23 dicembre 2007

Dissenso proibito

Polemiche Martin Amis è l’ultimo bersaglio di un’ostilità feroce: da Oriana Fallaci ad Ayaan Hirsi Ali, a Bernard Lewis
di Pierluigi Battista
In Occidente solo omertà o attacchi violenti per chi si oppone ai fondamentalisti islamici
Il silenzio omertoso, oppure la polemica all’insegna dell’eccesso lessicale. La distrazione o, all’opposto, la guerra culturale condotta a colpi di ingiurie sanguinose. L’indifferenza o lo stile tonitruante dell’anatema. Ogni volta che si parla del rapporto tra Occidente e islamismo politico, si entra in un universo in cui la dismisura è la regola, il fair play stracciato, infranto il rispetto minimo delle regole che dovrebbero ispirare una discussione politico-culturale, anche se accesa e appassionante. E infatti sembra semplicemente incredibile che uno scrittore come Martin Amis venga reiteratamente accusato di «razzismo» solo perché ha messo in luce le ambiguità dei leader della comunità musulmana britannica nei confronti del terrorismo fondamentalista. Incredibile, ma vero. Come è vero che Bernard Lewis, uno dei più accreditati studiosi di questioni islamiche, che sarà presente a un convegno romano su «La battaglia per la democrazia nel mondo islamico» organizzato dall’Adelson Institute e dalla fondazione Magna Carta, venga scomunicato come un lacché culturale al servizio del Satana americano, senza che un trattamento così grottesco susciti una qualche reazione nella comunità accademica internazionale. Il feroce attacco ad personam e il silenzio reticente, stavolta fatalmente destinati a sciogliersi in un binomio perfetto. Non c’è, purtroppo, da meravigliarsene. Amis è stato lasciato solo a vedersela con i suoi denigratori, se si eccettua un coraggioso intervento in sua difesa di Ian McEwan. Ma almeno non gli è stato negato il diritto di parola, come accade con Saad Eddin Ibrahim, l’intellettuale egiziano che subì una condanna a sette anni al Cairo per reati d’opinione e che sarà presente al convegno di Roma. Resta però la sensazione di imbarazzo che ha accompagnato la vicenda dell’attacco concentrico ad Amis. Lo stesso imbarazzo che impone il silenzio attorno alla vicenda di Ayaan Hirsi Ali, perseguitata in Olanda dai fondamentalisti islamici che non le perdonano la collaborazione con il regista di Submission Theo Van Gogh, ritualmente assassinato nel centro di Amsterdam nel 2004, e la sua «apostasia» raccontata in un libro straordinario come Infedele (Rizzoli). Alla Hirsi Ali, anziché solidarietà, venne semmai trasmessa l’ostilità di intellettuali peraltro non indulgenti verso il fondamentalismo antioccidentale come Ian Buruma e Timothy Garton Ash, in un dibattito in cui a prendere le parti della scrittrice olandese intervennero Pascal Bruckner e Mario Vargas Llosa. Alla fotografa e artista iraniana Sooreh Hera non è invece arrivata né l’ostilità né il sostegno quando, nei giorni scorsi, la sua opera considerata «blasfema» nei confronti di Maometto è stata cancellata da una mostra al Museo dell’Aja e un suo incontro con un altro perseguitato dal fondamentalismo islamista come Salman Rushdie è stato annullato: solo silenzio, un silenzio assoluto e senza scampo. Eppure, i segni di un trattamento minaccioso, intimidatorio, apertamente censorio nei confronti di chi legge con modalità radicali il conflitto tra Occidente e islamismo appaiono tremendamente ripetitivi. Un insegnante francese, Robert Redeker, dopo aver scritto sul Figaro un articolo a favore del discorso del Papa a Ratisbona, è stato allontanato dalla scuola e costretto a vivere in clandestinità: non si registrano appelli degli intellettuali francesi a suo favore. Sempre in Francia uno scrittore come Michel Houellebecq è stato messo sul banco degli imputati, accusato di aver divulgato con il suo romanzo Piattaforma (Bompiani) un ritratto addirittura diffamatorio dell’Islam, con una veemenza polemica e un’asprezza di toni di gran lunga più feroci di quelli adottati nei confronti di Martin Amis. Ma come dimenticare il tambureggiare di analoghe accuse, accompagnato da liturgie dell’odio e da campagne martellanti di delegittimazione, che ha scandito gli ultimi anni di vita di Oriana Fallaci, a partire alla pubblicazione del libro La rabbia e l’orgoglio, scritto all’indomani dell’11 settembre? O anche l’originale procedura intimidatoria, il senso di intimazione al silenzio che emanava da un appello di intellettuali rivolto contro gli scritti di Magdi Allam? O l’invocazione della censura per deplorare la scelta del Foglio di Giuliano Ferrara di pubblicare immagini raccapriccianti della decapitazione di un «infedele» per opera di un gruppo di jihadisti iracheni? Il modello da ricalcare sembra sempre lo stesso: l’accerchiamento del reprobo, la denuncia corale di un pensiero considerato «pericoloso» per il fatto stesso di esistere, la mobilitazione allarmata ed allarmistica per rinchiuderlo in un recinto infetto e infrequentabile. Una cappa plumbea di sospetto cala così, in molti Paesi dell’Europa, sull’identità di scrittori, intellettuali, giornalisti che tra l’altro hanno matrici culturali diverse, stili argomentativi diversi, modi di pensare assolutamente diversi. Ma ogni singola identità viene stravolta e deformata. C’è bisogno di dire che Amis non è un razzista, che l’impegno della Hirsi Ali non ha nulla di illiberale, che la Fallaci non predicava l’intolleranza, che Houellebecq non è un maestro di volgare islamofobia? Eppure, è questo stravolgimento di identità che spegne ogni barlume di solidarietà con chi viene brutalmente invitato a mettersi volontariamente il bavaglio prima ancora che lo facciano altri. Ed è questa diffidenza che blocca sul nascere ogni attenzione verso gli intellettuali che sotto i regimi islamici vorrebbero ragionare liberamente sul rapporto tra Islam e democrazia. Con una replica, stavolta imperdonabile, di ciò che accadde con gli scrittori e gli artisti che prima del 1989 manifestavano coraggiosamente il loro dissenso nei confronti dei regimi comunisti, nell’assoluta indifferenza dei colleghi occidentali pur pronti a sposare infaticabilmente ogni genere di nobile causa: nobile sì, purché non avesse a che fare con i dissidenti dell’Est. Eppure, nel destino degli intellettuali perseguitati dall’islamismo è solo l’attenzione internazionale a costituire l’unica polizza di assicurazione per la loro vita, l’unico salvacondotto che permetta la circolazione delle loro idee. Ma la loro supplica non trova sponde, e nemmeno ascolto.
«Corriere della sera» del 7 dicembre 2007

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