contenuto delle norme e che quindi regolano la vita sociale; e va anche ricordato che gli apporti ad una definizione 'scientifica' del diritto non sono solo quelli del positivismo giuridico, ma anche di altre dottrine che hanno evidenziato l'inevitabile legame del diritto con i fenomeni sociali.
In ogni caso, la distinzione tra un positivismo "scientifico" ('buono') e un positivismo "ideologico" ('cattivo', basato sul primato assoluto dello Stato) ci sembra una distinzione debole. Il positivismo giuridico ha influenzato fortemente proprio il dibattito politico-culturale degli ultimi due secoli, venendo invocato per sostenere scelte di valore. Il positivismo "scientifico", quando ad esempio ha cercato di sminuire il dibattito sulla giustizia - riducendolo a quello sulla 'scientificità' della norma -, ha finito col confondersi con quello "ideologico". Del resto, i concetti di "norma fondamentale" o di "statualità" della norma non sono altro che postulati ideologici ammantati di scientificità. Non a caso Kelsen, riesaminando il processo a Cristo riportato nei Vangeli, pensava che il comportamento di Ponzio Pilato fosse stato rispettoso delle procedure, e quindi inappuntabile (anche se aveva consentito che venisse messa morte una persona che lui stesso reputava innocente)! Il positivismo "scientifico" non può 'lavarsi le mani' dicendo che spetta alla politica determinare i contenuti della norma. Se la norma viola i diritti fondamentali dell'uomo o di una minoranza, servono garanzie di tipo giuridico, fondate sul diritto naturale.
In difesa del positivismo giuridico è stato anche ricordato che - storicamente - è nato per promuovere la certezza del diritto contro arbìtrî e privilegi; ma si è trattato, per l'appunto, di aspetti dettati dalla contingenza storica. La natura profonda del positivismo (la statualità) si è adattata, in altre contingenze storiche, a giustificare altri arbìtrî e altre ingiustizie.
Del resto, non è stato il giuspositivismo a creare le basi dello Stato liberale e di diritto, ma proprio il giusnaturalismo. Lasciamo la parola ad uno studioso "insospettabile" (proprio perché di scuola giuspositivista) come Norberto Bobbio:
“Il presupposto filosofico dello Stato liberale, inteso come Stato limitato in contrapposizione allo Stato assoluto, è la dottrina dei diritti dell'uomo elaborata dalla scuola del diritto naturale (o giusnaturalismo): la dottrina secondo cui l'uomo, tutti gli uomini indiscriminatamente, hanno per natura, e quindi indipendentemente dalla loro stessa volontà, tanto più dalla volontà di pochi o di uno solo, alcuni diritti fondamentali, come il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, alla felicità, che lo Stato, o più concretamente coloro che in un determinato momento storico detengono il potere legittimo di esercitare la forza per ottenere l'ubbidienza ai loro comandi, debbono rispettare - non invadendoli - e garantire nei riguardi di ogni possibile invasione da parte degli altri”.
La tradizione del diritto naturale - a differenza del giuspositivsmo - include il principio di sussidiarietà, che sottolinea il ruolo dei gruppi intermedî e conduce al principio della pluralità degli ordinamenti (ogni comunità naturale produce diritto). A questo stesso principio, per altra via ‑ quella di un’attenta analisi storica e sociologica ‑, giungono le correnti giurisprudenziali più avvedute, che si rifanno alle teorie c.d. ‘istituzionali’ (elaborate da Gierke, Hauriou, Ehrlich, Romano), e che conoscono sempre maggiore diffusione.

Come si definisce la legge naturale? E come incide nella sfera pubblica?
I critici del diritto naturale hanno evidenziato: 1) la difficoltà a trarne un catalogo di diritti o di principî puntuale; 2) hanno sottolineato come non sia stata sempre univoca la definizione delle leggi di natura; 3) hanno denunciato il rischio che ogni determinazione precisa risulti rigida, bloccando il progresso storico; 4) hanno segnalato il pericolo di un insanabile contrasto tra diritto naturale e diritto positivo (contrasto delicato soprattutto quando il diritto positivo sia espressione della volontà democratica).
Tali obiezioni non sono irragionevoli, ma deve essere valutata attentamente la loro portata.

1) Nell’articolo sul relativismo abbiamo evidenziato che la difficoltà a definire la verità sull’uomo, e quindi anche la legge naturale, sta negli ineliminabili limiti razionali e morali degli uomini. Ciò nonostante, il riconoscimento che esiste una natura umana essenziale, che questa fonda la dignità dell’uomo e che è conoscibile da tutti, è il frutto di una ragione aperta e realista.
La legge naturale è la storia di come le cose funzionano. È semplice da comprendere quando parliamo della natura fisica; ma è anche una prerogativa della persona umana, della sua sfera morale, intellettuale, spirituale, relazionale, sebbene la natura umana abbia un carattere duale (anima-corpo, finito-infinito) che la rende più complessa e mutevole. La natura dell’uomo - ovvero il suo statuto ontologico - è data da quelle caratteristiche fisiche, morali, razionali, spirituali che lo contraddistinguono al di là di razze, lingue, religioni, idee politiche, differenziandolo da ogni altro essere vivente e fondandone l’eminente dignità di persona (e i suoi diritti).
Negano l'esistenza di una natura umana le teorie del "determinismo sociologico" (di derivazione marxista), per cui l'uomo è esclusivamente il prodotto degli influssi che subisce e dei rapporti (sociali, economici, culturali) che instaura.
Così come le teorie "autopoietiche", per cui l'uomo sarebbe creazione di se stesso; e persino l'identità sessuale (maschio, femmina) dovrebbe essere sostituita da un'identità di genere ("gender") autodeterminata.
Ora, queste teorie, negando la natura umana, sviliscono la dignità dell'uomo, la quale diverrebbe condizionata e demandata ad una valutazione esterna, capace di stabilire se l'individuo abbia raggiunto lo stato che lo costituisce pienamente come persona.
Beninteso, anche lo sviluppo di differenti identità culturali (dovuto sia alle relazioni sia all'autodeterminazione) è un’esigenza della natura umana. Per invocare il rispetto della dignità della persona non è necessario soffocare le originalità, ma semplicemente individuare gli elementi naturali che le precedono.
Altre teorie non negano in toto la natura umana, ma ne danno una visione parziale, ne sminuiscono la complessità: e in definitiva la amputano. Sono le teorie "riduzionistiche", che cioè riducono l'uomo ad una sola dimensione (economica, politica, sessuale, materiale, razionale), e lo rispettano solo nelle manifestazioni di quella dimensione.
La dignità dell'uomo, dunque, derivando dalla sua natura, appartiene all'individuo umano in quanto tale, in qualsiasi condizione si trovi: non dipende dal riconoscimento di altri, dalle condizioni di salute, dalle caratteristiche fisiche o morali.
Se col termine di "persona" abbiamo indicato la grande ricchezza della natura umana, dobbiamo precisare che - in ogni caso - a nessun individuo può essere negata la dignità di persona, perché l'espressione di quella ricchezza può essere piena o parziale, attuale o potenziale. Per chiarire ancor meglio: il deficit intellettuale di un minorato mentale (ma anche di un'individuo che dorme!) non lo rende meno "persona", non ne intacca la dignità; così per il malato terminale, per il bambino non nato, per il criminale incallito, per l'emarginato.
La crisi del diritto naturale coincide con la crisi dell'idea di natura umana, e reca con sé gli inevitabili soprusi che ne conseguono.
La riflessione sulla natura della persona umana conduce ad evidenziare che la legge naturale non si identifica solo con i suoi diritti fondamentali, ma anche ‑ in un’accezione più ampia ‑ con quell’insieme di leggi e valori che ne guidano l’esistenza e ne assicurano il bene. L’uomo, capace non solo di fare il bene, ma anche il male (contrariamente a quanto vorrebbero certi ingenui ottimismi), trova nella legge naturale il riferimento per seguire la sua vocazione più profonda al bene e al dono di sé.
Senz’altro la legge naturale è una guida per la condotta personale. Ma ha anche un rilievo sociale, modella tutte le realtà in cui l’uomo svolge la sua esistenza: famiglia, comunità locale, associazioni, lavoro, scienza, economia, ecc. Ogni realtà umana ha le sue leggi e i suoi valori naturali: è difficile che una famiglia funzioni senza stima e affetto reciproci; che un'azienda sia sana se non offre prodotti che incontrino il gradimento dei clienti; che uno scienziato faccia scoperte se non applica un metodo sperimentale rigoroso; che uno sportivo vinca una gara se non si allena; e così via. La legge naturale individua i valori comuni ad una collettività, fissa i criterî di composizione degli interessi, garantisce in maniera più sicura la coesistenza, che è anch'essa un'esigenza della natura dell'uomo quale essere sociale.
La legge naturale di una realtà umana costituisce l'elemento oggettivo, universale, dei valori che animano quella realtà. A tale elemento se ne aggiunge uno mutevole, creato dall'esperienza umana nei diversi contesti storici, geografici, sociali, culturali. Questo elemento costituisce la tradizione, che esprime la cultura e l'identità collettiva di una comunità. L’esperienza esistenziale di ogni generazione continuamente verifica (o falsifica) quelle acquisizioni, le anima e le fa rivivere.
Quanto detto vale anche per la comunità più ampia, lo Stato, per cui la legge naturale ha anche un’incidenza sulla sfera pubblica e sulle sue regole, le norme giuridiche. "Realizzare la coesistenza nella legalità" (S. Cotta) è la funzione della norma giuridica: una norma che pretendesse di garantire la coesistenza senza attenzione alla natura dell'uomo, senza cercare una giustificazione profonda, ma basandosi solo sul rispetto formale, si voterebbe al fallimento.
Non bisogna trascurare che l'illuminazione divina, anche in un contesto di laicità, può fornire un contributo alla corretta individuazione dei principî di diritto naturale, come già affermava la tradizione del giusnaturalismo scolastico. Questa elaborazione non impegna il non credente sulla base di un principio di autorità, ma può essere la base di un costruttivo confronto razionale.
In ogni caso, abbiamo sperimentato - nella concreta vicenda storica - che l'invocazione della legge naturale non è un'aspirazione astratta.
Innanzitutto, il diritto naturale ha conosciuto nei secoli e conosce tutt'ora una seppur parziale vigenza diretta - senza il 'filtro' del ius positivum - nel ius gentium (il diritto internazionale).
Il diritto naturale è stato rilanciato nelle grandi convenzioni internazionali sui Diritti dell’uomo, a causa della crisi del positivismo giuridico. Abbiamo visto all'inizio, nel paragrafo su diritto naturale e diritti fondamentali, alcuni clamorosi casi di revival di tale diritto.
Lo Statuto delle Nazioni Unite proclama, all'art. 51, il "diritto naturale di autotutela individuale o collettiva".
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, approvata in sede ONU (e di cui abbiamo pure evidenziato, all'inizio, alcune ambiguità), recita - all'art. 16 - che "la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società".
Tutti gli ordinamenti giuridici riconoscono uno spazio al criterio di equità nella risoluzione di alcune controversie.
Di "diritto naturale" (all'educazione di figli) parla l'art. 6 della Legge fondamentale tedesca. I "diritti naturali" dell'uomo, proclamati nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, sono tutt'ora parte integrante della Costituzione francese.
Ed infine, per venire al nostro ordinamento, l'art.2 della Carta costituzionale "riconosce (in quanto preesistenti) e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo", con ciò ponendo un limite a se stessa e alla futura legislazione positiva; l'art. 29 "riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio".
Per cui possiamo ben parlare di concretezza e di modernità del diritto naturale.

2) Dal diritto naturale, nel corso della storia, sono stati ricavati principî diversi? Questa critica non tiene conto che l'elaborazione di alcuni princìpî risente del grado di consapevolezza storico raggiunto dai popoli: il cammino della storia può condurre anche ad una crescita di consapevolezza sui contenuti delle leggi di natura.

3) Quanto al pregiudizio secondo il quale l'idea di diritto naturale comporterebbe rigidità (pregiudizio che peraltro si contraddice con la critica precedente, secondo cui il diritto naturale sarebbe mutevole), ostacolando il progresso, basti ricordare come già Aristotele spiegasse che i due concetti (natura e cambiamento) non sono inconciliabili: "V'è un dominio della natura, il quale però sottostà al movimento; tuttavia alcune cose sono mutevoli per natura, altre non per natura" (Etica nicomachea). Si tratta di comprendere correttamente la natura umana: uno dei suoi valori cardini è la libertà, la quale implica non certo rigidità, bensì creatività e cambiamento, adattamento (seppur non stravolgimento) a mutate condizioni economiche e sociali; inoltre, tale natura umana è duale (anima-corpo, finito-infinito), con tutte le dinamiche che ciò comporta.

4) I problemi posti dalla dialettica tra diritto naturale e diritto positivo? Non possono essere risolti semplicemente eliminando uno dei due fattori.
Il diritto naturale, come abbiamo visto, è un sistema giuridico, non un catalogo di norme; non conosce una definizione rigida e minuziosa. Questo accade perché il diritto naturale non è legittimato da una fonte (almeno per chi non crede in Dio), quanto piuttosto dal suo contenuto, dalla sua capacità di rispondere alla funzione dell'ordinamento giuridico: garantire l'esigenza di coesistenzialità iscritta nella natura umana. Per cui il diritto positivo non passa in secondo piano, ma è il veicolo necessario per concretizzare, ‘positivizzare’ la legge naturale, realizzare il "diritto naturale vigente".
Il diritto positivo conserva ampia autonomia, perché i princìpî posti dal diritto naturale sono princìpî generali, parametro di elaborazione delle norme, obiettivo cui tendere (ius condendum, diritto da realizzare). Tali parametri hanno bisogno di essere definiti concretamente nel ius conditum (diritto posto), adattati al contesto storico e culturale.
Il diritto naturale ha rilevanza anche come criterio di giudizio delle norme esistenti. Anche questo aspetto non comporta una svalutazione del diritto positivo. In presenza di un contrasto, se i contorni di questo contrasto sono sfumati, l'esigenza di certezza del diritto impone che al diritto positivo vada riconosciuta la prevalenza formale. Ciò non significa, però, negare l’importanza che le forze sociali siano impegnate a sanare questo contrasto: non si può pretendere che la legalità sostituisca la giustizia. L’importante, allora, non è definire una volta per tutte un contenuto rigido e minuto, “ontologico”, della legge - e del diritto - naturale, contrapponendola al diritto positivo. L’importante è che gli uomini, nel costruire liberamente la loro società, non si sentano demiurghi onnipotenti, padroni del bene e del male, ma siano responsabilmente guidati dallo sforzo di comprendere sempre meglio i principî che debbono sviluppare in pienezza (come abbiamo cercato di fare, nel nostro piccolo, con l'articolo Quali "valori"?).
Quando però sono in gioco i diritti umani fondamentali il contrasto deve risolversi con la prevalenza del diritto naturale: tanto nel giudizio dei tribunali, quanto nell'agire del singolo, mediante l’obiezione di coscienza. Esistono norme oggettive, fondate sulla natura, che affermano diritti inviolabili e sono dunque più elevate della Costituzione o della Corte Suprema. Una legge contraria ai diritti naturali fondamentali non è neanche una legge. È vuota, un atto di violenza più che una legge. E questo vale quand'anche si tratti di legge approvata secondo il principio di maggioranza, in un sistema democratico. La logica filosofico-giuridica ci spiega che una verità, un diritto fondamentale, si scopre, si "riconosce", non si produce con la forza del numero. L'esperienza storica, poi, ci insegna i pericoli della "dittatura delle maggioranze", l'esigenza di presidî giuridicamente rigidi a tutela delle minoranze e dei diritti fondamentali.
Nell’articolo sul relativismo abbiamo sottolineato che – sul piano culturale – l’idea di una verità liberamente proposta è il sale del pluralismo. Parimenti, sul piano giuridico, la rilevanza pubblica di alcuni valori rinvenuti nella natura e nella tradizione – come ci insegnano la tradizione e il metodo del diritto naturale - è inevitabile anche in uno Stato laico, liberal-democratico, che difenda il pluralismo politico. Abbiamo evidenziato all'inizio che non esistono scelte neutre, ma tutte effettuano una selezione di interessi in base ad un criterio di valori. Un’autentica laicità non può essere il pretesto ipocrita e – stavolta sì – intollerante per bloccare una discussione aperta e realmente pluralista sugli ideali che possono divenire punto di riferimento del confronto sociale.
La difesa dei valori non ha nulla a che vedere con lo Stato etico, anzi costituisce un importante antidoto ad esso. Lo Stato etico pretende di calare dall’alto un proprio sistema ideologico, di imporre un’omologazione culturale, soppiantando ogni valore naturale e sociale preesistente. In democrazia, invece, servono poche leggi, quelle che recepiscano alcuni valori essenziali dal libero confronto politico e culturale, dalle esigenze concrete delle realtà interessate; valori che fondino il senso d’appartenenza ad una cittadinanza comune.
La dialettica tra valori e norme positive è fondamentale per il sistema democratico. Non solo perché, come abbiamo visto, il metodo di maggioranza non garantisce la protezione dei diritti fondamentali della persona. Ma anche perché – ribadiamolo ancora - la norma non è solo formalità della procedura, ma soluzione efficace ai problemi della convivenza. La democrazia, se non vuole degradare e corrompersi, non può essere una scatola vuota, fine a se stessa, ma deve essere orientata alla promozione umana: è necessario costruire una democrazia dei valori. Sul legame tra democrazia e valori si è espresso chiaramente Giovanni Paolo II in un passo della Centesimus Annus: “Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo e il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità e aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico (…) A questo proposito bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia.” (CA, 46)
Il diritto naturale, dunque, serve come parametro di elaborazione e giudizio delle leggi. Non solo nel senso che la legge naturale contiene una serie di principî – più o meno inviolabili, più o meno aggiornati a contesti storico-culturali diversi – con cui debbono confrontarsi le norme positive, per non risultare inutili e dannose. Ma anche nel senso che esiste una tradizione del diritto naturale che costituisce un metodo per l’elaborazione del diritto: un metodo attento alla pluralità degli ordinamenti, alla dignità e ai diritti fondamentali della persona umana, all’importanza del confronto razionale, alla rilevanza delle tradizioni, alla funzione della norma giuridica, al rapporto tra religione e realtà umana, all’equilibrio tra giustizia formale e sostanziale. Si può parlare quindi, come per il positivismo giuridico, di un irrinunciabile contributo - storico e attuale - del diritto naturale all’elaborazione metodologica del diritto.

(Il nucleo di quest’articolo - ora completamente riveduto ed ampliato - è stato parte del documento predisposto per il meeting di Vallombrosa del 27-29 giugno 1997. Il paragrafo Il diritto naturale ancoraggio per i diritti umani fondamentali si basa sulla stesura originaria di Federico Eichberg)
Fonte: http://www.europaoggi.it/content/view/309/45/ (prelevato il 17 dicembre 2008)