22 dicembre 2007

Il latino vive sotto la pelle dell’Occidente

Un paio di giorni or sono, in un suo editoriale, il «New York Times» ha consigliato ai candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America di studiare il latino
di Sabino Acquaviva
Studiatelo, consigliava giornale, perché è «una lingua eterna», «apre la mente», «aiuta a leggere il passato e capire il presente», infine «è una lingua che è sotto la pelle dell’intera civiltà occidentale». Purtroppo la sua presenza si è indebolita insieme a quella di una cultura che ha le sue radici più antiche in Europa. Però il latino non è soltanto importante per la nostra civiltà nel suo complesso, ma anche per il cattolicesimo. A questo proposito ricordo quanto scrisse Thomas Mann, il famoso romanziere, entrando in una chiesa in Australia quando la liturgia era ancora in prevalenza in latino. Vivendo un’esperienza per lui importante, disse pressappoco: ascoltando il sacerdote che si esprimeva in latino, riflettei sul fatto che in quel momento in tutto il mondo si usava quell’unica lingua per celebrare la messa. Soltanto allora mi resi conto della universalità del cattolicesimo, capace di usare il latino presso ogni popolo, qualsiasi fossero la sua lingua, la sua storia, la sua cultura. Perché mi sono ricordato di quella riflessione leggendo il «New York Times»?
Perché ho capito che la salvezza del latino passava soprattutto, in parte passa, attraverso le liturgie latine del cattolicesimo. Ma, a questo punto, viene spontanea una domanda che riguarda più da vicino la religione in senso lato: se una liturgia viene celebrata in una lingua che è considerata da molti una lingua morta, si tratti del cristianesimo o dell’islam, e quindi del latino o dell’arabo antico, l’uso di quella lingua riduce o aumenta la possibilità di capire il significato dell’esperienza religiosa? Arricchisce o impoverisce dal punto di vista religioso? Da un lato, è cosa nota, l’uso liturgico di una lingua viva aumenta il numero delle informazioni di cui dispone chi vive un’esperienza liturgica collegata appunto all’uso di tale lingua viva, anzi, di un’infinità di lingue; da un altro lato si indebolisce un messaggio che in tutte le religioni passa attraverso il senso del mistero e dell’eterno alimentati dall’uso di una lingua universale, antica e immutabile. Era Søren Kierkegard, il filosofo, che diceva: «Due uniche certezze, l’infinito e l’eterno». Una lingua'eterna' e 'universale' come quella latina consente appunto di vivere più profondamente le esperienze del mistero e dell’universalità, cioè dell’infinito, dell’eternità, appunto perché essa è immutabile. In conclusione, oggi si comunicano più informazioni culturali, ma se ne trasmettono meno guardando alla religione appunto come esperienza dell’infinito e dell’eterno. Il discorso sul latino riguarda certamente il cattolicesimo e più in generale la religione ma, come abbiamo visto, è uno dei pilastri della cultura di questa Europa che è certamente in decadenza anche perché va distruggendo le proprie radici millenarie e la propria cultura più antica che, non dimentichiamolo, sono state la linfa della civiltà dell’intero pianeta. Quando gli europei hanno smesso di essere fieri della loro civiltà e cultura?
Anche quando hanno smesso di considerare il latino, adopero il termine utilizzato dal «New York Times», «sotto la pelle» dell’intera civiltà occidentale.
«Avvenire» dell’8 dicembre 2007

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