22 dicembre 2007

Se li coinvolgiamo sulle cose che contano

I genitori e la scuola
di Davide Rondoni
E ora che solo uno su dieci dei genitori è andato a votare nelle elezioni scolastiche negli istituti statali, si scopre che c’è qualcosa che non va. Sì, insomma, di fronte al grande segno di disinteresse rispetto alla partecipazione prevista dagli attuali ordinamenti ci si domanda: come mai ai genitori interessa poco o niente della scuola? Sembrava questa ieri la domanda prevalente sui media che si sono occupati della faccenda. Dalle percentuali di partecipazione del ’74, anno di attuazione, che videro il 77% dei genitori delle scuole elementari, il 72,7% delle medie e il 60% delle superiori, si è scesi inesorabilmente fino agli attuali 29,8 e 21,0 e 10,1.
Dunque, ai genitori interessa davvero po­co della scuola dei loro figli? Si possono fare infinite analisi sul dato, ma il cuore del problema non deve sfuggire: la scuo­la come è organizzata tiene lontano i ge­nitori da una responsabilità attiva. Cer­to, molti genitori sono pure svogliati e approssimativi. Ma il grosso del proble­ma è un altro. Lo ha centrato l’ex mini­stro De Mauro in un’intervista di ieri. In­fatti, mentre Maria Laura Rodotà invita­va i genitori a partecipare ad assemblee per affrontare il problema della sicurez­za fuori dalle scuole e per scegliere qua­li tende ricevere, De Mauro accusava l’at­tuale centralismo e la mancanza di rea­le autonomia delle scuole, e dunque la possibilità di coinvolgere i genitori in scelte davvero qualificanti. Come la scel­ta dei docenti, degli orari, dei contenuti e delle modalità di insegnamento. Chie­dere il parere ai genitori solo sulle tende e su problemi di sicurezza, per quanto importanti, significa di fatto escluderli dalla reale missione della scuola, che è quella di istruire educando.
Questa esclusione è figlia di un’idea per cui lo Stato presume di avere l’esclusiva 'paternità' dei contenuti e delle moda­lità formativi ed educativi. In altre paro­le, è come se la scuola di Stato dicesse: ve­nite, lasciateci i vostri figli da formare, costa poco, e in cambio vi chiediamo po­co, al massimo un parere sulle tende e su come tenere lontani brutti ceffi dai can­celli. Una cultura della irresponsabilità, figlia del centralismo statalista, difesa, come riconosce lo stesso ex-ministro, da molti tra coloro che son chiamati a pren­dere decisioni «sia nel Parlamento che tra le rappresentanze politiche e sinda­cali ».
De Mauro parla di grandi resistenze. Ma cosa difendono costoro? Dinanzi a ogni proposta che vuole movimentare l’attuale sistema scolastico, statalista e de­presso, si alza un coro di resistenti. Che accusando ora uno ora l’altro – il mini­stro se vuol cambiar qualcosa, i cattolici perché vogliono parità e libertà scolastica, o Confindustria che chiede a sua vol­ta scelte innovative – si attesta sulla dife­sa dell’esistente.
Ora anche dal mondo dei genitori arriva un segnale, disperatamente forte: que­sta scuola ci interessa poco. Forse è ora di chiedere uno scatto di responsabilità a tutti. Una scuola poco interessante per i ragazzi, per i genitori e per chi ci si im­pegna tutti i giorni è una scuola malata. Che ammala l’intera società di cui è si­lenzioso ma quotidiano humus. Mentre si fa anche troppo parlare di altri pro­blemi minori, snobbare il segnale lan­ciato dai genitori sarebbe una grave mio­pia. Certo, si possono migliorare i mec­canismi di rappresentanza. Si possono fare modifiche qua e là. Ma c’è un im­pianto generale a cui metter mano. Lo possono fare uomini coraggiosi e fidu­ciosi nel futuro. Che non abbiano paura di chiedere più responsabilità a tutti nel­l’opera grande e delicata della educazio­ne. Ai docenti responsabilità nei con­fronti della verità e della libertà. Ai geni­tori nei confronti della maturità dei pro­pri figli. Agli studenti nei confronti di un compito che non si esaurisce nel solo cavarsela.
Occorrono uomini che non badino solo al calcolo o alla difesa di posizioni di ren­dita. Per educare, occorre amare la vita più che il proprio tornaconto.
«Avvenire» del 29 novembre 2007

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