13 dicembre 2007

Critici, essere faziosi è un dovere

Il pensiero militante nell’epoca del conformismo. Interviene Massimo Onofri
Di Cristina Taglietti
«Né piacevoli né corretti». I modelli restano Baldacci e Raboni

«La critica, quando è vera, è sempre militante e quindi antagonista». Così si potrebbero riassumere le tesi di La ragione in contumacia (sottotitolo «La critica militante ai tempi del fondamentalismo»), breve e appassionato pamphlet di Massimo Onofri, in questi giorni in libreria (Donzelli, pp. 122, 15), che ben si inserisce nel dibattito aperto dal Dizionario della critica militante di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli, appena uscito da Bompiani. Nel saggio Onofri si rifà alle radici illuministiche della critica («ma non nel senso di quel revival dell’illuminismo che, riproponendo la lex naturale, va nella stessa direzione di Ratzinger», precisa), parla del «ri-uso», come teorizzava Franco Brioschi, in chiave contemporanea dei testi, riafferma la necessità di concetti come «valore» e «canone», di un «giudizio di gusto» che vive della retorica dell’argomentazione. Onofri non considera l’Autore morto, anzi lo interpreta come «un’entità non riconducibile né alla vita né alla scrittura, ma quale risultato della loro misteriosa contaminazione». Degli aggettivi che La Porta, nel Dizionario, gli attribuisce, e cioè «fazioso umorale e rissoso» (ma scrive anche che «leggere le sue pagine è come prendere una boccata d’aria nel nostro ingessato sistema culturale»), Onofri riconosce come suo soltanto il primo, anzi lo rivendica. La faziosità, e cioè la scelta, è insita al mestiere del critico, altrimenti si è un’altra cosa: storici della letteratura, filologi, scrittori. «Negli anni Settanta, quando io andavo a scuola, Soldati non esisteva nei manuali. Credo di essere stato il primo a dargli in un manuale scolastico uno spazio pari a quello di Moravia per esempio. È chiaro che una ricollocazione di Soldati può significare sacrificare qualcun altro, magari Calvino». Onofri sposa l’idea di Giulio Ferroni di «un’ecologia della letteratura»: «Inorridisco quando sento dire che c’è posto per tutti. Non è così: il critico ha il dovere di denunciare "l’ecomostro", anche quando ha successo». Non solo: c’è un altro male: «Il piacere del testo è diventato l’elogio della piacevolezza. Abbiamo dimenticato tutta una tradizione umanistica per cui la bellezza era un processo che passava anche attraverso la sofferenza. Personalmente voglio leggere libri che facciano soffrire, che mi costringano a mettermi in discussione, il piacevole mi annoia». L’intrattenimento, il successo, sono concetti che per Onofri poco hanno a che fare con la critica. «Prendiamo Guido Da Verona e Federigo Tozzi: il pubblico premiò il primo, del secondo soltanto Giuseppe Antonio Borgese riconobbe subito la grandezza. Chi aveva ragione? Oggi, la stessa contrapposizione si può fare tra Tabucchi e la Ramondino. Il primo, soprattutto negli ultimi romanzi, è rassicurante, corretto, la seconda è aspra, misteriosa, di grande eleganza. La sfida delle copie la vince Tabucchi». Un critico militante, secondo Onofri, deve essere necessariamente polemico, «deve saper dire di no ai testi». Molti invece non lo sanno fare. «Carlo Bo, per esempio: paradossalmente era la negazione della critica militante. Un po’come oggi Emanuele Trevi, che ha certamente una bella penna ma è troppo camaleontico, trova preoccupante scrivere di qualcosa che non gli piace. Così come non capisco perché Roberto Cotroneo si sia pentito di aver praticato, negli anni giovanili, la stroncatura. Oggi si è lasciato andare a una certa pratica del consenso, recensendo solo scrittori celebrati e politicamente corretti. Critici militanti per eccellenza sono stati Luigi Baldacci e Giovanni Raboni che nel suo I bei tempi dei brutti libri, giocava sui parallelismi, su coppie di autori da mettere in contrapposizione e tra cui fare una scelta». E se, a differenza di quanto scrivono La Porta e Leonelli nel Dizionario, non possono essere considerati critici militanti Pietro Citati («lo è stato negli anni Cinquanta, adesso ci parla solo dei classici») o Roberto Calasso («un ginnasta degli assoluti»), oggi, secondo Onofri, la categoria gode di buona salute: «La rappresentano bene Alfonso Berardinelli, Raffaele Manica, Giorgio Ficara, Bruno Pischedda, Massimo Raffaelli, il giovane Paolo Febbraro. Anche Andrea Cortellessa ha una grande attrezzatura tecnica, ma, anche lui, a volte, rischia di dire troppi sì».

Quanta confusione sotto la stroncatura
Di Giorgio De Rienzo
Ogni anno torna il tormentone: la critica «militante» c' è ancora? Se c' è, che fa? Deve privilegiare gusto o impegno? esprimere un giudizio o solo la comprensione del testo? Il tema, nella forma, varia. Il tema può esser questo: stroncare è bello. Cadono allora qua e là colpi vibrati a caso. Il gioco diverte ma presto stanca. Arriva dunque un ribaltone che muta lo spettacolo con un' idea curiosa: l' autore reclama il diritto all' «autorecensione». E perché no? È un intrattenimento, con cui si può smarrire con leggerezza il buon senso. Ma mentre si discute, si consolida la confusione. I critici scrivono poesie e romanzi, mentre poeti e narratori si fanno recensori. Nulla di male, per carità, se non si stabilisse una complicità scaltra a fare chiasso. Le recensioni diventano inutili: il loro modesto scopo era quello di informare il lettore su un libro letto con umiltà e senza pregiudizi. Ma da almeno vent' anni un fatto è ben visibile: i lettori di un giornale spesso non hanno un critico di riferimento a cui credere, mentre l' intervista di promozione, la notizia costruita intorno a un libro prendono sempre più spazio. È uno scaltro «fai da te» di chi scrive o stampa libri che rende solo decorativa (quando lo è) la recensione. A un critico serio, per riuscire a esprimersi dignitosamente, non resta altro allora che acquisire un prestigio personale sui lettori, nonché imparare a destreggiarsi fra regole ambigue. Non è un problema. Conoscere le regole, saperci stare dentro, senza macchiarsi (in proprio) di nefandezze, è facile. Difficile è invece capire in ogni momento la parte che si recita, quando tutto congiura nel mondo fittizio della cronaca culturale ad alzare un polverone. Perché può accadere che un recensore svolga allegramente il suo lavoro di fantasia, senza badare a ciò che legge (se legge). L' importante è che il mondo irreale non si sveli nel proprio «nulla» mascherato dal luccichio. Ma, in realtà, in questo nulla la critica non solo è inutile: diventa impossibile.
«Corriere della sera» del 28 novembre 2007

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