23 dicembre 2007

Giornalisti: il potere e il dissenso

Due Meridiani a cura di Franco Contorbia offrono un panorama dal 1860 al 1939
di Luciano Canfora
Dai reportage di Indro Montanelli agli Acta diurna di Guido Gonella
Le voci della stampa italiana fra ricerca dello stile e critica politica
Chi inventò i giornali? E cosa si deve intendere con tale parola? «Giornale» corrisponde a due oggetti ben diversi, che poi hanno finito per mescolarsi e contaminarsi: «journaux» e «gazettes», secondo la canonica classificazione fissata nel libro fondativo della modernità, l’Encyclopédie. «Gazette» (la voce è scritta da Voltaire) viene lì spiegato come «relation des affaires publiques», mentre «journal» (la voce, siglata Z, è quasi certamente di Diderot) è opera periodica «qui contient les extraits» dei libri appena usciti. Voltaire precisa che le «Gazzette» furono inventate a Venezia al principio del Seicento («gazeta» era il nome di una moneta equivalente a mezzo soldo): fogli che uscivano una volta alla settimana. E subito in apertura il principe del secolo dei lumi (al quale dovremmo tornare a guardare) offre un panorama storico. Tali gazzette esistevano già in Cina da tempo immemorabile: esse però - precisa - riguardavano unicamente quell’impero, invece quelle d’Europa «embrassent l’univers». Cesare volle che gli acta diurna fossero regolarmente resi pubblici (così Svetonio), ma Augusto lo vietò. Anche per questo, forse, Guido Gonella avrà scelto «Acta diurna» come titolo della sua rubrica nell’Osservatore romano, che tanto fastidio diede al fascismo, la cui occhiuta censura non poteva agevolmente estendersi all’organo semiufficiale del Vaticano. Degli «Acta diurna» di Gonella, ripubblicati trenta anni fa, possiamo oggi apprezzare una perla nei recenti Meridiani Mondadori (Giornalismo italiano 1860-1939, 2 volumi. Il primo volume, di pagine 1832, 55, il secondo di pagine 1920, 55)) egregiamente curati da Franco Contorbia. Ci soffermiamo sul dittico finale: da un lato il commento di Gonella al patto di «amicizia e alleanza» tra Mussolini e Hitler (L’Osservatore romano, 24 maggio ‘39), dall’altro l’eccitata corrispondenza di Montanelli per il Corriere della Sera con le truppe del Reich sul fronte orientale (6 settembre 1939): «Da oggi le truppe tedesche hanno agganciato il troncone mozzo della Prussia Orientale rinsaldandolo alla Patria». Gonella vede lucidamente, già in maggio, lo scenario futuro. E commenta in stile oggettivo ma inequivocabile le conseguenze del patto, in particolare dell’articolo 5: «A termini di questo articolo, l’immediata assistenza bellica prescinde da ogni valutazione sul carattere della guerra e sulle sue cause. Il semplice fatto della guerra provoca automaticamente l’assistenza la quale non potrà cessare con una pace separata». Impegni del genere - osserva - si assumono solo tra governi che legano in modo totale e indissolubile i destini dei loro popoli. Quindi prevede che l’iniziativa italo-tedesca «potrà determinare l’Inghilterra e la Francia ad accelerare i tempi del negoziato con la Russia». E citando le parole del Petit Parisien prevede un patto «anglo-franco-russo corrispettivo all’azione dell’Asse». Come si sa, la storia andò diversamente. «Alla luce degli avvenimenti», per dirla con Churchill, «si può affermare che Francia e Inghilterra avrebbero dovuto accettare l’offerta sovietica, proclamando la Triplice Alleanza» (Da guerra a guerra, p. 397). Merito di questa silloge di Contorbia è appunto di aver saputo far udire, quanto possibile, due voci. Così accanto ad Alvaro che annuncia con toni lirici la nascita di Sabaudia su La Stampa del novembre ‘33 c’è Angelo Tasca che, dall’esilio, sul Nuovo Avanti definisce la morte di Gramsci «il più grave fatto compiuto inflittoci dal fascismo». Se manca Lo Stato operaio, c’è però il Contra Judaeos di Guido Piovene inneggiante all’omonimo volume di Telesio Interlandi edito da La difesa della razza. Nel ‘38 gli italiani non furono «brava gente». Proprio grazie ad una silloge come questa, dove si alternano le voci del potere e quelle dell’opposizione o dell’esilio, il lettore potrà cogliere grandezza e miserie del più potente strumento capace di condizionare, prima del piccolo schermo, la formazione stessa dell’opinione e del consenso. Dicevamo in principio che «giornali» e «gazzette», nati separatamente, ormai sono una cosa sola. Ed è un vantaggio. In questi due volumi è compreso lo scritto di Gramsci in morte di Renato Serra apparso nel novembre del ‘15 sul Grido del popolo. Letteratura e politica lì si fondono perfettamente. Ma una parola va detta a riguardo della nascita stessa dei «giornali». Circa il 1670, Leibniz pensa di creare un giornale letterario e studia la Biblioteca del patriarca Fozio (IX secolo) ravvisandovi un modello. Per contro l’organo dottrinale-letterario dei Gesuiti, i Mémoires de Trévoux, contesta a Fozio tale primato, suscitando repliche (per es. del calvinista Camusat). Non avevano torto ad accapigliarsi su questo punto. Capivano quanto forte possa essere la politica «alta» che si può fare dalle pagine culturali di un giornale. Ma il punto di svolta di questa storia è ancora una volta nel venticinquennio decisivo che, dopo l’esplosione rivoluzionaria, vide l’instaurarsi della censura di polizia per volontà di Napoleone; e soprattutto nei decenni della Restaurazione, gravidi della nuova storia (che è ancora la nostra). La lotta contro la saldatura tra vecchia aristocrazia e nuova borghesia fu fatta nel nome della «libertà di stampa»: si ritrovarono insieme veri liberali, vecchi giacobini e nuovi socialisti. Non sarà un caso che le grandi figure dell’Otto e Novecento abbiano tutte esordito, e attivamente operato, come «giornalisti».

«Corriere della sera» del 16 dicembre 2007

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