23 dicembre 2007

«Meglio i Borbone dei Savoia»

Un saggio di Gigi Di Fiore sulla guerra al brigantaggio e altri episodi oscuri
di Antonio Carioti
Nuove polemiche sui torti subiti dal Sud dopo l’unità d’Italia
Non parla male solo di Garibaldi, ma anche di Cavour e di tutta la classe dirigente liberale dell’epoca. Ma gli imputati principali sono i Savoia. Lo dice già il titolo: la Controstoria dell’Italia unita scritta per Rizzoli da Gigi Di Fiore, inviato del Mattino e sperimentato saggista, è una sorta di requisitoria. Non una ricostruzione completa delle vicende risorgimentali (mancano i moti mazziniani, le Cinque giornate di Milano, la Repubblica romana del 1849), ma una rassegna degli intrighi, degli abusi e degli inganni che accompagnarono il processo di unificazione. Lo scopo dell’autore non è però puramente dissacratorio o recriminatorio. A suo avviso, proprio i vizi d’origine del Risorgimento si riflettono sulle difficoltà dell’Italia di oggi, perché i padri fondatori ci hanno lasciato in eredità un Paese zoppicante e sconnesso, ancora segnato dalle cicatrici di quella che, secondo Di Fiore, fu un’operazione chirurgica compiuta senza troppi riguardi. Diversi i capi d’accusa contenuti nel libro. In primo luogo l’unità d’Italia non fu il prodotto di una spinta dal basso, che c’era, ma riguardava piccole minoranze, bensì di una conquista militare compiuta dai Savoia annettendosi gli Stati preunitari e appoggiandosi nei momenti cruciali sulle armi straniere, francesi nel 1859, prussiane nel 1866. C’è di più: il Risorgimento, sostiene Di Fiore, non fu soltanto lotta contro il dominio straniero, ma ebbe anche caratteri di guerra civile, italiani contro italiani, specie nella fase che vide crollare il regno delle Due Sicilie. L’annessione del Sud allo Stato sabaudo, incalza l’autore, avvenne tramite «un’azione ben organizzata» con l’avallo del governo di Torino, la spedizione dei Mille, che poi sfociò in «una guerra d’invasione» quando le truppe di Vittorio Emanuele II penetrarono in territorio Borbonico. Seguì un feroce conflitto tra cafoni meridionali alla macchia ed esercito italiano, denominato impropriamente «lotta al brigantaggio», con eccessi cruenti su cui si soffermano le pagine più impressionanti del libro. Altra scelta disastrosa, continua Di Fiore, fu l’estensione delle leggi piemontesi a tutta la penisola, accompagnata da un accentramento amministrativo estremo, da cui derivarono i tratti autoritari di una dinastia abituata a governare con i prefetti, se non con gli stati d’assedio. Viene quasi da pensare che l’autore consideri i Borbone preferibili ai Savoia, almeno dal punto di vista del Sud, che pagò per l’unificazione il prezzo più alto. La conclusione è che siamo una nazione assemblata male, come del resto studiosi delle più varie tendenze (molti per nulla ostili al Risorgimento) sottolinearono sin dai primi anni dopo l’unità. Rispetto al loro giudizio, Di Fiore aggiunge un’attenzione particolare per le ragioni dei vinti, gli italiani rimasti fedeli agli Stati preunitari, che videro crollare il loro mondo davanti al corso inesorabile della storia.

La caduta del regno di Francesco II di Borbone è uno dei temi principali trattati da Gigi Di Fiore in «Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento» (Rizzoli, pagine 463, 19,50)
Di Fiore è inviato del quotidiano «Il Mattino» di Napoli. Ha scritto «I vinti del Risorgimento» e «La camorra e le sue storie»
«Corriere della sera» del 29 novembre 2007

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