13 dicembre 2007

L’estremista è lo scrittore

Il romanzo di Domenico Starnone
di Paolo Di Stefano
Il nuovo romanzo di Domenico Starnone, Prima esecuzione (Feltrinelli, pagine 142, 12), è anche un libro sul terrorismo. Anche. Ma soprattutto è un romanzo sullo scrivere romanzi e, a suo modo, diciamo, calviniano. Un metaromanzo? Detto così, il rischio è che possa apparire noiosissimo a chi non l’abbia ancora letto, e invece il fatto sorprendente è che non lo è per niente, noioso. È un libro a tratti avvincente con una trama che ti tiene sulle spine, ma che viene di continuo posta in discussione e persino qua e là aggiustata in diretta dall’autore, che entra nella narrazione a mettersi in gioco in prima persona. Il romanzo è infatti costruito su un doppio binario. Da una parte la storia di Domenico Stasi, un professore in pensione coinvolto dalla sua ex allieva Nina, ormai più che trentenne e accusata di associazione a banda armata, in una vicenda di probabili complicità e violenze. Dall’altra c’è l’autore, Starnone, che interviene a ragguagliare il lettore sull’elaborazione del racconto, sui dubbi che lo hanno portato a scegliere una soluzione narrativa piuttosto che l’altra, sulle implicazioni autobiografiche della vicenda, eccetera. In tal senso, il romanzo di Starnone è anche anticalviniano, poiché porta a galla le emergenze personali ed emotive dell’autore. Per esempio, dopo che il professor Stasi, in preda ai malesseri della vecchiaia aggravati dalla vedovanza, si è recato (come richiestogli da Nina) a visionare nell’appartamento di uno sconosciuto una copia della Morte di Virgilio di Broch, l’autore fa capolino confessando la propria insoddisfazione per quell’incipit. E precisando che nel fabbricare il suo romanzo aveva sovrapposto materiali della realtà a elementi di pura fantasia, combinandoli in maniera capricciosa e spesso inconsapevole. Sicché il libro finisce per mettere a nudo i sottili meccanismi dell’invenzione letteraria (e sarebbe sicuramente piaciuto a una studiosa come Maria Corti, attenta esaminatrice dei percorsi mentali da cui nasce un testo narrativo o poetico). Fatto sta che Prima esecuzione si presenta al lettore più che come un romanzo vero e proprio come la storia dell’elaborazione (la «prima esecuzione», appunto) di un romanzo possibile, comprese le ipotesi via via scartate. E insomma, alla fine, il libro risulta anche una provocazione rispetto alla letteratura esistente: da una parte quella che lavora sulle riesumazioni di forme del passato (e che mette al bando l’esperienza individuale) o di generi collaudati (giallo, noir eccetera, insomma le narrazioni di pura trama); dall’altra quella neorealista o documentaria e civilmente impegnata. Il tutto avviene recuperando altre forme, tipicamente novecentesche, magari cadute in disuso, come il racconto morale e il saggio autobiografico, e lasciando che il «thriller» che affiora qua e là (una pistola recapitata al protagonista...) si configuri come una sorta di parodia delle ossessioni o mode letterarie correnti. Starnone prende tre-quattro piccioni con una fava, ma senza darlo a vedere. Con ironia e leggerezza. Il suo libro potrebbe essere definito comodamente un romanzo politico, certo. C’è anche questo, ma qui si tratta di una riflessione non tanto su ciò-che-eravamo negli anni di piombo, quanto sul sottile velo che separa colpa e innocenza, sulla trasmissione del sapere, sulla memoria, sul valore morale dell’insegnare, sul rapporto tra le generazioni. È proprio a Sellitto, un ex compagno di classe di Nina diventato commissario di polizia, che è toccato il compito di arrestarla: e allora com’è possibile che da un maestro che per una vita ha predicato la necessità di ribellarsi alle ingiustizie siano venuti fuori due tipi tanto diversi, una rivoluzionaria in armi e un difensore dell’ordine costituito? È chiaro che Stasi sta idealmente con la prima, per quella sua tenace «abitudine mentale a forme di reazione estrema». Finirà così per obbedire agli ordini che giungono da uno o più invisibili demiurghi e per costeggiare la violenza. Rischiando sempre di perdersi, ma senza mai perdere il filo della sua storia. Perché il primo dei suoi demiurghi è l’autore del romanzo.
«Corriere della sera» del 14 novembre 2007

Nessun commento: